Ho cambiato vita molte volte. E, devo dire, con una certa disinvoltura, anche con allegria.

Bruno Pellegrino giudica intelligente rispettare i segnali, quando indicano che c'è bisogno di nuovi inizi.

Un po' si ha timore. Invece, con una certa spregiudicatezza, si può andare avanti. Se c’è benzina interna, poca o tanta che sia, è più facile avventurarsi nelle novità.

La sua, di benzina, è tanta: viene il sospetto che abbia un distributore in cantina. Fondamentale non dargli del pittore della domenica. A sguardo superficiale, pare dotato nel fronteggiare gli attacchi eppure questo non lo sopporterebbe.

Esposizioni nella capitale, Vittoriano, MAXXI; a Milano, Museo Adi, Teatro Parenti; a Firenze, Palazzo del Pegaso. Chi gli darebbe del pittore della domenica? Eh, già: tizi livorosi circolano senza sosta.

La prima vita, da politico socialista, fu di suo parecchio articolata, doppia, tripla, per fortuna non di quelle che costringono a saltellare con fatica fra Natale e Santo Stefano per contentare famiglie plurime. Poi, proprio una svolta, una “torsione esistenziale” la definisce lui, che lo saprà meglio di noi, ha portato alla seconda vita che è da artista e tuttora in vigore. Tecniche miste nella pittura, sortite scultoree e perfino taglia e cuci.

Pellegrino su innumerevoli strade?

Sono stato impegnato su due piani diversi: il lavoro culturale e l'impegno politico. Ho cominciato dai circoli di periferia milanese, nella città operaia, e nei centri culturali, e presto ho assunto subito responsabilità politiche. Poi sono tornato al lavoro culturale a Milano, dirigente del Club Turati, fondato a metà degli anni Cinquanta perché la borghesia intellettuale socialista e, come si chiamavano allora, i giovani leoni dell'imprenditoria lombarda, Bassetti, Stucchi Prinetti, lo stesso Feltrinelli, volevano incoraggiare la nascita del centrosinistra e, quindi, avevano creato questo centro di cultura politica, all’inizio gestito da Roberto e Amanda Guiducci. Intorno gli gravitava un insieme di intelligenze, di saperi: Paolo Grassi, Giorgio Bocca, Eugenio Scalfari. Dopo i Guiducci era andato a dirigerlo Carlo Ripa di Meana, mio amico del cuore, pur essendo più grande di me, e Umberto Dragone, poi ancora Carlo.

Nel frattempo mi occupavo anche di televisione e ho seguito da vicino la nascita della nuova legge di riforma della RAI. Il 1975 è stato un anno di svolta: ero coordinatore di zona dell'hinterland milanese operaio, Cinisello, Sesto San Giovanni, la Brianza, per il Partito Socialista, sono diventato presidente del servizio radio e televisivi della Lombardia e segretario del Club Turati.

L'anno successivo c'è stato il cambiamento del Midas (1976 fine dell’era De Martino nel PSI e principio dell’era Craxi n.d.r.) e quindi sono tornato a occuparmi molto di politica, a Milano ma, soprattutto a livello nazionale insieme a Craxi e Martelli. Sono stato consigliere comunale, senatore e responsabile nazionale del Dipartimento cultura, spettacolo.

Il lavoro culturale è stato predominante?

Sì, mi sentivo più a mio agio, più libero e felice. Poi c’è stato proprio un trauma forte, il passaggio dal ’92 (dicembre, avviso di garanzia a Craxi n.d.r.) al ’93, e ho percepito che si era dissolto un mondo e, non dico fossi a disagio, ma avevo bisogno di altre direzioni. Sono andato a dirigere una casa editrice dell'agenzia giornalistica Adnkronos che pubblicava libri di servizio: un libro dei fatti che avevano in in cantina, l’ho fatto diventare un best-seller da 100.000 copie. E, molto in anticipo sui tempi, ho lanciato uno dei primi libri su Internet.

Sto dilagando?

