All’alba di domenica 8 dicembre, la Siria scriveva una nuova pagina della sua storia. Dopo sette giorni di avanzate fulminanti, i ribelli giungevano alla capitale, Damasco, segnando la fine di 53 anni di dittatura sotto il regime di Bashar al-Assad. Un’intera generazione di siriani aveva vissuto sotto un regime che aveva governato con il pugno di ferro, annientando ogni forma di opposizione. Ma quella mattina, le strade di Damasco si liberavano dalla paura e dalla repressione, senza che scoppiasse un conflitto sanguinoso. La ritirata dell’esercito di Assad avveniva senza resistenza: i soldati, stanchi e sfiduciati, lasciavano le loro caserme, deponevano i kalashnikov e abbandonavano le divise lungo le strade della capitale. Non ci fu alcuna battaglia, solo il suono sordo dei colpi in aria, un simbolo di festa ma anche di un dolore collettivo che sembrava svanire nel vento.

I festeggiamenti esplodevano in tutta la città. Migliaia di persone, finalmente libere dalla morsa della dittatura, si riversavano nelle piazze e nelle strade, mentre le vecchie divise del regime, ormai inutili, giacevano abbandonate come segno della fine di un’era. La grande piazza degli Omayadi, simbolo della gloria della dinastia che per secoli aveva dominato il mondo arabo, diventava il cuore pulsante di una nuova speranza. Tra il rumore degli spari in cielo, che non significavano più violenza ma liberazione, molti restavano chiusi in casa, timorosi, ma speranzosi che questo fosse davvero il giorno in cui tutto sarebbe cambiato.

Il capo della rivolta, che con la sua strategia fulminea aveva portato alla fine di una dittatura lunga più di cinque decenni e di una guerra civile che aveva devastato il paese per oltre tredici anni, parlava di una “rivoluzione della misericordia, non della vendetta”. Un messaggio chiaro e forte: la Siria che emergeva dal buio della guerra non doveva essere una terra di rivalsa, ma un paese pronto a guardare al futuro con la speranza di un ricongiungimento tra le sue genti.

Tuttavia, in mezzo alla gioia per la fine del regime, restavano molte incertezze. La Siria, pur liberata dalla tirannia, era ancora una nazione divisa e profondamente ferita dalle cicatrici della guerra. La domanda che molti si ponevano era se questa pace sarebbe durata, o se, come già accaduto in altre transizioni simili, nuove tensioni e conflitti avrebbero preso il posto della dittatura caduta. La rivoluzione che aveva portato alla fine di Assad, infatti, non aveva solo abbattuto un regime: aveva anche scatenato una lotta per il potere che avrebbe potuto determinare il destino della Siria per gli anni a venire.

La Capitale liberata

Abu Mohamed al-Jolani, il leader del gruppo militante Tahrir al-Sham, ha fatto il suo ingresso a Damasco, segnando un momento storico per la Siria. Ex membro di Al Qaeda e figura di spicco nell'ex Stato Islamico, al-Jolani ha mostrato un volto inedito. Dopo aver baciato la terra della capitale, un gesto che evocava un simbolo di conquista, si è recato alla casa dei suoi genitori, evitando il palazzo del dittatore, come segno di moderazione. Questo gesto, sebbene carico di simbolismo, non nasconde la realtà complessa che si sta delineando nel paese.

Durante una visita in moschea, al-Jolani ha proclamato che quella che stava vivendo la Siria era «la vittoria della Umma», un richiamo al mondo musulmano che va dal Marocco al Bangladesh. Ma il suo messaggio, a differenza di quello di altri leader rivoluzionari, è stato chiaro:

Non sostituiremo il potere di uno con quello di un altro.

La Siria, dunque, non sarebbe stata trasformata in un dominio assoluto di un solo gruppo o ideologia, ma si stava costruendo una nuova forma di governo, almeno per il momento. Sindaci, assessori, poliziotti, ministri e parlamentari sono rimasti al loro posto, senza che si registrassero i cambiamenti drastici che molti temevano. La transizione, infatti, è stata sorprendentemente pacifica, con l'esercito di Assad che, dopo la caduta di Aleppo, non ha mai più combattuto. Le forze governative si sono semplicemente ritirate e arrese, lasciando spazio a una nuova leadership.

