Ecco, non ho mai avuto fame. Nessuno sa cosa vuol dire fame. Nessuno qui, ha mai avuto fame, presumo, salvo quella eccezione di cui vi parlerò. Quello che arriva dai tubicini è esattamente ciò che serve. Starei per dire che i due tubicini che ci nutrono fanno parte integrante della natura. Non appena il tubicino segnala un fruscìo, scopri che hai fame. E mangi e bevi. Quando smette il fruscìo non hai più fame. Qualcosa, o qualcuno, ha deciso le quantità. Sembra che la Provvidenza abbia calcolato perfettamente gli stimoli di ognuno. L’unica differenza, molto visibile per la verità, è quando dal buco che abbiamo in mezzo alle due gambe, escono delle cose che non saprei ben definire. Escono per conto loro. È una specie di liberazione, fa piacere. Non è come mangiare e bere, dove il tuo libero arbitrio, si fa per dire, si esercita pienamente. Insomma, devi aprire un orifizio, introdurre della roba. Implica una scelta. Elementare quanto si vuole, ma sempre una scelta. Teoricamente, solo, perché tutti mangiano sempre, e bevono quello che arriva.

Ma teoricamente io potrei non mangiare tutto, o non bere, tutto ciò che la Provvidenza mi manda. Invece qui la cacca - la chiamo così, per capirci meglio - che io faccio e che fanno tutti quelli che mi stanno attorno, esce a prescindere dalla mia decisione. Esce quando decide l’orifizio di sotto. E ho notato che non tutti fanno la cacca nello stesso momento e con la stessa intensità. Qui, in effetti, c’è qualche discontinuità, qualche casualità. Per fortuna la cacca sparisce da sola penentrando in certi orifizi che stanno sotto i nostri piedi. Si vanifica in silenzio. La Provvidenza provvede, appunto, a che non si accumuli sotto i nostri piedi. Peccato perché salendovi sopra potrei vedere più in là. Ma non importa perchè sono certo che tutti farebbero la stessa cosa e non avrei nessuna informazione aggiuntiva circa il mio orizzonte.

Non ho dubbi che questo mondo sia il migliore dei mondi possibili. E credo che sia anche infinito. Infatti, non se ne vede la fine. Anche qui il termine migliore implica un confronto. Ma poichè non c’è confronto possibile, non resta che la presa d’atto. Siccome non c’è alternativa perché porsi dei problemi? Se si creassero le condizioni per poter trasmettere a qualcuno queste mie modestissime riflessioni, mi piacerebbe scrivere un racconto (ma che significhino la parola scrivere e la parola racconto non saprei precisare). Posso solo pensare che qualche entità superiore me lo abbia in qualche modo insufflato, il che vorrebbe anche significare che io ho un qualche contatto con essa, del tutto inspiegabile. Idea che solo un inguaribile ottimista può coltivare. Essere in contatto con una entità superiore fa sentire l’importanza di esistere. Ma come si possa essere ottimisti nel migliore dei mondi possibili è cosa impossibile. Mentre ci penso mi viene in mente che un ottimista sarebbe un personaggio ridicolo. Uno scemo. Simile a quello che sto guardando sulla mia sinistra. Un vero cretino, senza finestre, direi. Chiamiamolo una “monade”, per capirci.

Per quanto concerne l’idea di “infinito”, anch’essa è strana. Anch’essa presuppone l’esistenza dell’idea di “finito”. Per venirne a capo ho provato un’altra volta ad alzarmi sulla punta delle mie estremità (confesso di averlo fatto molte volte), per vedere oltre la cerchia dei miei vicini. Quello che ho visto è stato un mare di teste, tutte uguali, tutte ondeggianti allo stesso modo, a perdita d’occhio. In silenzio. Qualcuno, però, se non ho visto male, faceva lo stesso mio gesto. Ma, essendo lontano, non si poteva leggere nei suoi occhi un barlume di intelligenza. Poteva essere una qualche esuberanza casuale, come la mia.