Prosegua.

…e avendo seguito sempre i problemi della RAI, pure da consigliere, ho scritto RAI Spa dove lanciavo per la prima volta l'idea di una riforma radicale della RAI, tramite una fondazione che creasse un intervallo fra sé e la politica oppressiva. E un'articolazione societaria, una holding che mettesse insieme gli aspetti di servizio pubblico, che andavano preservati, ma accelerasse anche il passo nella direzione dell'impresa, quindi con ingressi di capitale, internazionalizzazione, nuove tecnologie, nuovi progetti, nuovi prodotti. Insomma la fine della televisione generalista: nascevano i i satelliti, i canali tematici.

Mi sono detto, all’epoca: "Ma perché devo stare a lavorare per una casa editrice che non è mia?”.

E ne ha fondata una?

Ho fondato un canale televisivo, Gambero Rosso Channel, con dei parenti e degli amici.

C’è ancora.

C’è, ma è tutt'altra cosa. Allora era il primo canale televisivo europeo dedicato, con un certo livello qualitativo, a una delle cose fondanti della cultura italiana: gastronomia e vini, ed ebbe un grande successo. Per reggere il ritmo della messa in onda, fondammo La Città del Gusto, che serviva ad alimentare quotidianamente la produzione televisiva.

In ogni modo: a un certo punto c’era bisogno di un altro passo, mi sono trovato a riflettere su me stesso e lì è capitata questa piccola grande magia. Io, che mi sono sempre occupato del lavoro culturale, quindi anche del lavoro artistico degli altri, non avevo mai provato minimamente a esprimermi in quella chiave. Una sera guardavo un libro bellissimo sugli animali e c'era un cinghiale rinascimentale. Non so come sia accaduto l’incanto: c'erano lì una matita e un foglio, li ho presi e ho rifatto il cinghiale.

Si è trovato un talento! Quando?

Metà anni Novanta. Incredibile: non avevo mai compiuto un gesto simile. Da quel momento, notte e giorno, ho disegnato volti, pesci, paesaggi, ho cominciato a usare tutti i materiali per non avere vincoli psicologici troppo forti perché davanti a una tela c'è sempre il dubbio “adesso che faccio?”.

Allora ho preso materiali poveri, carte da parati, quasi con lo spirito di non correre rischi. Ed è stato liberatorio. Non sono impressionista rigoroso, molto più espressionista: il sentimento, l’improntitudine, l'immaginazione immediata è ciò che più mi corrisponde. Anche di carattere. Velocemente e di continuo, ho seguitato a produrre fino a che gli amici sono stati crudelmente sottoposti sia alla visione che all’occupazione dei loro spazi domestici. Poveracci! Ma non ho mai forzato la mano, sono stati ospitali e mi hanno incoraggiato.

Il punto nevralgico del mio percorso, sta nel fatto che io non amo le gerarchizzazioni, né nella musica, né nella letteratura, né nella pittura. Naturalmente ho delle mie filiere, certo non si può fare a meno delle austro-tedesche, da Bach fino a Gustav Mahler. Ma la Magnani che canta mi commuove.

Ecco, volevo sfuggire alla dimensione del pittore della domenica: non lo dico agli altri e non lo voglio sentire neanche per me, inoltre ci possono essere dei pittori che dipingono tutta la vita senza dire nulla e uno bravo che dipinge la domenica. È una gerarchizzazione che è priva di ogni fondamento qualitativo e logico. Dire: “Lei non sa chi sono io. Sono uguale a Picasso” fa ridere i polli, ma se uno fa le cose con trasparenza e lealtà ha diritto al rispetto.

Per esempio, io penso di avere una mano particolare nel racconto dell’anima: i volti che disegno sono animati, hanno personalità.

Non è un'arte grandiosa? È minimale? Non so e non mi importa, lo faccio con il piacere. L’idea della creazione mi ha molto fatto riflettere: ci sono figure che non sono mai esistite davvero e che attraverso l'artificio artistico dei maestri o, ripeto, anche non dei maestri, diventano più reali del reale. Chissà com'era davvero la Gioconda?

