Il prossimo 12 dicembre ricorre il cinquantenario della strage avvenuta all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura, sita in pieno centro cittadino di Milano, in piazza Fontana. Alle 16,37 di venerdì 12 dicembre del 1969, una bomba ad alto potenziale, collocata sotto il pesante tavolo di legno nel salone centrale della banca, esplose, provocando la morte di 17 persone, e il ferimento di altri sessanta, tutti clienti della banca, per lo più commercianti e imprenditori agricoli. Alcuni dei feriti riportarono gravissime ferite tra le quali mutilazioni agli arti. Era la prima volta che, in Italia, quando ormai gli orrori della guerra sembravano appartenere al passato, avveniva un attentato di questa gravità e per di più all’interno di un edificio affollato di gente, qualche settimana prima delle vacanze natalizie. Anche in Europa fatti del genere erano sconosciuti, con la sola eccezione della bomba fatta esplodere in Francia, il 18 giugno del 1961 sul treno Strasburgo-Parigi, ad opera dell’organizzazione terroristica OAS, che provocò 28 morti e un centinaio di feriti. Il 12 dicembre del 1969 venne definito come quello della perdita dell’innocenza, dell’illusione nazionale che il Paese viveva una fase di tranquillità e di sviluppo economico e sociale, che nessun pericolo potesse minacciare quella fase della vita nazionale. La realtà era che a Milano, quel pomeriggio del 12 dicembre, aveva inizio una nuova guerra, che il giornale inglese The Observer battezzò per primo “strategia della tensione”, in un articolo apparso il 7 dicembre del 1969, cinque giorni prima della strage, sulla base di informazioni riservatissime provenienti dai servizi segreti britannici circa una strategia politico-militare degli USA finalizzata all’instaurazione di regimi autoritari in funzione anticomunista, sul modello di quanto era già stato realizzato nella Grecia dei colonnelli.

È impossibile ripercorrere l’iter, faticosissimo, dell’accertamento della verità circa i responsabili della strage, fallito completamento a livello processuale, tanto che nessuno degli autori ebbe a subire condanne penali. A livello storico, invece, la verità fu colta con grande tempestività, come dimostrano le prime pubblicazioni di controinformazione, apparse già alcuni mesi dopo l’attentato. La prima edizione de La strage di Stato, frutto di un lavoro collettivo, venne pubblicata nel giugno del 1970, ed il titolo spiega quale fosse la conclusione cui giunsero gli autori; subito dopo venne pubblicato il libro di Vincenzo Nardella Noi accusiamo, dal sottotitolo “Contro-requisitoria per la strage di stato e qualche anno dopo *Valpreda+4”, una contro-inchiesta ad opera di un gruppo di magistrati appartenenti alla corrente di Magistratura Democratica.

Tornando ai fatti, occorre ricordare come, in effetti, la strategia della tensione era già iniziata già dal gennaio del 1969, nel corso del quale erano avvenuti decine di attentati dinamitardi, tra i quali i più rilevanti fu quello del 25 aprile (Anniversario della Liberazione) all’interno della Fiera di Milano, dove intorno alle 19, esplose un ordigno che provocò una ventina di feriti, non gravi. Le indagini furono condotte dal commissario Calabresi che imboccò la pista anarchica, che condusse all’arresto di quindici anarchici, tra i quali Petro Valpreda, scarcerati dopo sette mesi per assoluta mancanza di indizi. Altri attentati (precisamente otto), furono compiuti tra l’otto e il nove agosto, questa volta su vari treni e in diverse parti d’Italia, ordigni inesplosi furono ritrovati all’interno della Stazione centrale di Milano e di S. Lucia a Venezia. Anche questa volta fu imboccata la pista anarchica, ma senza risultati.