Vedo perché il mondo è illuminato: da una luce tenue e anch’essa costante, né forte, né debole. Quieta. Il rumore, l’unico che si sente, è quello delle mandibole, che lavorano in continuazione, senza soste, accompagnato dal fruscìo del liquido che scende dai tubicini e dal leggerissimo rumore dei sorsi e delle quasi silenziose evacuazioni. Nessuno, qui attorno, esagera nel fare rumori. Anche quando evaquiamo non si sente quasi nulla. L’odore dell’ambiente non è esaltante. Così l’ho sentito la prima volta e così lo avverto adesso.

Ogni tanto mi piacerebbe sgranchirmi le gambe, come si suol dire (anche se non saprei spiegare cosa voglia dire questa espressione). Per esempio, andare un po’ più in là, farmi largo tra la calca, andare a verificare se ogni quadratino, come quello in cui mi trovo, è uguale all’altro. Nulla, infatti, mi dice che troverei chissà quale novità. Ma vorrei sapere cosa c’è in quella zona un pochino più scura, che si vede all’orizzonte, con fatica. Come se la sorgente di luce che inonda il mondo, laggiù, proprio laggiù, si attenuasse un tantino. Ma forse è un’impressione momentanea. Alzarmi sulla punta dei piedi è molto faticoso e dura solo qualche secondo. Solo salendo sulle spalle del mio vicino potrei davvero guardare. Ma non oso pensare a come reagirebbe. Intuisco che sia una specie di peccato mortale (che diavolo sia un peccato mortale, non saprei, anche perché non c’è segno di morte, come non c’è segno di vita). In ogni caso sarebbe uno sgarbo grave, una rottura della sua personalità. Io non posso sapere se ha una personalità, cos’abbia in testa, se sappia che io esisto. Ma lo scoprirebbe suo malgrado come un mostruoso atto di violenza su di lui, su di lei, su di esso. Anche questa riflessione mi mette a disagio.

Da dove vengo? C’è un dove? E c’è un quando che definisce perché e come sono arrivato qui, in questo mondo? Tenderei a escludere l’una cosa e l’altra. Molto più semplice immaginare che siamo eterni e siamo qui da sempre. Certo resta il problema dei tubicini. Chi li ha messi qui? Ma la domanda potrebbe anche essere questa: chi mi ha messo qui? E perché funzionano sempre nello stesso modo? Ci dev’essere una sorgente, qualcuno che ci ha pensato. O forse no.

Ma, diciamocelo francamente, tutto questo ordine suggerisce l’idea che una mente deve averlo prodotto. Ma farsi venire un’idea è un conto, trasformarla in realtà è altra faccenda. Supponiamo, per assurdo - di nuovo torno a fare il filosofo senza avere mai studiato filosofia, anzi, senza nemmeno sapere cos’è la filosofia, o cos’è il sapere - che qualcuno abbia pensato a me. Ma farmi dev’essere stato difficile. Con i tubicini e tutto il resto. Io, per esempio, potrei pensare di costruire un me stesso che vola. Ma come si faccia a volare non avrei idea. Cosa ci vuole per volare sopra le teste di questi idioti? Magari un vento così forte da sollevarmi in aria. La questione è restarci, visto che di vento non ce n’è, e neppure saprei descriverlo.

La questione è irrisolvibile. Direi che mi manca il concetto di tecnologia. Ma, comunque, stabilendo come ipotesi che una mente abbia pensato e poi realizzato quello che io vedo attorno a me, resta il fatto che non mi sembra granché. A ben pensarci tutto sembra molto monotono. Questo qualcuno potrebbe essere stato un monomaniaco, uno psicopatico amante dell’ordine e della quiete. E chi potrebbe essere stato? Io qui attorno vedo solo teste spelacchiate. Sarà uno di loro? Perché no? Potrebbe benissimo essersi mimetizzato, assumendo le sembianze di tutti. Perché lo avrebbe fatto? Magari - azzardo - per verificare che tutto funzioni a dovere, come aveva previsto. Io, sicuramente, non sono responsabile, ma immagino che una tale mente, se c’è, debba avere le sembianze di uno di noi. Una testa spelacchiata piena di idee e di fantasie, ma che ha deciso di disegnare un mondo ordinato. Mi pare una contraddizione in termini, ma non lo si può escludere. Mi giro un pochino e guardo il mio vicino a sud-ovest. Cosa sia il sud-ovest non ho la più pallida idea. Mi serve per identificare la sua posizione, un po’ a destra del mio piede sinistro. Così almeno sono riuscito a definire me stesso. Che, lo confermo, è un essere con due piedi e due occhi, esattamente come gli altri. Gli altri che vedo, ma non potrei affermare che non ci siano individui che hanno, per esempio tre occhi e due piedi, o tre piedi e due occhi, o - perché no? - quattro piedi e tre occhi.

