Usciremo come prima ma peggio, ha scritto Natalia Aspesi durante la quarantena. Non siamo in grado di dirlo perché ci siamo ancora dentro: nonostante sia stata decretata dal governo la fine del lockdown, la pandemia aleggia tra noi non solo smembrando le poche certezze di chi ne aveva, ma scompaginando la micro e macro quotidianità di tutte e tutti.

Quello che oggi invece possiamo sapere con sicurezza, per esempio, è che durante la quarantena (oltre 100 giorni, in alcune zone) uno degli effetti collaterali dell’isolamento imposto dall’emergenza sanitaria è stato la violenza domestica, che da sempre riguarda numericamente di più le donne: nel mondo una su tre ne è vittima e in Italia sono sette milioni le donne che subiscono qualche sopruso. È il secondo fattore di morte dopo il cancro. Una pandemia, la definisce l’OMS. E durante l’altra pandemia, quella del COVID-19, niente poteva accendere la miccia dell’aggressività come la reclusione forzata in famiglia. Il numero nazionale antiviolenza e stalking 1522, durante “i domiciliari” ha infatti registrato più chiamate.

Ora, denunciare come sappiamo è sempre problematico, ma proviamo a immaginare quanto possa esserlo per donne portatrici di disabilità che, secondo dati rilevati dall’Unione Europea, rischiano da due a cinque volte in più di essere oggetto di violenza e discriminazione. Una piaga che esiste anche in tempi di “normalità” ma che l’emergenza sanitaria ha esacerbato. È una questione poco indagata sulla quale, meritoriamente, ha puntato i riflettori il Festival dei diritti umani che, con il titolo Da vicino nessuno è disabile, quest’anno si è tenuto a inizio maggio, via web.

Una condizione, quella della disabilità, che riguarda oltre tre milioni di persone e tra queste sono molte le donne vittime di abusi che vivono un doppio svantaggio perché “oltre alla vergogna classica di denunciare, c’è anche un aspetto più meschino: se chi ti ha usato violenza è la persona dalla quale dipendi per la cura, sarà ancora più difficile andare alla polizia perché ti ritroveresti senza aiuto”, spiega Marina Calloni, docente al dipartimento di sociologia e ricerca sociale a Milano Bicocca e dirigente del centro di ricerca ADV (Against Domestic Violence). Non solo, prosegue Calloni: “Se, per esempio, sono una donna sorda e voglio sporgere denuncia di violenza, se non trovo personale capace di capire il mio linguaggio, sarà difficile che possa riuscirci e magari ci rinuncio in partenza”.

Non se ne parla abbastanza, anche perché i dati disponibili per fare emergere il fenomeno non sono sufficienti: “Secondo l’Istat la violenza fisica o sessuale contro donne con problemi di salute, nell’80% dei casi avviene tra le mura domestiche, dove si conosce l’aggressore”, spiega Silvia Cutrera, vice presidente di Fish (Federazione italiana superamento handicap), “e se tra queste il 30% sono donne senza problemi di salute o limitazioni funzionali, il valore si alza nel caso di chi ha malattie croniche o di lunga durata (36,7%), chi ha limitazioni gravi nelle attività (36,6%) e chi ha limitazioni non gravi (36,2%). Una ricerca condotta tra il 2018/2019 da Differenza Donna, ONG che si occupa di discriminazione femminile - prosegue Cutrera - conferma i dati ma approfondisce l’analisi anche in termini di età, condizione sociale mettendo in risalto la situazione di donne abusate con disabilità intellettiva e del neurosviluppo, che è tra le più invisibili perché quella fascia di persone non ha possibilità né di riconoscere la violenza, né tanto meno di denunciarla. Si stima che subisce violenze psicologiche, per esempio dal partner attuale o passato, il 31,4% delle donne con disabilità contro il 25% di coloro che non hanno limitazioni. C’è poi il grande tema della dipendenza economica: chi è disabile quasi sempre non ha autonomia in tal senso”, così chi detiene l’amministrazione può usarla come arma di ricatto per mettere a tacere eventuali idee di denuncia.

Sebbene qualche dato ci sia, la condizione delle donne con disabilità alle prese con violenze, resta un tema sullo sfondo. Non se ne trova traccia, per esempio, nelle campagne di sensibilizzazione antiviolenza e contro la discriminazione. Elemento non da poco: significa che non è ancora un fenomeno acquisito culturalmente. Spiega Marina Calloni: “La violenza contro le donne è un dato antropologico legato allo sviluppo delle relazioni di genere e di società patriarcali. Sulle disabilità influisce, perché spesso si diventa disabile in conseguenza della violenza”.

Grazie al movimento internazionale delle donne, la questione femminile è stata portata alle Nazioni Unite e nella storica conferenza di Pechino del 1995, dove si è affermato il concetto di genere riconoscendo che i diritti delle donne sono diritti umani, si è messo l’accento sulla loro vulnerabilità e in particolare di chi è disabile. Si è però dovuti arrivare alla convenzione Onu del 2009, come ricorda Calloni “per spostare la disabilità da un problema sanitario a uno sociale e culturale e per rendere più concreto il percorso iniziato negli anni Novanta, il cui presupposto non è avere un approccio ‘politicamente corretto’, bensì riconoscere i diritti uguali per tutti. Le politiche devono tenere conto delle molteplici differenze legate ai problemi specifici interconnessi con genere, luogo, cultura, tipo di disabilità. Bisogna parlare di discriminazioni multiple - prosegue Calloni - secondo il concetto dell’intersezionalità introdotto dal movimento femminista negli anni Novanta: misurare i piani delle diseguaglianze sulla base di più elementi”.

Resta il fatto che ancora oggi, per esempio, una donna portatrice di disabilità è considerata asessuata, priva di femminilità e in caso di violenza sessuale risulta meno credibile di altre, nel caso denunci. Qualche passo avanti però si è fatto, come precisa Marina Calloni: “Nel 2017 in Italia sono state prodotte linee guida per le autorità sanitarie con specifico focus sulle donne con disabilità, per esempio. È soprattutto una battaglia culturale nel solco di una politica del rispetto, perché se mettiamo uno scaffale a 3 metri di altezza tutti siamo disabili, a un metro e 60 alcuni sono disabili, se è a un metro nessuno è disabile. Così come è determinante il linguaggio: definire gruppi umani permette di sottoporli alle politiche e non è più solo un fatto di cura, ma di accesso ai diritti e all’espressione dei propri talenti e abilità”. Perché dare un nome preciso alle “cose”, aiuta a metterle in luce e anche a immaginare le vie per considerarle, affrontarle. E questo è tanto più vero in situazioni di crisi, come quella innescata dall’emergenza sanitaria in corso, quando l’impatto sulle persone più fragili è elevato.