Anche il 12 dicembre, gli attentati furono cinque, due a Milano e tre a Roma, nell’arco di tempo di un paio di ore tra l’uno dall’altro. Alle 16,15 esplose una bomba in un sottopassaggio della Banca Nazionale del Lavoro di via Veneto a Roma. I feriti, impiegati della banca, furono 14; sempre a Roma, alle 17,22 esplose una bomba alla base del pennone dell’Altare della Patria; infine alle 17,30, una terza bomba esplose all’ingresso del Museo del Risorgimento, sempre in piazza Venezia, provocando quattro feriti. Nelle ore successive all'attentato vennero fermate circa 80 persone, tra i quali alcuni anarchici del Circolo anarchico 22 Marzo di Roma, tra i quali Pietro Valpreda. Per completare la serie, nella sede della Banca Commerciale di piazza della Scala a Milano, alle 16,25, poco prima dell’esplosione di piazza Fontana, un commesso della banca ritrovò una borsa contenente una scatola metallica, con all’interno una carica esplosiva. È indubbio che quelle bombe avrebbero avuto un effetto assai maggiore se fossero esplose tutte, quasi contemporaneamente nelle due città, con il conseguente maggior carico di vittime. In tutti i casi passati in rassegna, le indagini vennero immediatamente indirizzate sulla pista anarchica. In questo senso si mosse senza tentennamenti la Questura di Milano, diretta dal questore Marcello Guida e dal capo della Squadra politica Antonino Allegra. La procura di Milano, nella persona del suo titolare Enrico De Peppo, si adagiò sull’indirizzo della questura, sia per quanto riguardava l’indirizzo delle indagini, sia sulla conservazione di importanti elementi di prova, visto che lo stesso procuratore dispose il brillamento della bomba inesplosa alla Banca Commerciale, distruggendo un reperto che sarebbe stato prezioso per il prosieguo delle indagini. Già pochi giorni dopo, il processo venne trasferito alla Procura di Roma, sulla base di una discutibile sequenza temporale, nella quale la bomba ritrovata a Roma nella sede della BNL sarebbe stata l’ultima rispetto alle due collocate a Milano, con conseguente interruzione della continuazione nella capitale. Tesi pienamente condivisa dai magistrati di Roma, il p.m. (Vittorio Occorsio) e il giudice istruttore (Ernesto Cudillo). È negli uffici di Roma che venne effettuato il riconoscimento del passeggero che il tassista Rolandi assumeva di avere trasportato per un breve tratto di strada sino a poco prima di giungere a piazza Fontana. Risulta per certo che, prima del riconoscimento, i carabinieri avessero mostrato al tassista una fotografia del Valpreda, peraltro molto diversa dal suo aspetto attuale, dicendogli che era quella la persona che “doveva riconoscere”. Il riconoscimento era pertanto nullo sotto il profilo processuale, mentre venne ignorata la testimonianza della zia dell’indagato circa la presenza del nipote presso la sua abitazione, in quanto febbricitante.

Nel frattempo si compiva il destino della diciottesima vittima della strage, l’anarchico Giuseppe Pinelli, ferroviere, sposato e padre di due bambine, invitato a presentarsi in Questura nella serata del 12 ed ivi trattenuto, per oltre 72 ore, ben al di là del termine massimo di 48 ore, consentito dalla legge. Il fermo ebbe termine con la caduta del fermato dal quarto piano, dalla finestra della stanza del commissario Calabresi, nella quale era interrogato dal commissario e da almeno altre cinque persone. Secondo la versione ufficiale, l’uomo avendo capito che era stata accertata e addirittura confessata la responsabilità degli anarchici (gli fu comunicata infatti la falsa notizia che Valpreda avrebbe ammesso la propria responsabilità) si sarebbe slanciato verso la finestra, l’avrebbe aperta e si sarebbe buttato di sotto. Morì