Comunque, questo individuo a sud-ovest non reagisce a nessun mio ammiccamento. Idiota come tutti quelli che riesco a vedere. Forse ha paura, forse finge. Glielo chiederei se avessi un organo per trasformare i miei pensieri in parole. Se mi concentro viene fuori un gorgoglìo che sento soltanto io. Se i vicini lo sentano non so. Forse fanno finta di non sentire. Dovrei gridare per misurare la loro reazione, ma non so gridare.

Interrompo un attimo perché sento il fruscìo del cibo in arrivo e il fluire dell’acqua. E, quando ho fame e sete, non riesco proprio a ragionare. Mi prende come un vortice di sensualità. Di beatitudine. La Provvidenza innanzitutto. Poi l’evacuazione quasi collettiva. Adesso, una volta saziato, nel breve periodo di tempo che mi separa dalla prossima mangiata e bevuta, posso riprendere a ragionare, a soddisfare le mie curiosità solitarie. A stomaco vuoto è più difficile filosofare.

Se non posso guardare ai confini del mondo, sempre che esistano, posso sempre guardare in alto. Lo faccio con fatica, perché il mio collo sembra non essere stato pensato per guardare verso l’alto da quella mente di cui pensavo poco fa. Anzi, l’unica direzione verso cui punta la testa è verso il basso, cioè verso i tubicini. Questo è, dunque, l’ordine della Provvidenza: guardare verso il basso. Forse è un peccato guardare verso l’alto e ciò spiega perché siamo fatti in questo modo.

Ma la curiosità è anch’essa figlia della Provvidenza, mi dico, forzando un po’ la mano. Che sarebbe un bel movimento se sapessi cos’è una mano. E, forzando anche il mio collo, guardo quello che mi viene spontaneo chiamare cielo. Affascinante e incomprensibile come tutto il resto. Sembra un lenzuolo di luce uniforme. Ma, se uno cerca di fissare lo sguardo - che male al collo! - per qualche attimo, ecco la sorpresa: sono tantissime palline quasi rotonde, tutte ugulmente luminose. Ecco, questo mondo è sormontato da un cielo tutto ugualmente luminoso, ma è un soffitto di palline, tutte uguali. Una monotonia affascinante ma anche un po’ noiosa. Sembra piatto. E, naturalmente infinito. Anche la sua assoluta uniformità indica la perfezione di chi lo ha concepito. Uniformità? Se devo essere sincero è una uniformità con qualche eccezione. Qua e là nel lenzuolo luminoso si vede qualche puntino nero. Qualche pallina sembra spenta. Ma è l’eccezione che conferma la regola. Tutto è regola. Se avessi tempo mi piacerebbe studiare se esiste qualche regolarità nell’apparizione di questi puntini neri. Potrei vedere se diventano chiari e altri puntini neri sostituiscono quelli che diventano chiari. Ma mi viene male al collo e quindi non lo faccio.