Sono incanaglito nel disegnare, dipingere, arditamente, su tutti i materiali, tantissimi volti immaginari, e mi sento spesso chiedere: “Chi è?”.

Rispondo: chi non è?

Solo visi immaginari, dunque?

No, ho fatto ritratti realistici, alcuni anche belli, me lo dico da solo (ridacchia n.d.r.), però c'è un punto delicato che è l'interlocuzione con il soggetto il quale se Picasso lo fa con un occhio solo, senza un orecchio, reagisce con “Ah, Pablo mi vede così”. Se invece lo faccio io: “Ma mi vedi così?” (ridacchia n.d.r.).

Allora, egoisticamente, trovo che per me sia molto più produttivo, liberatorio e creativo immaginare volti che non esistono. La sfida mia è animarli, in una dimensione anche discontinua perché ci sono dei lavori molto accurati, non dico quasi fotografici perché detesto, ma che si avvicinano alla precisione del reale e altri solo abbozzati perché, se raggiungo il livello di espressività che cerco, mi fermo. La mia sfida non è tanto sulla qualità pittorica intesa in termini tradizionali, ma nell’esercizio di sollecitare un’emozione. Come nella scrittura: i romanzi obbligano i lettori a immaginare.

È il rapporto che ognuno di noi ha con il lavoro artistico, alcuni hanno delle fortissime reazioni di disgusto. Ogni tanto mi sento dire: “che meraviglia”, altre “è inquietante”. Bella questa varietà, no?

Traffica con i pennelli ogni giorno?

Traffico moltissimo. Una volta lo facevo a Roma e nello studio che ho a Tuscania. Ora, fra gli odori, i metalli da tagliare, a Roma disegno e basta.

E impazza nello studio di Tuscania?

A tutto tondo, sì. Soprattutto colore, olio, esplorazione di materiali. Il ferro, la plastica, le carte da parati, hanno un loro intrinseco linguaggio che non tutti vedono, ma quando ti metti a lavorare capisci che è condizionante per certi versi, ma ispirante per altri. Sulle carte da parati, mi sono messo a raccoglierle nei negozi che dismettevano i cataloghi, vedo delle tracce di occhio, di naso, di bocca che mi aiutano a partire. Ci ho fatto una mostra, me l’ha chiesto un amico.

Com’è mettersi in mostra?

Mi piace molto, è un riconoscimento, un'occasione di incontro, di condividere con gli sguardi dei visitatori. Le persone che vengono devono aprire un confronto, altrimenti sarebbe insensato. Insomma: si fa per mostrare. Inizialmente no, volevo esprimermi. Io ho la forma dell’iceberg: le opere che ho esposto sono infinitamente poche, pur avendo fatto mostre gigantesche, come quella del Vittoriano.

Vuole celare il sommerso?

Non sono capitate le occasioni di esibirlo. È una macchina complessa, quella della mostra: ci vuole un’idea. All’inizio ho esposto a 360°: volti, pesci, paesaggi, fiori, sculture. Dopo mi sono concentrato sulla mostra Personae allestita al MAXXI, al Museo del Design a Milano e a Firenze dove ci siamo incrociati.

Incrocio che ha dato il là a questa intervista.

Personae è una mostra particolare, concepita come una sorta di installazione. Maschere che, a mio modo di vedere, richiamano Pellizza da Volpedo, storicamente e legato a me perché ho seguito da vicino quel tempo: ho scritto Il filantropo, biografia di Prospero Moisè Loria (1814-1892 n.d.r.), fondatore della società umanitaria, È una storia che attraverso il Riformismo che man mano cresce nell’Ottocento, fino a quando nasce il primo partito socialista, che è stato il mio partito, e in quegli anni comincia anche l'avventura di Pellizza da Volpedo. Il quarto stato è del 1901, ma l’artista aveva già dipinto altre versioni della strada Fiumana nel 1885-86, e racconta un mondo che è molto cambiato lungo un secolo. Una classe di operai, di contadini, che cercavano il riscatto, la dignità, le regole, la redditività. La forza degli umili dello stare insieme premendo per avanzare.