dopo qualche ora dal ricovero in Ospedale, all’una del giorno 16 dicembre. La versione non reggeva all’evidenza. Due dei poliziotti presenti erano appoggiati alla finestra, gli spazi erano ristretti e dunque le libertà di movimento del fermato molto limitate. La sentenza del giudice istruttore D’Ambrosio, emessa ad anni di distanza dai fatti, escluse tanto il suicidio che l’omicidio, accreditando l’ipotesi di un malore “attivo”, che avrebbe indotto il Pinelli, stremato dalla pressione degli interrogatori, ad avvicinarsi alla finestra ed aprirla per poi compiere un movimento scomposto che avrebbe determinato la rotazione del corpo e la caduta. Dal canto suo il p.m. Caizzi aveva invece parlato di “suicidio accidentale”, termine di per sé non chiaro. Le versioni ufficiali suscitarono forti perplessità sia nella famiglia del Pinelli e nei suoi avvocati, sia a livello di opinione pubblica. Ancora oggi a piazza Fontana è infissa una lapide, realizzata dagli “studenti e democratici milanesi” dedicata al ferroviere anarchico “ucciso innocente nei locali della Questura il 16.12.1969”. Occorre ancora precisare, per concludere sul punto, che nel corso dei (tanti) procedimenti aperti sulla bomba di piazza Fontana, venne formalmente riconosciuta l’assoluta innocenza di Pinelli, nonostante l’inqualificabile affermazione fatta dal questore Guida a due ore dalla sua morte, secondo cui “il suicidio è la prova della sua colpevolezza nella strage di piazza Fontana”, smentita non solo dall’esito giudiziario, ma da quanto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, affermò solennemente, il 9 maggio 2009, in occasione della cerimonia di scuse alla famiglia: “Era completamente innocente”.

L’insistenza con cui gli inquirenti avevano “immediatamente” imboccato la pista degli anarchici come responsabili della strage di Milano e degli altri attentati di quel giorno, così come avevano tentato di orchestrare, senza successo, per gli attentati alla Fiera di Roma del 25 aprile e sui treni dell’8 e 9 agosto di quell’anno, si deve considerare che, prima di quel 12 dicembre erano state avviate due operazioni parallele da parte degli apparati statali ed eversivi reali responsabili della strage. La prima delle operazioni organizzava gli attentati, la seconda preparava la copertura dei ben noti reali responsabili attraverso le false incolpazioni a carico degli anarchici. L’esito complessivo dei processi consentirà di ritenere storicamente accertate la strategia dell’inganno messa in atto. Tutto trova spiegazione nella circostanza che, all’epoca, buona parte dei dirigenti degli uffici giudiziari, delle questure, delle prefetture, per non parlare dei servizi di sicurezza, era entrata in carriera prima del 1943 ed aveva ricoperto ruoli analoghi durante il periodo fascista. Il questore Guida, ad esempio, era stato commissario di polizia, “aveva imprigionato centinaia di anarchici ed i suoi uomini li avevano pestati con pestaggi ed olio di ricino” (da Enrico Deaglio, La bomba, 2019). Aveva poi ricoperto l’incarico di direttore della colonia di confino politico di Ventotene, dove erano confinati anarchici, comunisti e socialisti, tra i quali Sandro Pertini, futuro presidente della Camera dei Deputati e di Presidente della Repubblica La mancata epurazione dei funzionari maggiormente compromessi con il fascismo era la causa per la quale, dopo la proclamazione della Repubblica (1946) e l’entrata in vigore della Costituzione (1948) vi era in Italia, un doppio Stato, quello ufficiale, democratico, e quello sotterraneo, fatto di nostalgici, neo fascisti, che non avevano mai rinunciato, qualora se ne fosse presentata l’occasione, di ripristinare un regime autoritario e anticostituzionale.

