Libertà è ciò che fai di quello che ti è stato fatto.

Le celebri parole sartriane aprono un’opera unica e necessaria, dalla quale è difficile prendere le distanze anche una volta terminata.

La gestione del trauma, la coralità nel delineare i personaggi e l’apparente ineluttabilità della trama orchestrata, fanno di Federico Bonadonna uno degli autori più complessi e interessanti dell’odierno panorama letterario.

I recenti incontri di presentazione che lo hanno visto protagonista - accompagnato dalle superbe letture di Lino Guanciale (il quale si dice interessato a una trasposizione sullo schermo) - ci hanno dato modo di porgli qualche domanda, per addentrarci in profondità nei meandri di Hostia – L’innocenza del male.

In virtù della probabile, futura collaborazione con gli attori Lino Guanciale e Cecilia Dazzi per la trasposizione televisiva e/o cinematografica di Hostia; come pensate di lavorare sui diversi registri narrativi e linguistici utilizzati per arricchire e approfondire i personaggi del libro?

Questa è una domanda che richiederebbe uno spazio lunghissimo per la risposta. Posso dire che finora con Lino abbiamo fatto sei presentazioni di Hostia in giro per l’Italia. Stiamo sviluppando spontaneamente un vero e proprio copione. Di fatto sono incontri preliminari che ci aiutano a capire cosa funziona meglio in questa storia. In questa fase stiamo incontrando molti sceneggiatori perché la scrittura cinematografica è molto diversa da quella letteraria. La serie televisiva probabilmente ci consentirà di spaziare nella vita dei personaggi secondari. Per esempio, nel passato dei genitori di Martino e in quello dei genitori di Emma, perché questo è un romanzo che tratta del trauma intergenerazionale.

Durante il recente incontro all’Antico Caffè San Marco di Trieste, ha accennato al fatto che la stesura di questo romanzo, ha occupato – a intermittenza – 15 anni della sua vita. Ha parlato di un vero e proprio testo "delirante", descrivendo la sua genesi. Come è arrivato a questa versione definitiva?

Nella prima stesura il romanzo era più complesso, aveva circa 200 pagine in più, ma per renderlo fruibile con gli altri piani narrativi che avevo aggiunto, avrei dovuto scrivere almeno altre 200/250 pagine, quindi, alla fine sarebbe stato circa il doppio dell’attuale. Allora ho preferito tagliare alcuni personaggi e alcuni passaggi narrativi che pure mi piacevano molto (nella versione precedente, per esempio, si capiva meglio che Martino ha un comportamento borderline). La versione definitiva di un romanzo (Hostia è il mio secondo) è per me sempre un compromesso fatto di tagli continui fino a quando la storia non scorre, anzi non “suona”: per quanto la scaletta iniziale possa essere precisa, la stesura finale presenta sempre delle differenze, a volte anche sostanziali. Nel momento della sua applicazione pratica, spesso il progetto ideale diverge. In ogni caso, a un certo punto, devo liberarmi del libro che sto scrivendo e farlo uscire. Allora faccio un patto con me stesso accettando che non sia perfetto, cioè che non sia esattamente come lo avrei voluto. Allora, esausto, accetto la realtà, cioè che meglio di quello che ho fatto fino a quel momento non potrebbe essere. La consapevolezza definitiva che devo consegnare arriva quando mi accorgo che ho fatto la stessa correzione più volte.

Le tematiche non semplici che affronta in questo lavoro, trovano un momento di svolta molto forte nell’epilogo. Si intuisce una sorta di necessità di chiudere un cerchio attorno alle vicissitudini drammatiche dei personaggi e il tentativo di proporre una soluzione. È una percezione corretta?