Questo l’ho conosciuto bene, non solo per averlo studiato, ma perché dà molto giovane ho avuto responsabilità nell’area più importante d’Italia per l’industria: a Cinisello, Sesto San Giovanni, c'erano Breda, Falk, Pirelli. La classe operaia era lì, più ancora che alla Fiat di Torino.

Vedere queste decine di centinaia di migliaia di esseri umani che ogni otto ore entravano in fabbrica, ne uscivano, si organizzavano. Li ho seguiti con grande attenzione. E, passato tanto tempo, ho cominciato a farli sul ferro che tagliavo e piegavo come se fosse tela, disegnando volti più o meno verosimili e forti cromaticamente.

Un po' una sollecitazione a riflettere su come il mondo è cambiato, anche per merito e per responsabilità nostra, con le battaglie si acquisiscono dei diritti, ci sono degli avanzamenti. Solo che la politica si interroga poco sulla società ed è molto difficile che si possano poi trovare delle corrispondenze. Una volta era un mondo più aspro, più difficile, più carico di dolore, molto spesso di attesa, ma con una sua riconoscibilità di status, di luoghi, di organizzazione.

Quindi, senza permettermi di sfidare il povero Pellizza da Volpedo e la sua gigantesca opera, in chiave pittorica in senso stretto…

L’ha pensato.

A lui e al bisogno di mettere insieme questi volti così diversi, questa umanità giocata sull'espressione individuale. Mi pare una questione e, anzi, sono in ritardo rispetto a quello che sta capitando di profondo. I borghi, le città, i continenti circoscritti, ben delimitati costituiscono il mondo reale in cui noi pensiamo di essere e siamo in grande parte, ma i processi di modernizzazione, di evoluzione delle tecnologie, del digitale, cioè la somma di migliaia e migliaia di satelliti, di reti sotterranee, con l'elettronica che attraversa l'immateriale, cuciono insieme miliardi di persone senza i confini che conosciamo. Uno può passare una giornata parlando, innamorandosi, litigando con un cinese, con un australiano, con un americano. E alla fine non è tanto il problema di chi le possiede queste macchine diaboliche e fantastiche, ma il fatto che esistono.

E non ci sono regole. Da Pellizza da Volpedo al mio stravolgimento, c'è un salto di un secolo, ma in questi ultimi 20, 30 anni sono successe cose che hanno modificato ancora più radicalmente il nostro modo di essere e di vivere.

Al di là delle guerre, delle guerriglie, delle uccisioni, fatti molto drammatici del mondo reale, io penso che il mondo virtuale sia diventato il nostro vero mondo e che la politica dovrebbe interrogarsi e cercare di trovare una chiave di lettura, di interpretazione e anche di regolazione. Non è così facile.

Con la politica ha chiuso?

Ho chiuso. Ma ho scritto L'eresia riformista che, apparentemente, potrebbe sembrare un bilancio del periodo di Craxi, invece è una ricostruzione storica, preliminare, della cultura socialista. Ripercorrere alcuni aspetti produce repulsione, fastidio, dispiacere, dipende, ma non può esserci la cancellazione della cultura riformista che è stata grandiosa. Si celebra Matteotti perché ammazzato brutalmente dai fascisti, ma Matteotti è ben altro, oltre la sua morte tragica: è stato contro i totalitarismi, ha detto e scritto con chiarezza quello che non gli piaceva del comunismo internazionale, del bolscevismo e del fascismo. La sua celebrazione è sincera, ma monca e un po' strumentale.

E quindi mi sono permesso di dare questo piccolo contributo, non in chiave autobiografica, ma ricostruendo date, luoghi, conflitti culturali, politici, arretramenti, avanzamenti per mettere a disposizione un materiale che poi gli storici potranno utilizzare.