C'è stato un tempo - in termini di Storia, anche abbastanza recente - in cui la politica estera si poteva consentire di smembrare nazioni e farne nascere altre sulle loro ceneri con un semplice tratto di matita. Come quelli che due persone diametralmente opposte per cultura e formazione (il britannico Mark Sykes, militare ed esperto dei teatri mediorientali, e il francese François Georges-Picot, fine diplomatico dall'acutissimo ingegno e grande pragmatismo) tracciarono su una mappa militare per decidere, quando ancora la Prima guerra mondiale non era stata vinta, la sorte che avrebbero avuto i possedimenti in Medio Oriente del già agonizzante Impero Ottomano. Linee rigorosamente rette, che tagliarono territori, divisero province, spaccarono fisicamente nuclei familiari.

Era la politica estera portata al suo massimo livello, quello che consente di vedere al di là del contingente e di comprendere come trarre beneficio dalle altrui disgrazie. Sarebbe facile incorrere nell'errore di considerare la politica estera e la democrazia come facce di una stessa moneta, perché è la prima a decidere quel che fa la seconda e mai il contrario. Ma la politica estera è materia difficile da maneggiare, perché essa deve tenere conto degli indirizzi generali del governo da cui è espressa e quindi stare bene attenta che nulla si frapponga tra l'interesse nazionale e i desiderata dell'esecutivo di turno.

L'Italia, per decenni, ha fatto della propria politica estera un affascinante marchingegno in cui i veri obiettivi spesso erano diversi da quelli che perseguiva la diplomazia, chiamata troppo spesso a disinnescare le potenziali crisi determinate da ministri con la lingua troppo lunga e il cervello troppo limitato (ma magari anche il contrario). D'altra parte, vuoi anche per la posizione geografica che il Paese ha nel Mediterraneo (propaggine dell'Europa, ma anche prima barriera a difesa del Continente), la nostra politica estera è stata spesso il difficile punto di equilibrio tra spinte diverse ed egualmente forti, dovendo contemperare le mire dei reggitori della cosa pubblica con realtà non sempre a noi favorevoli.

Di esempi se ne possono raccontare moltissimi e non tutti edificanti, perché talvolta l'Italia s'è dovuta arrabattare a trovare soluzioni di comodo, che non sempre le hanno fatto onore (bene inteso, solo da un punto di vista diplomatico). Se ''pacta sunt servanda'', talvolta la traduzione in italiano suonerebbe come ''sì, certo, ma senza tanta fretta''. Abbiamo cambiato in corso d'opera compagni e alleati, ma riuscendo comunque a salvare la faccia e se dall'estero hanno continuato a guardarci storto, il fronte interno ci ha (quasi sempre) dato alla fine ragione. Perché, in fondo, ''tengo famiglia'' non è solo una forte giustificazione, ma anche un principio basilare.

Sino a pochi decenni fa, comunque, l'Italia e la sua politica estera godevano di un'altissima considerazione, soprattutto quando il Paese ha saputo ribellarsi alle enormi pressioni degli alleati, a costo di arrivare a un punto di rottura. La crisi di Sigonella (gestita da Bettino Craxi) è un esempio di come anche un Paese non più centrale come il nostro nell'ambito degli scacchieri internazionali ha saputo dire di no al gigante americano in virtù della precisa e irremovibile volontà di difendere la propria sovranità e la propria indipendenza politica.

Quel senso altissimo dello Stato (non è questa la sede per giudicare Craxi per altre cose, sulle quali anche la Storia si sta prendendo del tempo per decidere) è stato un momento in cui la politica estera italiana ha mostrato d'essere ancora capace di imparare lezioni, ma anche di darne. L'affermazione sempre più evidente dell'Unione Europea come soggetto baricentrico delle politiche estere dei singoli Stati - obiettivo pervicacemente perseguito negli ultimi venti anni - paradossalmente sta perdendo di forza nel momento in cui alla periferia dell'Ue (e non parliamo di quella geografica) si manifestano movimenti e partiti che rivendicano mano libera, coprendo il tutto dietro l'equivoca definizione di sovranismo. Che è ben altra cosa che non il mettersi per traverso su ogni deliberazione solo perché adottata da una Commissione in cui non ci si riconosce politicamente. E quando si alza il ditino per dire ''non ci sto'', talvolta si imbocca una strada senza ritorno, perché priva di una base ideologica.

Prendiamo la decisione dell'Italia di fermare la mozione dell'Ue sul Venezuela devastato dal fallimento della rivoluzione chavista. L'Italia ha detto no, sostenendo in sostanza la necessità di stare accanto al presidente eletto (come e in che clima è un altro discorso.....) per spiegare dopo - solo a seguito della moltissime proteste raccolte in Patria - che in questo modo si voleva evitare una guerra civile e quindi un bagno di sangue. Una decisione a trazione grillina, forse anche spiegabile con il fatto che una delegazione pentastellata era stata in Venezuela, giudicando quello di Maduro un governo e non invece un regime, come da tutti asserito.

La diplomazia si insegna e, quindi, si impara. Non ci si improvvisa diplomatici - né, a dire il vero i politici italiani hanno mai osato tanto -, ma da loro bisogna accettare consigli. Almeno per non incorrere in errori marchiani. Ergersi a soli difensori di un regime per non sconfessare dissennate scelte di campo del passato è la prova non di coerenza, ma di inutile testardaggine. C'è solo da chiedersi, scorrendo il lungo elenco di chi ha seduto al vertice della Farnesina dal dopoguerra ad oggi, chi tra i tanti Ministri degli Esteri italiani avrebbe mai apposto la sua firma su un atto di politica diplomatica che ha fatto cadere il Paese nella peggiore considerazione della maggioranza dei partner europei.

Ma, d'altra parte, cosa ci si può aspettare da un movimento politico che dà il suo appoggio (offrendo una alleanza, oltre all'onnipresente piattaforma telematica) a un rassemblement che, a distanza di mesi, non riesce a espellere dalle proprie file dei devastatori seriali non per ideologia, ma per mestiere? È come se un esponente di En marche venisse a dare solidarietà ai black bloc di casa nostra, seppellendo decenni, anzi secoli di contiguità politica, se non addirittura di alleanze.