Elemire Zolla intitolò uno dei suoi libri più affascinanti: Verità segrete esposte in evidenza. Alcuni misteri infatti non perdono alcunché della propria aura sebbene appaiano materia narrativa celebrata per secoli e in forme simili.

Quest’osservazione vale massimamente per il tema di “Diana e Atteone” , vicenda mitografica greco-latina che reitera il medesimo identico episodio conservando un senso di enigma-mistero inesplicato e divenendo oggetto di innumerevoli opere pittoriche, decorazioni, incisioni e stampe senza soluzione di continuità: da Esiodo a Cranach, da Andrea Alciati a Giacomo Ceruti, da Boccaccio a Andrea Appiani, tanto per citarne alcuni fra innumerevoli esempi.

Una vicenda mitografia semplice ma mai esplicata, se non nel tentativo di metaforizzazione filosofica operato da Giordano Bruno nei suoi Eroici Furori. Riassumiamola, comunque. Qui: repetita juvant.

Il cacciatore Atteone, figlio del sapiente e apollineo Aristeo e della nobile Autonoe, figlia di Cadmo e Armonia, incontra Artemide-Diana mentre è al bagno con le sue ninfe in un bosco. Vede quindi nuda la dea. Fugge via scacciato dalla dea che lo trasforma in cervo e i suoi cani lo divorano. Mentre la colpa di Fetonte, figlio di Helios-Apollo, appare più semplice e più chiara nella sua facile allegorizzazione, qui la narrazione appare del tutto assorbita in una dinamica priva totalmente di qualsivoglia esplicazione.

Perché Diana non si potrebbe vedere mentre fa il bagno? Erano in corso ritualità riservate alle donne e che era tabù infrangere? Solo gli iniziati potevano accedere ad un nucleo segreto della vita della dea? Atteone come Penteo? Eppure non è esclusa nel mito la possibilità che un uomo possa partecipare a riti femminei segreti: basti pensare ad Achille travestito da donna alla corte di Sciro quando incontra la sua Deidamia (il daimon del demos) in uno di questi riti notturni. Perché Atteone non viene risparmiato nonostante la sua stirpe sia molto nobile e potente? Non bastava la trasformazione in cervo?

Di solito nel mito le trasformazioni sono connesse con il tema della violenza sacra e sessuale. La trasformazione mitica può essere salvifica come per Dafne o consolativa nel caso delle Meleagridi o temporanea come la follia per le figlie di Preto. Nella maggior casistica si tratta ovviamente di una punizione che gli dei infliggono a uomini rei di una colpa sacrale come quasi tutte le metamorfosi narrate da Ovidio e da Antonino Liberale. Ma sono ricordate anche mutazioni auto-degenerative o frutto di una maledizione magica come per Lamia divenuta un mostro vampiresco e per Medusa punita da Athena.

Se è abbastanza chiaro che la colpa del cacciatore Atteone si rivela una colpa rituale-sacrale non si comprende del tutto la doppia crudeltà di Diana. Eppure Artemide aveva tenuti ben altri comportamenti con il cacciatore Orione. Fatto sta che questo tema divenne celeberrimo e non basta l’importanza dell’arte della caccia presso le aristocrazie nobiliari europee per giustificarne la ricorrenza.

A Parma e nella vicina Fontanellato (Rocca di San Vitale) abbiamo due celebri cicli di affreschi dedicati a questo tema: quello del Correggio in una delle volte delle “stanze della Badessa” nel convento di San Paolo di Parma e quello del Parmigianino a Fontanellato nell’omonima “saletta di Diana e Atteone”. Temi simili dove la narrazione si conclude in entrambi i casi con la tradizionale trasformazione in cervo di Atteone e la sua susseguente morte.

Iniziamo in ordine cronologico dal primo ciclo, quello del Correggio, datato 1518-1519. Il filo narrativo parte dal camino dove vediamo Diana in trionfo sul suo carro con la classica luna crescente in fronte, l’arco, la faretra piena di frecce e un velo che tiene alzato e che ricorda il tema iconico del “velo di Ino”. Iniziamo quindi già con una variazione originale e strana. Una Diana tra le nubi e più ninfica del solito. Il velo azzurro indica il cielo? Allude a sensi cosmico-epifanici della dea?

Qui sia Panoskj che Longhi cadono. Il primo si perde nelle comparazioni letterarie (L’iconografia della camera di San Paolo del Correggio) non esaustive né decisive in quanto l’iconografia ripresa nella fascia monocromatica alla base della volta o è abbastanza criptica e indeterminata oppure originalissima (come il riquadro con Hera appesa) e narrativamente non consequenziale, non lineare. Le comparazioni letterarie quindi si rivelano riduzionistiche, insufficienti, deboli. Confondono e non chiariscono. Il “demone dell’analogia” colpisce ancora!