L'inizio di questa nuova era sembra segnato da intese tacite tra le parti, un accordo tra chi ha combattuto per anni e chi ha governato con il pugno di ferro. Padre Bahjat Karakach, un sacerdote che vive in un convento francescano a Damasco, ha descritto la stanchezza del popolo siriano, dichiarando:

La Siria tutta sta festeggiando perché era stanca di fame e soprusi.

Negli ultimi anni, i gruppi islamisti comandati da al-Jolani hanno cambiato atteggiamento, lasciando intravedere segnali di moderazione. Un esempio evidente di questa svolta è la restituzione dei beni confiscati ai cristiani e il messaggio di tolleranza lanciato nei confronti delle minoranze, un segno che potrebbe indicare una nuova fase per il paese, lontana dalle divisioni settarie che avevano segnato gli anni più drammatici del conflitto.

Nonostante la pace apparente, tuttavia, le sfide non mancano. I membri della famiglia al-Assad e i loro più stretti alleati sono stati avvertiti in tempo e hanno lasciato il paese, temendo ritorsioni. La domanda che tutti si pongono ora è se la promessa di moderazione di al-Jolani sia sincera e se la Siria possa davvero costruire una nuova realtà politica che non si limiti a sostituire un regime con un altro. Le voci di speranza che si alzano da Damasco, dalle città liberate e dalle comunità stremate dalla guerra, sono accompagnate da un'ombra di incertezza. Solo il tempo dirà se questo nuovo ordine, segnato da una sorprendente pace senza sangue, riuscirà a portare davvero stabilità in un paese devastato da anni di conflitto.

Le speranze della Siria

Con la fine del regime di Bashar al-Assad, la Siria si trova davanti a una nuova fase di speranze e aspettative. I siriani sognano di ricostruire il proprio paese, con una nuova Costituzione che garantisca libertà e diritti, l’eliminazione delle sanzioni internazionali e, soprattutto, il ritorno della pace e della crescita economica. Sebbene questi sogni appaiano lontani, ciò che stanno vivendo oggi li rassicura. Le città liberate non sono state devastate dalla violenza che molti temevano. Le residenze di alto rango, dove viveva l’élite del regime, sono state lasciate intatte: non è stato toccato neppure un fiore nei giardini.

La transizione politica che ha portato alla caduta di Assad si è svolta in gran parte senza il caos che caratterizza molte delle rivoluzioni moderne. Le violenze hanno riguardato soprattutto le strutture più visibili e simboliche della famiglia al-Assad, come il sontuoso Palazzo presidenziale e i garage che ospitavano le auto di lusso, tra cui Lamborghini e Mercedes. Un giovane siriano, che si trovava all’ingresso del garage, raccontava con rassegnazione di come, a causa di un tentativo di saccheggio, la sua famiglia fosse stata minacciata dai banditi armati. Il conflitto, quindi, ha visto episodi di violenza, ma questi sembrano essere stati limitati alle proprietà private della famiglia al potere, senza estendersi alla popolazione.

I cambiamenti che si stanno verificando nel paese sembrano, però, meno rassicuranti al di fuori delle aree controllate dai nuovi governanti. Il passaggio dal Libano alla Siria, un tempo reso difficile da controlli severi e permessi restrittivi, è oggi senza ostacoli, ma lascia dietro di sé un senso di incertezza. Le prime testimonianze raccontano di uffici doganali vuoti e saccheggiati, dove i funzionari sono scomparsi e l’unica presenza è quella di ladri e miliziani disarmati. I checkpoint lungo le strade, che un tempo erano luoghi di controllo rigido, ora sono lasciati senza sorveglianza, mentre l'autostrada che porta a Damasco è deserta, interrotta solo da veicoli carichi di persone e beni rubati. Tuttavia, le case private e i supermercati sembrano essere rimasti al sicuro, nonostante l’apparente disordine.

A Damasco, la situazione cambia drasticamente avvicinandosi al Palazzo presidenziale. Qui, i saccheggi sono più evidenti, ma persino in queste aree simboliche del potere, c’è un’atmosfera di ambiguità.