Ci fu un solo momento in cui questa continuità venne interrotta da un evento discontinuo. Il cielo si spense d’un tratto. Tutto, all’improvviso. Qualcosa accadde, un segno di disordine che produsse il buio più nero. E anche i tubicini smisero di funzionare. La cosa, per quanto straordinaria, non suscitò alcuna reazione. Per lo meno io non avvertii fremiti di terrore nei miei vicini. Per essere sincero fino in fondo io ebbi paura, mentre gli altri, attorno, non mossero un pelo. Impassibili. Un aplomb inglese praticamente universale. La parola “inglese” mi è venuta così spontanea che ho pensato di averla vista, o sentita da qualche parte. Ma siccome non sono mai stato da nessuna parte, mi è venuta l’idea che io ho già vissuto da qualche altra parte. O che vivo simultaneamente da due parti diverse, o da enne parti diverse. Così si spiegherebbe anche il fatto che penso in una lingua che non conosco affatto. Questa è un’ipotesi davvero audace. Ipotizzarla mi fa venire un brivido di entusiasmo.

In ogni caso il buio fu totale e io avvertii, insieme alla mia personale paura, la grandezza incommensurabile di quanto stava accadendo. Capivo che si stava verificando un evento storico, che gl’idioti attorno a me non erano in condizione di percepire. Ecco perchè se ne stavano fermi. Ma li scusai. Se ciascuno restava fermo al suo posto era perchè non avrebbe saputo dove andare. Neanche io sapevo dove andare. Io come gli altri. Li sentivo muoversi appena leggermente, urtarmi, oscillare da tutte le parti. O ero io che urtavo i miei vicini. Ma in quegli attimi - quanto durarono non saprei dire, non ho mica un orologio! (termine che uso per indicare il tempo che passa) - furono come una parentesi paurosa, misteriosa. Non avevo mai visto il buio. Che è una cosa che non si vede, ma si sente. Ecco, fu un momento in cui percepii, acuta, una senzazione comuntaria. Ma come si fa a sentirsi fratelli di qualcuno se non c’è nessuna comunità?

Fu, strano a dirsi, una bella sensazione. Proprio il suo carattere comunitario mi diede la speranza di poter comunicare. Ma poi il cielo tornò a brillare fiocamente, come prima. Anche i tubicini, che si erano azzittiti mentre la luce si spegneva nel buio, ripresero a frusciare e, con loro, la certezza che la Provvidenza continuava a funzionare. Pensate, non era mai accaduto. Ci sarebbe stato da parlarne per chissà quanto tempo. Si era realizzata la storia. L’unico evento della nostra vita. Ma, al ritorno della luce, che era anche una specie di resurrezione, di epifania, gli occhi dei vicini restarono spenti, proprio come lo erano prima.

Si erano già dimenticati, o fingevano, dell’eccezionalità dell’evento. Non era colpa loro. Quando sei abituato alla continuità anche la discontinuità affoga nel mare della routine. Bella parola! Se questa massa informe di individui si organizzasse in qualche modo, ci potrebbero essere perfino delle comunità che parlano (no, parlare non potrebbero, perchè non hanno l’organo per farlo) anzi pensano in lingue diverse. Ecco, supponiamo che in una lingua qualunque, diversa da quella con cui ragiono io, la parola abitudine si possa tradurre con routine. E sarebbe necessario, quando due idioti di diverse comunità s’incontrano per caso, dotarli di un interprete, capace di spiegare a entrambi che abitudine e routine sono la stessa cosa. Sarebbe divertente.

Dimenticavo di menzionare un fatto che mi colpì moltissimo. Lassù, in cielo, c’erano anche strani individui. Immobili del tutto, come il cielo in cui abitavano. Ma con un occhio solo. Un occhio fisso, scuro, scurissimo. Erano molto radi, molto più radi delle palline luminose del cielo. E anche loro guardavano sempre e soltanto verso il basso. Non solo, ma non si guardavano mai reciprocamente. Del tutto asociali, mi parve. Capire, da lontano, a cosa pensassero era però del tutto impossibile. Troppo remoti per poter cogliere in quell’unico occhio qualche elemento di solidarietà. Mi venne in mente che sarebbe stato bello conoscerli. E sospettai che qualche volta scendessero anche loro. Se non altro per venire a prendere la loro razione di cibo e di acqua dai nostri tubicini, visto che accanto a loro non si vedevano tubicini. E, dopo averli osservati a lungo, ne conclusi che non defecavano neppure. Strani tipi.

