La conoscenza illumina l’ignoranza senza mai illuminare il mistero.

(Magritte)

La psicoanalisi attuale riconosce l’esistenza di un terzo stato della mente, si tratta di un inconscio non rimosso, un inconscio che è sempre stato tale, che non ha mai avuto accesso al pensiero, al linguaggio, ma che si presume si sia formato nella vita intrauterina e/o nelle esperienze traumatiche precoci.

Il corpo, come anche la mente, si sviluppano fin dalla vita intrauterina all’interno di una relazione, si nasce da una relazione, la vita si accende dentro una relazione, la persona umana, quindi, può esistere e riconoscersi solo dentro una relazione. Senza una dialogicità la vita si spegne, evapora qualsiasi guizzo propulsivo, non c’è spunto di avvio che incuriosisca, che motivi, che appassioni, ma da soli si rimane nel freddo di una staticità mortifera.

Buio, gelo, solitudine, angoscia paralizzante, terrore dell’ignoto che significa terrore del vivere: questa la gabbia-destino di chi non ha potuto vivere fin dal suo incipit il benessere di una relazione abbracciante che potesse costituire un nutrimento primario e una idratazione emotiva necessaria per poter sbocciare alla vita.

La psicoterapia entra allora proprio qui, si posiziona in quella falla relazionale che non ha permesso una crescita armonica, ma che ha creato un vuoto esperienziale emotivo terrorizzante, paralizzante, una sorta di buco risucchiante, scatenante la paura di precipitare nel vuoto per sempre e di frantumarsi in mille pezzi, un nulla angosciante dove non ci può essere vita, un buio disorientante popolato da fantasmi terrifici. La relazione terapeutica si colloca dunque in questo spazio di dolore sordo e spesso anche muto sia perché non trova le parole per potersi dire e per chiedere aiuto o perché potrebbe trasformarsi in un urlo spaventoso, ma anche perché non ha trovato mai un interlocutore e non sa che potrebbe essere ascoltato.

L’urlo di Edvard Munch, ritratto pochi mesi dopo la morte del padre, rappresenta in maniera mirabile questo stato della mente emotiva. Le immagini del suo dipinto ci aiutano ad entrare in contatto con questo stato dell’anima che si intuisce travolto dall’angoscia, dal dolore della mancanza e stordito da una solitudine lancinante, rimbombante.

È un urlo esterno o interno? È reale o allucinato? Forse non ha tanto importanza sapere da dove e come viene, quello che si sente sulla pelle è che è terribilmente vero. Quel grido lo vediamo e lo udiamo. Ci spaventa e ci frastorna. C’è un vuoto pieno di angoscia che crea una eco assordante che ammutolisce. Vorremmo scapparne via.

Ecco come il pittore ce lo racconta:

Una sera passeggiavo per un sentiero, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo. Ero stanco e malato. Mi fermai e guardai al di là del fiordo –il sole stava tramontando- le nuvole erano tinte di rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando.

Munch rappresenta, non solo la sua angoscia che fino a quel momento era rimasta muta e prigioniera dentro di sé, rendendolo a sua volta prigioniero di una terrificante memoria che non concedeva accesso al pensiero, ma crea anche un mito, un simbolo della disperazione, della solitudine, dell’angoscia dell’uomo sopraffatto dal dolore.

E la figura umana presente nel quadro sprigiona una forza plurisemantica: sorta di larva, fantasma senza carne perché erosa dalla tempesta di dolore che non può sentire, forse teschio, forse embrione, la vita e la morte, storia della tormenta in cui turbina la vita dell’uomo.

Le mani coprono disperate le orecchie, come per non udire/vedere l’osceno. Ma il suono riempie lo spazio e in questa congiunzione di spazio-tempo la rappresentazione del dolore diventa realistica. E la realtà di quello che può stare solo fuori dalla scena della mente, osceno appunto, l’esperienza che non può essere sognata, quel ricordo impossibile, ha a che fare col trauma. E Munch visse traumi tremendi, a 5 anni assiste alla morte della madre e a 14 anni a quella della sorella entrambe tubercolotiche, morte per emofilia.

Ecco come il reale tramonto rosso diventa insanguinato dalla visione di Munch a causa del trauma che ha riattivato, trauma che l’artista riesce a sognare proprio tramite il suo capolavoro, mettendolo in immagine, raccontandolo in maniera tangibile, potrà solo così metabolizzare ciò che avrebbe dovuto elaborare allora, se fosse stato in grado di contenere quel dolore impossibile.

