I giardini del mito vivono di vita alchemica. Sulla soglia di quello spazio metafisico che custodisce saperi segretissimi, l’Età dell’Oro permane sospesa, non ancora toccata dal tempo delle ere mortali; decriptare la densità filosofica dei prodigi botanici che racchiude è lavoro da iniziati. La sostanza delle parole più antiche ne sancisce la natura: témenos, templum, hortus conclusus. Il giardino primordiale è tempio, cesura, intimo rifugio dal terrore emozionale del bosco.

Nel labirinto di questo universo allegorico un tempo si sono spinti cavalieri erranti, inseguendo l’amore, esitanti a ogni bivio fra intelletto e ragione, fra disciplina e istinto. Eppure, in quelle geografie metafisiche, forse dell’amore hanno sfiorato solo l’apparenza, abbagliante, sfuggente, dolorosa: ma esiste uno spazio, custodito nel nucleo più nascosto, dove il Caos è ricondotto ad armonia. È posseduto da presenze femminili, anime verdeggianti che vegliano sul limitare della sera: hanno chiome del colore del tramonto sciolte sulle spalle e libere da nastri, e danzano a piedi nudi con la spensieratezza delle fanciulle. Vi si può scorgere la divina Afrodite, che indossa vesti intrise del profumo delle stagioni; la natura sussulta al suo passaggio e tutto parla della viola rigogliosa e della bella rosa sbocciata; ci sono altari che profumano di incensi e dal sussurro ipnotico delle foglie scende un dolce sopore. Lì c’è anche Artemide, vergine e levatrice, circondata dai suoi farmaci e dai suoi veleni; c’è Calipso la nasconditrice, che tesse seduta al telaio d’oro avvolta da fragranze di cedro e tuia. C’è infine Kore, che raccoglie fiori di morte e amore componendo il suo bouquet di giovane sposa. Lì sono riuniti tutti i misteri del sacro femminino, inaccessibili a chi si affaccia con sguardo profano.

Il suo nucleo è un verde cuore pulsante; panacee e veleni intrecciano steli e fragranze soavi e le voci delle erbe saturano l’aria con l’ipnotica cadenza di una preghiera incantatoria. Ognuna è corpo, è anima, tempo vissuto nelle mille vite della padrona del giardino: la fragile verbena d’amore, il capelvenere dalla chioma riccia; il ciclamino, utero floreale, le viole e il sedano in fiore; il croco nuziale e la camomilla profumata di mele; la salvia e la malva, l’artemisia e il caprifoglio; il finocchio dal dolce aroma; l’asfodelo e il caprifoglio, la peonia divina. È il regno di Flora, ninfa dei campi felici, con le sue metamorfosi e il suo verde respiro; la sua dote è un orto dalle specie innumerevoli. I greci la chiamavano Chloris, la Verdeggiante, prima che la pronuncia latina guastasse la prima lettera del suo nome.

Octavia Monaco, vagando sul crinale della dissolvenza dei sogli, ha scoperto il portale magico che consente di accedere a questa dimensione e si è affidata al suo linguaggio pittorico per comporre un ciclo di opere che svelano visioni di quello spazio emozionale. Nella sospensione tra il sonno e la veglia, la realtà prende forma e l’anima si ricongiunge alla sua parte divina. La vita esplode di un’incontenibile gioia vegetativa e ugualmente partecipa del calmo respiro che dilata e contrae: è viriditas, metamorfosi, affioramento. Nel mistero dell’incontro fra mondo infero e celeste, tutto è frammento, narrazione mitica, memoria fluttuante, dialogo inaspettato, stupore: tra gli scorci hanno luogo cove tranquille e lente fioriture, e la memoria narra se stessa per fruscii e visioni, ritrovando quella voce primitiva che solo un alfabeto interiore è in grado di pronunciare. Anche i colori appaiono un riverbero di quell’orizzonte onirico.

Poche tonalità, il magenta e il viola; una accesa, l’altra più ombrosa. I gialli li ho ereditati dai campi di tarassaco. Il turchese, che ogni tanto compare nel copricapo del soggetto femminile, avvolgendone la testa ne sottolinea la propensione verso l’alto. I verdi sono esito dello stupore della natura che si risveglia, il piacere profondo di un manto che si sostituisce al tessuto esangue dell’inverno terminato. Il resto è luce.

In quanto alle parole che sono chiamata a scrivere, in quel gioco sacro che è la tessitura della narrazione con il sogno, la mia voce si spezza, perde contatto con la sintassi, si frantuma. Inutile è lo sforzo di affidarmi a un linguaggio razionale e compiuto: nella ricostruzione il senso si perde, nella frammentazione affiora. Le immagini di Octavia sono per me voce di sibilla, che il vento si porta via fra lo stormire delle fronde, lasciando solo l’eco di ricordi che sento appartenermi.