La fortuna volle che, a Treviso, un professore di lingue, Guido Lorenzon, segretario della sezione DC di Maserada, piccolo centro in provincia di Treviso, riferì agli inquirenti le confidenze fattegli poco dopo il 12 dicembre da un suo amico, il libraio Giovanni Ventura, coinvolto nella strage di Milano. Delle indagini si occupò il p.m. Piero Calogero, giovanissimo magistrato, al suo primo incarico, originario della provincia di Messina. Furono avviate indagini che portarono alla individuazione dell’esponente di maggior rilievo di una cellula di estremisti della destra eversiva, con sede a Padova, Franco Freda. Questi venne riconosciuto dalla commessa di un negozio di valigeria di Padova, come l’acquirente di due borse marca Munari, una delle quali identica a quella rinvenuta nella sede della Banca Commerciale di Milano. Il procedimento venne inviato per competenza territoriale nella capitale lombarda, dove nel frattempo era stato rimesso il processo di Roma. Non è possibile ricostruire in poche righe il balletto di sentenze che si succedettero; fu la Procura di Milano a richiedere alla Cassazione di spostare il processo (che adesso raggruppava sia gli indagati della pista anarchica, sia quelli della destra ordinovista padovana), per legittimo sospetto. La Cassazione stabilì che il processo dovesse essere trattato dalla Corte d’Assise di Catanzaro in Calabria. Grande lo sdegno della stampa, soprattutto quella milanese, che ravvisava in quella decisione la volontà di “esiliare”, “confinare” (questi furono i termini usati) il processo in una sede del profondo Sud sulla cui affidabilità professionale era legittimo nutrire forti perplessità. Tranne il disagio logistico per raggiungere una sede priva di terminale ferroviario, aeroportuale e autostradale, oltre alla mancanza di sufficienti strutture ricettizie, quello di Catanzaro deve essere ricordato come l’unico processo degno di questo nome sulla strage. Il presidente della Corte d’Assise, Pietro Scuteri, il pubblico ministero Mariano Lombardi, pur trovandosi di fronte uno schieramento difensivo sia degli imputati che delle parti civili, composto dai più prestigiosi avvocati d’Italia, seppero condurre con autorevolezza, perfetta conoscenza degli atti, capacità giuridica unita a buon senso, un dibattimento durato due anni (1977-1979). Rimangono nella memoria gli interrogatori dei politici, Mariano Rumor, Arnaldo Forlani, Giulio Andreotti, imbarazzati, reticenti e omertosi, per non avere voluto rivelare quello di cui erano a conoscenza circa la reale responsabilità delle strutture dello stato nell’organizzazione delle stragi, nel depistaggio e nell’inquinamento delle prove, della copertura delle organizzazioni eversive Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo. Ma è soprattutto nell’esito del processo che quello di Catanzaro è rimasto unico. La sentenza emessa il 23 febbraio del 1979, condanna all’ergastolo Freda, Ventura e Giannettini, uomo del SID, all’ergastolo quali autori della strage di piazza Fontana e degli altri attentati compiuti quell’anno a Roma e Milano. Altre condanne riguardavano gli appartenenti ai servizi segreti, il gen. Maletti e i capitani La Bruna e Tanzilli per falso ideologico continuato e aggravato i primi due e per falsa testimonianza il terzo, Valpreda e Merlino per associazione a delinquere. Da quella data tutte le successive sentenze di Catanzaro, Bari e Milano furono di assoluzione, puntualmente confermate dalla Corte di Cassazione. A seguito di una nuova indagine condotta a Milano furono accertate le responsabilità di altri concorrenti della strage (tali Digilio, Maggi e Zorzi), ma per il primo i reati vennero dichiarati estinti per prescrizione, avendo goduto dell’attenuante della collaborazione, mentre gli altri due vennero assolti nei successivi gradi di giudizio. Dunque nessuno degli autori della strage subì condanna. La beffa finale giunse dalla sentenza della seconda sezione penale della Corte di Cassazione del 3 maggio 2005, nella quale si afferma che sicuramente Freda e Ventura, anche per successivi apporti collaborativi e probatori, erano da ritenersi colpevoli della strage, ma che nei loro confronti non era più possibile procedere per il divieto del ne bis in idem, vale a dire il divieto di processare nuovamente chi è stato assolto in precedenza con sentenza passata in giudicato. Una strage sostanzialmente impunita, una pagina nera nella storia della giustizia italiana.