Longhi invece nella sua monografia sul Correggio tenta fumose ricostruzioni neoplatoniche-cristiane che si perdono nei labirinti opinabili e fumosi dell’allegorizzazione e della metaforizzazione. E qui allora intervengo io con il mio rasoio di Occam, come di solito faccio, proprio quando “i grandi” scivolano nella loro stessa erudizione non vedendo l’evidente e complicando in modo confuso i pochi elementi di supporto presenti.

Quali sono questi dati ermeneutici che ci possono aiutare nello scegliere quale sia il “campo semantico-linguistico” di questi affreschi? Eccoli: a) Diana, il camino e il motto in latino sul camino; b) i piatti e il panno che ricorrono alla base di ogni lunetta monocroma; c) le teste di ariete contrapposte che aprono e chiudono ogni arco monocromo. Strano che gli unici elementi ricorrenti, connettivi e risuonanti siano stati quelli più negletti dall’attenzione dei “grandi studiosi”, forse troppo distratti dal loro narcisismo per guardare veramente l’opera.

Il primo elemento appare il motore narrativo-semantico di tutto il ciclo: il trionfo celeste di Diana, che sembra dominare aria, etere e fuoco. La dea è colta in stato pacifico, con le armi in riposo, e mentre occupa il cielo dominando sulle nuvole con il suo carro e portando un manto azzurro. Il motto in latino recita di non disturbare il fuoco con la spada. Potrebbe essere un’allusione al carattere dolce, moderato del fuoco iniziale dell’Opera. Il tema centrale quindi è il rapporto fra “Diana” e il fuoco. Tema massimamente alchemico, non certo mitologico.

Il linguaggio alchemico si è spesso servito di altri linguaggi (mistici, tecnici, letterari) per criptare e velare i propri significati e le proprie narrazioni. Antoine-Joseph Pernety nel suo “Dizionario mito-ermetico” e nelle sue altre opere ci ricorda come il termine “Diana” sia indicativo in alchimia del “mercurio filosofico” che rappresenta il soggetto e l’oggetto principale dell’operazione di trasformazione ermetica attraverso fasi di “sbiancamento”, separazione ed esaltazione.

Gli elementi sub b) e c) confermano la centralità dominante del tema del fuoco e del sacrificio nel loro rinvio implicito al metallo e all’ara. Le stesse raffigurazioni interne alle lunette monocrome si connotano per ricorrenti rappresentazioni di libagioni, bracieri, torce, offerte, templi e are, rinviando quindi ancora una volta alla dimensione ignea e trasformativa. In alcuni casi emerge in evidenza anche un dialogo fra l’immagine della lunetta e quello dell’affresco policromo superiore come nel caso del putto che suona il corno mentre sotto un satiro suona una conchiglia.

La risonanza diviene più pregnante e suggestiva nella scena seguente, decisiva che sigilla tutto il ciclo: il putto che eleva la testa mozzata del cervo-Atteone mentre sotto una donna che si tiene la tunica a velo (similmente alla Diana iniziale) eleva con la destra una colomba che sembra stia per spiccare il volo; ennesima epifania iconica del “Mercurio”.

Il ciclo di Correggio appare iconicamente e narrativamente ancora più suggestivo di quello analogo e complementare del Parmigianino proprio per la struttura rappresentativa articolata in una serie di ovali aperti dentro un tessuto vegetale con intrecciature a trama ellittica sopra i quali pendono delle specie di vasi rovesciati e appesi ricchi di frutta. In ogni ovale ecco apparire una micro-scena di putti con elementi tratti dal corredo della caccia: levrieri, corni, frecce, archi generando così un dinamico e suggestivo “effetto frame filmico” che rende tutto l’insieme ancora più allusivo e misterico.

Questi putti sono a corredo di Diana o di Atteone? Le domande più semplici aprono gli scenari di decrittazione più profondi. Di entrambi? Non è l’opera alchemica detta in alcuni trattati “lavoro da bambini”? Non lo alludono implicitamente anche il Mutus Liber e lo Splendor Solis?

Simile la struttura del ciclo della Rocca a di San Vitale. Anche il Parmigianino dipinge una copertura vegetale con ovali, intrecciature a rombi, fiori, oro su verde e amabili putti, anche se qui son meno guerreschi e più dolci e arcadici. Al posto degli arieti abbiamo delle candide teste di cariatidi-meduse e la scena centrale sembra quella della donna con in mano una spiga e la lunetta tutta aurea. L’incontro fra i due valorizza la dualità della falce di luna di lei con la biforcazione alla base delle corna ramificate di lui.

Non c’è altro linguaggio che quello alchemico che possa reggere tale coerente complessità linguistica, decorativa e simbolica, lungo i chiari segnali del fuoco, del sacrificio e del metallo curvo.