Questo non è un romanzo di genere, ma se proprio si volesse tentare di trovarne uno si potrebbe definire horror psicologico come ha detto uno sceneggiatore con cui speriamo si possa avviare una collaborazione nella prospettiva della trasposizione cinematografica. Hostia tratta del trauma intergenerazionale, cioè la trasmissione attraverso le generazioni di un abuso (il titolo che avevo in mente era infatti Il romanzo dell’abuso). Per questa ragione in esergo ho messo la frase di Sartre: “La libertà è ciò che facciamo di quel che ci è stato fatto” che di fatto è l’architrave morale del romanzo. Come si interrompe la sequenza, come si spezza la catena degli abusi? Io penso che il primo passo sia la parola. Che sia con una buona psicoterapia o attraverso altri percorsi, si parte sempre dalla parola, dal racconto. Naturalmente il racconto di un abuso non è mai lineare, ma è sempre frammentario (la consapevolezza si ricostruisce quasi sempre a posteriori). Il “romanzo famigliare” differisce da quello di fiction perché la trama è confusa, mutevole come i ricordi. Il romanzo ha bisogno invece di punti fermi per essere fruibile. Io volevo che una storia così dolorosa fosse accessibile al maggior numero di persone possibile (per questa ragione ho usato paragrafi brevi, con una scrittura il più possibile scorrevole e i periodi contenuti). Una struttura e una scrittura complessa avrebbe appesantito oltremodo una storia pesante in sé. Avevo bisogno di una struttura semplice. Certo, ho dovuto rinunciare a qualche elemento creativo che avevo trovato per connotare più precisamente il comportamento borderline di Martino: nella versione “delirante” temevo che il lettore avrebbe faticato troppo per distinguere l’azione esterna dai moti interni, il piano di realtà dalle allucinazioni del protagonista, anzi dei protagonisti perché Emma, la bambina, è la co-protagonista di questa storia. Per questa scelta sono stato rimproverato amichevolmente, per esempio, da Christian Raimo che mi ha detto che non ho avuto abbastanza fiducia nella capacità di comprensione del lettore. Effettivamente in un paio di passaggi ho voluto “spiegare” quello che intendevo dire, quindi, ho appesantito e questo difetto forse un editor esperto l’avrebbe corretto. Comunque, ho fatto tesoro di questa esperienza e credo che mi servirà in futuro.

Ha più volte sostenuto di essere rimasto stupito dalla quantità di messaggi ricevuti da persone che hanno vissuto esperienze di abusi psicofisici. Aveva immaginato un ritorno del genere? Possiamo dire che opere come la sua debbano anche considerarsi “preventive” e/o “salvifiche” da un certo punto di vista?

Non avevo immaginato niente di simile, anche perché la diffusione di un romanzo è davvero difficile da prevedere. In questo caso le presentazioni con Lino Guanciale hanno dato un impulso alle vendite impressionante. Certo, come dice Lino, se il testo non funzionasse, il romanzo non si venderebbe, ma la sua presenza ha cambiato in meglio il corso di vita di questo libro. Per rispondere alla sua domanda, questo non è un romanzo che potrebbe aiutare a prevenire un abuso che in quanto tale si basa su dinamiche complesse, di lungo periodo e che non possono essere prevenute da uno strumento semplice come un romanzo. Non è nemmeno un romanzo salvifico, al massimo può servire (posto che un romanzo abbia un’utilità) a riflettere a posteriori o durante la fase di elaborazione oppure ad aiutarci a vedere quello che ci è successo. In alcuni gruppi di auto-aiuto, le vittime di un abuso si definiscono “sopravvissuti”. Leggere o ascoltare la storia di altri sopravvissuti, vedere alcuni epiloghi tra quelli possibili, credo che possa aiutare ad assumere un altro punto di vista. Ma non parlerei assolutamente di opera salvifica.

È prematuro chiederle se sta già lavorando a nuovi progetti?

Sto lavorando a un romanzo che ha un riferimento di genere definito: il memoir. È la storia di mia madre, sfollata di guerra negli anni 40, operaia a 14 anni nell’Olivetti negli anni’50, poi “scappata” a Londra con un uomo di 20 anni più grande di lei per lavorare come infermiera in un ospedale, quindi nella Sicilia degli anni 60 con Danilo Dolci. Una donna che ha attraversato il secondo Novecento accanto a personaggi carismatici e importanti. Una donna che ha lavorato, sofferto e amato molto. Una donna complessa, passionale, irruenta.