Ma fui finalmente appagato dal miracolo che, a un certo punto, ebbi l’occasione di osservare. Dico miracolo per spiegare la sua assoluta unicità. Non ne vidi altri, ma quello fu davvero un miracolo, grande immenso, poetico. Arrivarono gli angeli. Non so perché li chiamo così. Forse perché la parola mi ricorda qualche cosa di etereo, di puro, di immacolato. Comunque, chiamiamoli come ci viene bene, angeli o diavoli, o carote: tutte parole per me nuove, da riempire del significato che troviamo più conveniente per le nostre esigenze. Non so come esprimere meglio questa idea. Diciamo che procedo per associazioni mentali. Se fossi un grande medico, mi diletterei a studiare il cervello della gente mediante le associazioni mentali. Chissà cose ne verrebbe fuori. Grandi scoperte, grandi intuizioni. Ma io sono un abitante del migliore dei mondi possibili, dove le scoperte, e i dubbi, non possono nemmeno essere concepiti. Dunque, scelgo le parole per l’associazione spontanea, che io non controllo. Che ci posso fare se quelle figure bianche mi fanno venire in mente la parola angeli? Insomma la finisco qui per non tediare me stesso, unico soggetto in grado di concepire quello che penso.

Arrivarono, anzi apparvero, si materializzarono ai miei occhi. Se uno mi chiedesse da dove vennero non saprei dirglielo. Avrei voluto chiederlo all’idiota alla mia destra, ma, per essere gentili nei suoi confronti, sembrava che non si fosse accorto di niente, come al solito. Descriverli non è difficile, tanto mi rimasero impressi negli occhi. Erano lunghissimi, nel senso che direi verticale, cioè verso il cielo. Tutti bianchi. Svolazzavano su di noi chinandosi talvolta, quando proiettavano fuori di sé alcune protuberanze, bianche anch’esse salvo sulle punte, dove c’era un colore più scuro, simile alle nostre evacuazioni, ma, a differenza di quelle, erano solide. Quelle protuberanze avevano delle singolari terminazioni multiple e mobili. Graziose da vedere. Non saprei dire quante fossero quelle terminazioni degli angeli. Non ho dimestichezza con l’aritmetica. Ma sono arrivato al numero tre, che è quello che supera di uno i due occhi. Dunque, le punte erano sicuramente più di tre. Ma concentrandomi vidi che erano anche meno del doppio di tre. Chiamiamo cinque quel numero, o magari quattro.

Erano, alcune di quelle protuberanze e terminali, mobili, in grado di afferrare le cose. Potevano perfino spostare delicatamente i tubicini senza romperli. Ma non era quella la loro occupazione principale. Direi che ne avevano una molto più importante, spirituale direi, se avessi un’idea di cosa sia lo spirito: erano venuti, pensai, per prelevare gli eletti. Chiamo così quelli, tra di noi, che, per qualche ragione a me sconosciuta, erano caduti a terra e non bevevano più né mangiavano. Uno di questi l’avevo intravisto anch’io, appena fuori dalla cerchia dei miei più stretti vicini. Si intravedeva, tra le loro estremità, che qualcuno era caduto sui tubicini del mio vicino, il quale era costretto a spostarlo ogni volta che voleva soddisfare i dettati della Provvidenza. Sdraiato a terra, immobile, ieratico. Forse aveva avuto una rivelazione.

Una delle protuberanze si chinò fino a lui, lo sollevò verso il cielo e lo fece sparire nelle pieghe di quella grande tunica bianca. Non prima di avere portato l’eletto nei pressi della sommità dell’angelo, dove si poteva vedere, sullo sfondo del cielo luminoso, una unica e grande protuberanza che, da lontano mostrava di avere parecchi buchi, o cavità. Una delle quali, molto più grande delle altre, emetteva a tratti dei suoni musicali, o qualcosa del genere. Erano più di uno e si muovevano veloci, fluttuanti, silenziosi, austeri. Ciascuno raccolse degli eletti, che erano parecchi e, quando ebbero terminato il loro servizio, sparirono com’erano arrivati.

