In un recente, interessantissimo e per me del tutto condivisibile articolo apparso su Finestre sull'Arte, Luca Rossi ha rivisitato una sua provocazione del 2009, in cui descriveva il mondo dell’arte contemporanea come un grande negozio Ikea. Ossia, un luogo pieno di immagini gradevoli, ben confezionate, ma prive di quel qualcosa che davvero scuote, interroga, lascia il segno. Opere, insomma, che ti richiamano alla mente quella famosa finale di una favola di Fedro, in cui una volpe trova una maschera teatrale e dopo averla esaminata esclama: è bella, ma non ha cervello.

Renato Guttuso, che la sua produzione artistica piaccia o meno – a me piace molto, ma sono questioni di sensibilità personale – è esattamente l’opposto di tutto questo: il suo realismo è una dichiarazione di intenti che punta dritto contro ogni neutralità, ogni forma di “arredamento”.

E, se esiste un modo per caratterizzare a grandi linee la sua arte, quel modo è senza dubbio fare riferimento alla sua vocazione a stare dentro la storia o, meglio, dentro l'attualità - per offrire a chi la guarda uno specchio, non sempre pietoso, del proprio tempo.

Radicamento nella storia e nell’attualità emergono con particolare forza in un’opera che, più di altre, racconta la sua visione del passato come specchio del presente: La Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio, un quadro di grandi dimensioni e abbastanza famoso – anche se non quanto La Vucciria – e apparentemente dedicato a un evento non solo passato, ma anche superato: lo sbarco a Palermo di Garibaldi e i suoi, il 27 maggio del 1860, con la annessa battaglia.

Dipinta tra il 1950 e il 1955, l’opera viene presentata per la prima volta alla Biennale di Venezia nel 1951. E le reazioni furono per lo più di contestazione. Forse c’era da aspettarselo: chi ama guardarsi allo specchio, di solito, non vuole vedere altro che la forma che desidererebbe avere.

Troppo militante, infatti, per coloro che vi videro un tentativo di propaganda politica mascherato da pittura storica.

E troppo “vecchia”, per chi, restando su un piano più propriamente tecnico, confrontava il realismo espressivo di Guttuso con le sperimentazioni astratte che dominavano la scena internazionale. Certo, se il riferimento era, come probabilmente fu, all’Action Painting – la tecnica di cui negli anni Cinquanta Jackson Pollock fu il più noto esponente, basata sulla colatura spontanea del colore sulla tela stesa a terra, in un processo che lasciava spazio all'imprevedibilità del gesto – La Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio sembrava oggettivamente provenire da un altro pianeta.

Tuttavia, entrambe le forme d'arte miravano a una rivoluzione, a cambiare il mondo: l'Action Painting ricercava la liberazione mediante la dissoluzione della forma, l’abbandono della struttura vissuta come una gabbia. Guttuso voleva entrare in quella gabbia e spaccarne le sbarre dall’interno.

E la Battaglia è una delle espressioni più vivide di questo suo impegno: la passione di Guttuso esplode in colori e movimento, portando con sé molto più della semplice narrazione di un fatto del Risorgimento. È la storia della Sicilia, a farsi corpo in quel quadro, mediante la rappresentazione della lotta di un popolo oppresso che attraversa i secoli, dai garibaldini ai contadini del latifondo, dai partigiani ai lavoratori dell’Italia postbellica.

Guttuso non si limita a dipingere la scena, ma vi entra dentro, ritraendo se stesso due volte, nel contadino ucciso e nel garibaldino a spada sguainata.

Come a dire “questa lotta appartiene a tutti, e quindi anche a me: al punto da abbattermi, e allo stesso tempo da spingermi a rialzare la spada, indomabile e invincibile, come chi combatte per la liberazione di un intero popolo”.

Per questo è del tutto ragionevole – e fu sicuramente voluta – la “riduzione a uno” di ogni guerra di liberazione – dei garibaldini come dei partigiani; e dunque effettivamente la scelta di dipingere la battaglia del 1860 fu un dire politico, un modo per legare l’epopea garibaldina alla lotta partigiana e all’idea di un’Italia che cerca ancora la sua libertà.

D’altro canto, il dire di Guttuso non nasce da volontà di documentazione, ma dalla necessità che sente di leggere il passato come un paradigma, una chiave di lettura del presente e, dunque, una proiezione verso futuri possibili.

In questo modo, la memoria si trasforma in un archivio di segni da cui attingere per leggere il presente: non un’operazione nostalgica o un semplice esercizio di recupero del passato, ma concreta presa di posizione, in un’ottica che è sempre collettiva – perché riguarda la lotta e l’identità della stessa società. Tutto questo spiega abbastanza bene come mai Renato Guttuso sia spesso giudicato prima come politico che come artista.

Eppure, se è vero che l’arte è arte (e non “Ikea”) quando ha il coraggio e la capacità di essere politica, ossia di osservare e giudicare la vita della polis, altrettanto vero è che ogni volta che la politica si è permessa di essere il principale metro di giudizio dell’arte il risultato è stato un disastro.

Quel che accade a Guttuso, artista dichiaratamente comunista è speculare e identico a quel che è accaduto ad artisti come Mario Sironi, e in generale ai Futuristi, tutti – in misura e con convinzione variabile - legati al fascismo.

In entrambi i casi, a perdere questa battaglia è l’onestà intellettuale che occorre per valutare la qualità di un messaggio, anche solo per capire perché non lo si condivide.

E così, ad aprirsi, rimangono solo le porte scorrevoli di un grande magazzino, dove si può comprare, certo.

Ma solo l'innocuità di un vuoto ben confezionato.