Gli artisti hanno la capacità di digerire esperienze traumatiche che altri non hanno, sanno incontrare l’ignoto e il terrifico, dargli una forma attraverso le loro opere e renderlo visibile e condivisibile con tutti.

Altrimenti, la forma d’arte che aiuta a dare forma all’impensabile dovrebbe essere la psicoterapia.

La psicoterapia si fa presente dunque nella speranza di assorbire e quindi di dare nome, placandolo, quell’urlo di dolore, di riempire quel vuoto terrifico di relazione, con lo scopo di offrire ospitalità alla sofferenza, di dare ascolto ad aree dolenti, emotivamente congelate dalla paura e dalla solitudine per condividerle e di fornire, alla fin fine, quella base sicura su cui appoggiarsi per poter intraprendere o riprendere il viaggio della vita. A volte il dolore è talmente acuto e insopportabile che non può essere neanche riconosciuto, può essere soltanto spostato o negato, anche se si è insinuato come un fantasma malefico che agisce inesorabilmente e condiziona l’esistenza.

Queste “memorie senza ricordo” urgono per acquisire cittadinanza nella mente, per essere riconosciute ed elaborate alla stesso modo dei ricordi rimossi, perché sono comunque parti esistenti della persona anche se sconosciute e proprio per questo diventano una presenza disturbante, inquietante, ed è forse il loro modo per farsi presenti, per conquistare un nome, per reclamare una parte nel teatro della storia dell’individuo, certo bussano alla porta in maniera provocatoria e disturbante intralciando il percorso della vita. Tanto più forte è il rumore, tanto più imperiosa è l’esigenza di un riconoscimento, di essere pensate, di essere sognate.

La mente sognante del terapeuta insieme alla sua intuizione può essere una via di accesso agli impercettibili bagliori di quella “oscurità informe” (Milton) che, grazie a questo rispettoso avvicinamento, può permettersi a poco a poco di comparire, di evolvere in cerca di una forma, alla fin fine di venire alla luce, di trovare nome, proprio come la rozza bestia della poesia di Yeats.

Carla de Toffoli, con la sua mente intuitiva e sognante, dipinge con le parole l’ineffabilità della relazione terapeutica tout court, e che è particolarmente evidente nelle situazioni dove occorre dare ospitalità e pensabilità a quelle parti primitive dell’umano che non hanno mai sperimentato riconoscimento del dolore o il contatto ed il conforto di un grembo mentale contenitivo e significante.

La funzione psicoanalitica è primariamente quella di offrire uno spazio di riconoscimento a vissuti emotivi altrove irrapresentabili, se non come immaginari (ad esempio, l’arte) o appartenenti al mondo della finzione, e come tali formulati parzialmente fuori da un’elaborazione responsabile. È la capacità di dare alloggio nella propria mente anche ai pensieri non pensati della follia collettiva nelle sue varie forme, allo stesso modo in cui all’origine della psicoanalisi sta la sfida e il rischio di comprendere la follia dell’altro rintracciandola dentro di sé. È infine quella di essere presente alla nascita della mente, qualora non vi sia nessun altro disponibile a farlo.

I sintomi diventano dunque i segnali possibili, gli SOS per esprimere una necessità impellente non comunicabile altrimenti.

Per incontrare queste verità del sottosuolo, occorre avere il coraggio di immergersi in abissi sconosciuti, potenzialmente pericolosi, senza sapere cosa si troverà nel tragitto, dell’altro, di sé, dell’incontro. Bisogna avere la forza di errare nella nebbia, a tastoni, imparare a darsi il tempo di sentire il sentire dell’altro, perché quello è il suo bisogno, tollerando l’immobilità e la sua rigidità di pensiero che può cominciare a sciogliersi solo se la paura che paralizza può essere condivisa, è come suddividere il peso del fardello a metà.
Mondi inesplorati, diversi, inquietanti, intrecci e scambi sconosciuti, nuove narrazioni che nascono proprio dal potersi incontrare, annusare, riconoscere.

La psicoterapia è anche sopportare insieme il dolore dell’incontro col reale, il sanguinamento della ferita narcisistica nel riconoscere il limite che ci caratterizza come esseri umani e lo scacco di tollerare di abitare il mistero di cui siamo fatti.