Miracolosamente scampata all'ennesimo pericolo, la nave approda sulle coste di un'isola sconosciuta. Dopo essersi abbondantemente rifocillati con le carni di un enorme cervo, provvidenzialmente inviato loro da un dio, i naviganti, impauriti e sospettosi, si addentrano nel folto dei querceti. Ad accoglierli nel mezzo di una radura fiere selvagge che si fanno loro incontro stranamente mansuete e una voce soave di donna che li attira all'interno del suo palazzo di pietre ben levigate. Irreparabilmente ammaliati, gli sciocchi entrano, si adagiano su scranni lussuosi e sorbiscono il misterioso intruglio che l'ospite dai riccioli belli porge loro. Sarà compito dell'eroe salvare i compagni miseramente trasformati in porci, costringendo la dea a ridare loro forma umana; e potrà farlo grazie al tempestivo intervento di un divino soccorritore e alla speciale erba che egli coglierà per lui, nera come l'ebano la sua radice e bianco come il latte il suo fiore (“moly la chiamano gli dei”), scudo contro i prodigiosi pharmaka della potente signora.

Imboccata azzardatamente una scorciatoia sconosciuta, l'auto si ferma nel folto di un bosco, impossibilitata a proseguire. Uno strano palazzo dai muri di cartapesta si para dinnanzi, mentre un improvviso alito di vento invita gli involontari visitatori a inoltrarsi nel tunnel che si apre sulla sua facciata. Dubbiosa e reticente la bambina non può che accodarsi ai genitori che al contrario proseguono di buona lena, pieni di curiosità. Alla fine del tunnel, quella che pare una stazione dismessa, uno sferragliare di treno in lontananza, prati verdi a perdita d'occhio, un torrente in secca da attraversare; poi una strada che s'inerpica su per un colle, un'infinita teoria di ristoranti a fiancheggiarla su entrambi i lati e un irresistibile profumo di cibo nell'aria. Spetterà alla bimba confrontarsi con la strega che, approfittando della loro irrefrenabile ingordigia, ha trasformato mamma e papà in sudici maiali; un giovane amico le verrà in soccorso facendole inghiottire un magico rimedio capace di preservarla dal subire un'identica sorte.

Incommensurabili sono le distanze - di spazi e di tempi - che separano i protagonisti di queste due vicende. Odisseo è l'eroe, il celeberrimo guerriero di Itaca, cantato per secoli insieme a tanti altri celeberrimi guerrieri dai preziosi custodi di quell'inestimabile patrimonio orale di racconti e di saperi che a un certo punto della storia dell'antica Grecia (VIII-VII secolo a.C.) confluì nei due straordinari poemi cui il genio omerico seppe dare vita. Chihiro è la bambina, indimenticabile personaggio di uno dei più bei film di animazione (La città incantata, 2001) prodotti da un altro genio, quello di Hayao Miyazaki, acclamatissimo regista giapponese che da più di trent'anni affascina con la sua fantasia e la sua poesia uno sterminato pubblico di fedelissimi estimatori di ogni età.

Capolavori lontani, certo, prodotti di due culture tra le più diverse che il genere umano abbia mai sviluppato; eppure, sorprendentemente vicini, simili in tanti aspetti del loro dipanarsi e procedere, perché l'Uomo non ha mai smesso di essere Uomo, pur nello scorrere del tempo, pur nel mutare della geografia. Così, al di là dell'universale tematica del viaggio avventuroso che diventa metafora dei molteplici percorsi di crescita interiore che ogni individuo è chiamato a compiere nel corso della sua esistenza (che per Odisseo assume i contorni del travaglio di chi deve faticosamente riappropriarsi del proprio sé, mentre per Chihiro segna l'uscita dall'infanzia e l'ingresso in una più matura stagione della vita), ecco delinearsi i contorni di alcuni modelli narrativi archetipici, ricorrenti nelle mitologie e nelle tradizioni folkloriche di molti popoli, verosimilmente sviluppatisi in maniera indipendente e pure sorprendentemente affini.

Il motivo iconografico e letterario sotteso a entrambi gli episodi citati è, infatti, quello di una figura femminile che vive separata dal consorzio umano in una condizione di totale autosufficienza, dotata di stupefacenti poteri metamorfici grazie ai quali trasforma in animali coloro che abbiano la sfortuna di inoltrarsi nel suo mondo e di accettare le vivande che ella mette loro a disposizione, fino al sopraggiungere di chi riesce finalmente ad avere la meglio su di lei. Un motivo che ha abitato l'immaginario di innumerevoli civiltà europee, da quella ellenica a quella celtica e irlandese; un motivo rintracciabile nelle fonti indiane e africane, persino in quelle cinesi (all'interno delle quali la donna divenne la tenutaria di una locanda) e giapponesi (dove in sostituzione della locanda comparve un solitario albergo nascosto tra i monti); un motivo al quale vanno ricondotte anche le antagoniste con cui Odisseo e Chihiro sono chiamati a misurarsi. Nel contesto dell'Odissea, la figura di Circe racchiude in sé i tratti della primigenia Potnia (la divinità ctonia pre-olimpica diffusa in tutto il Mediterraneo il cui dominio si estendeva tanto sul regno animale quanto su quello vegetale); una figura affascinante e ambivalente, solitaria abitatrice di una terra al confine con l'ignoto, temibile conoscitrice delle arti oscure e insieme docile promotrice del ritorno in patria degli errabondi naviganti. Dal canto suo, in linea con le sopracitate fonti, nell'incantevole pellicola nipponica Yubaba diventa la proprietaria di un complesso termale cui hanno accesso esclusivo gli spiriti della natura, tremenda inflessibile padrona e insieme madre irragionevolmente apprensiva.

E poi i grandi temi della memoria e dell'oblio, inscindibili da qualunque vicenda si costruisca intorno alla ricerca o alla riscoperta della propria identità, e conseguentemente, inevitabilmente, il ricchissimo immaginario che da sempre lega memoria e oblio alla dimensione della liquidità. È un'isola quella dove Circe dispensa prima la dimenticanza attraverso la somministrazione del suo obnubilante kikeon e poi il ricordo istruendo Odisseo su ciò che è necessario egli faccia per fare vela verso casa; è un'isola, circondata dall'elemento primordiale, che (come ogni isola) si caratterizza quale spazio della prova cui l'eroe giunge per incidente trasportato da onde capricciose e da cui riparte con un movimento precisamente direzionato sopra un mare ormai pacificato e complice, dopo essersi elevato a un differente livello di consapevolezza di sé. All'improvviso e violento innalzarsi del livello delle acque che segnano per Chihiro la definitiva rottura con il suo ieri, anche la montagna dove sorge il palazzo di Yubaba diventa un'isola, mentre è su acque piane e distese che la bimba ormai cresciuta raggiunge la sorella di Yubaba, suo alter ego di buon cuore, avvicinandosi così alla definitiva risoluzione della propria missione; è nel contatto con le acque del fascinoso nume fluviale Haku che Chihiro ritrova nei recessi della sua mente i ricordi del loro primo incontro avvenuto tanti anni prima, la certezza del proprio nome, la piena acquisizione della libertà.

C'è un filo rosso che lega ogni parte del globo alle altre, un filo rosso che cuce insieme il passato più remoto al presente di ciascuno, un filo invisibile e solidissimo; e quando si ha la fortuna di individuarne un capo, quanto è emozionante seguirlo per scoprire in quali posti meravigliosi esso può condurre, a patto che si abbia la pazienza e la tenacia di non lasciarlo andare!