Cercai di indovinare perché gli eletti cadevano al suolo in modo così disordinato. Ma pensai che l’estasi può produrre eventi sorprendenti, specie nell’imminenza dell’arrivo degli angeli. Che forse gli eletti avevano presentito in anticipo e, cadendo, intendevano segnalare la loro presenza, appunto per essere raccolti. Avevo pensato di chiederglielo, ma poi rinunciai. In primo luogo, perché non avrei saputo formulare la domanda. In secondo luogo, perché sembravano fortemente intontiti. Pensandoci bene, negli ultimi tempi anch’io sentivo una certa pesantezza, una qualche voglia di riposare. Forse ero vicino anch’io all’estasi, ma gli angeli erano arrivati prima. E poi, nessuno mi aveva avvisato. Certo è che provai invidia per loro, intendo dire per gli eletti. Desiderai fortemente di essere uno dei fortunati che erano stati prelevati. Chissà a quali meraviglie erano destinati, a quali straordinarie sorprese! Salivano in alto, sollevati e leggeri, e io rimanevo inchiodato a terra. Così non fui degnato della minima attenzione. Nessuna delle protuberanze e dei tentacoli multipli si avvicinò a me, sebbene avessi impiegato tutte le mie energie per farmi notare. Purtroppo, il fruscìo del cibo arrivò proprio in quel momento e pensai che la Provvidenza era più importante anche dei miracoli. Ma, adesso, ripensandoci, sento che fu un’occasione perduta.

Questo ricordo del miracolo mi è venuto in mente proprio in questo momento. Come fosse ieri. Altra sciocchezza che non saprei spiegare, visto che uno ieri non è mai esistito, come non esiste un oggi e un domani in un mondo perfetto dove il cambiamento è miracolo.

Comunque, c’è stata come una bufera improvvisa. Senza angeli e molto rumorosa. Anche un vento è arrivato a turbare la quiete lattiginosa della nostra vita. E suoni stridenti mai percepiti. Ora mi trovo quasi sepolto dai miei vicini idioti e da una massa di individui che mi sta schiacciando in modo che direi doloroso. Il dolore è una cosa del tutto nuova. Una cosa spiacevole. Mi verrebbe da gridare, appunto per il dolore. Quello che ho visto è una cosa molto dura, luccicante, dentata. L’ho vista avvicinarsi e raccogliere tutti, proprio tutti quelli come me che stavano a terra. Sono finito in un grande sacco. Lo chiamo così perchè ci contiene tutti, molto stretti, a caso. Non siamo più tutti ritti, paralleli, attaccati ai nostri tubicini. Siamo uno sopra all’altro. La mia testa è sotto le estremità di un altro individuo. Che scalcia freneticamente, lo stolto, e mi colpisce negli occhi. Anch’io sto scalciando, senza alcun senso. E tutti intorno, sottosopra, scalciano e si colpiscono reciprocamente. Ci sono rumori attorno che non ho mai sentito, stridìi, che si mescolano con i suoni degli individui come me, che mi schiacciano e provano dolore. E, ecco l’altra cosa nuova: lo esprimono con dei suoni strani che anch’essi non avevo mai sentito. Non vedo niente, solo carne e peli e ansimare indistinto. Non c’è più nessuna luce costante. Non c’è nessuna luce. Una cosa che avevo provato solo con l’arrivo degli angeli. Ma ora non si vede niente e la luce non torna. Solo a tratti filtrano dal mucchio lampi fortissimi, lancinanti, che costringono a chiudere gli occhi. Gli odori sono completamente diversi e ho una grande nostalgia dei miei tubicini. Tutti evacuano disordinatamente. Io come loro. Provo un sentimento di grande inquietudine. Dolore e - come chiamarla? - paura. Forse. Non c’è più nessuna continuità in tutto questo. Sono in una discontinuità. Ho continuato a ragionarci sopra ed ecco che è arrivata, ma non sono sicuro che mi piaccia. Adesso mi sento proiettato con grande forza fuori da quel sacco e precipi………..