Esistono molti luoghi che nel corso del tempo vengono dimenticati, gli archeologi lo sanno bene. Fa parte del processo storico. L’oblio è il prezzo che paga qualsiasi città antica che non riesce a fare suo il principio darwiniano di evoluzione e adattamento che, come abbiamo imparato sui banchi di scuola, se applicato porta alla sopravvivenza, altrimenti si va verso l’estinzione.

Per capirci con esempi basilari, Roma, adattandosi ai tempi, sopravvive ancora oggi. Efeso, importante centro culturale dell’antichità (situato sulla costa dell’attuale Turchia), a un certo punto della Storia venne abbandonata e infatti oggi ne esistono solo i resti archeologici. Altre città sono state dimenticate per forze indipendenti dalla volontà dell’uomo – come per esempio Pompei –, altre ancora sono state abbandonate ma rifondate con lo stesso nome in zone poco distanti, come Metaponto o Sibari.

Ci sono poi casi particolari di città che sono state dimenticate in maniera diversa. Città che avevano un certo ruolo sociale o commerciale e che poi – per qualche motivo – sono state letteralmente consegnate alla Storia. Faccio un esempio pratico per chiarezza: la città di Teano è sicuramente un posto ameno per spendere piacevolmente un po’ di tempo, ma di sicuro non è uno scrigno di tesori artistici come può esserlo Firenze. Ciononostante il suo nome comparirà sempre nei manuali di storia per via di quel famoso incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II che in seguito darà vita all’Unità d’Italia. Anagni per l’episodio dello schiaffo o Avignone per essere stata sede papale sono ulteriori esempi in merito. Il discorso si potrebbe perfino ridurre: la chiesa del castello di Wittenburg sarebbe una come tante se non fosse per l’affissione delle novantacinque tesi di Lutero (episodio, tra l’altro, che potrebbe non essere mai accaduto).

Il perché mi stia a cuore questo argomento è per un discorso culturale intrecciato al turistico. Un motivo di “promozione” e “valorizzazione”, tanto per usare termini cari (e abusati) agli addetti del settore. Sono da sempre una persona convinta che il fattore culturale non diminuisce d’importanza nel caso venga adeguatamente venduto ai fini di un discorso economico. In altre parole, non c’è niente di male a far conoscere bene il Colosseo se poi in questo modo faccio venire voglia al turista – come a chiunque – di visitarlo. Perfino se faccio venire voglia di comprare la riproduzione-soprammobile che si trova nei gift shop. Mi tocca però sottolineare la parola “adeguatamente” usato poco sopra: è evidente che se per vendere un biglietto o un souvenir mi ritrovo a dire che l’Anfiteatro Flavio è stato costruito dagli alieni, sto sbagliando tutto. Poiché per formazione sono innanzitutto un archeologo ma subito dopo un operatore del settore turistico, provo dispiacere nel vedere una realtà culturale che non viene sfruttata per produrre lavoro e introiti. E tali realtà qui in Italia sono tante. Troppe. Tra queste mi colpiscono due in particolare, Velia e Capua, due realtà del sud campano che rispettano perfettamente il paradigma “tanto importanti – tanto trascurate”.

Partiamo da Velia e per farlo vi invito a un esperimento che vi illustrerà meglio quanto sto per dire. Prendere un manuale di filosofia, uno di quelli per il liceo, assicurandovi che riguardi il periodo antico e date uno sguardo all’indice: prima o poi (in genere prima del capitolo dedicato a Socrate) incontrerete parole come “Elea” o “scuola eleatica”. Per la cronaca, è una scuola filosofica più importanti dell’antichità e all’interno della storia della filosofia riveste un ruolo di rilievo perché è quella che ha partorito il concetto di “Essere”, dando vita a quella branca della materia che si chiama “ontologia” e che sarà il filone aureo della scuola tedesca dell’Ottocento. Ancora meglio, se avete un amico filosofo provate a chiedergli cosa sia e che valore abbia l’Essere: sarebbe come chiedere a un prete cosa sia Gesù all’interno del cristianesimo. Tutto questo per dirvi in poche parole che la suddetta scuola eleatica è uno dei pilastri portanti di tutta la filosofia. E tale scuola era nata e si trovava a Elea (ovviamente), nome antico della città di Velia.

Rivelato questo arcano, ci si aspetterebbe che a Velia ci sia una delle più importanti facoltà di Filosofia d’Italia. Ebbene no, ma – ammettiamolo – sarebbe un pretendere troppo. Però sarebbe già più accettabile immaginare un concorso-evento di natura filosofica. Una specie di convegno, un seminario di studi, qualcosa di magari piccolo ma fattibile. Ma no, non c’è. In mancanza di meglio, magari una piccola libreria specializzata. Niente di pretenzioso, certo, ma quantomeno una realtà furbamente commerciale, in grado di promuovere i neolaureati filosofi (ebbene sì, ce ne sono) dando uno spazio editoriale alle loro tesi (e se non ci sono fondi per la stampa, pazienza: oggi esistono gli ebook e la pubblicazione online).

No, neanche questo c’è. Però ci sono gli scavi archeologici. Se non c’è spazio per attività del genere nel paese, ce ne sarà in quel micromondo che esiste apposta per i turisti interessati al genere. Sì, perché il turista che con un minimo di fatica (per via di trasporti, collegamenti, servizi) arriva agli scavi, ci arriva anche e soprattutto per conoscenza preventiva: ha studiato o sentito nominare la scuola eleatica e ora vuole vederla e tastarne con mano i resti. Purtroppo al turista toccherà rimanere un po’ deluso (ancora) perché nel migliore dei casi la risposta alla sua curiosità sarà soddisfatta da una stanza più o meno anonima nella quale campeggia il busto di Parmenide (fondatore del concetto di Essere) sovrastato dalla frase-simbolo che ne certifica la concezione (“l’essere è e non può non essere. Il non essere non è e non può essere”).

A mio avviso conoscere la filosofia è sempre appagante, tuttavia c’è da ammettere che in questo caso lo sforzo è scarso. Ma come detto sopra, questo accade nel migliore dei casi. Nel peggiore tale stanza è chiusa al pubblico come tutta la zona che la ospita (e che corrisponde all’acropoli della città). E il peggiore dei casi corrisponde alla realtà perché posso testimoniare personalmente tale situazione almeno un anno fa ma – mi si dice – continua tuttora. Per non rimanere del tutto delusi rimane la libreria degli scavi nella speranza di rimediare qualche testo specifico sull’argomento che sia fuori dai normali circuiti editoriali. Inutile dirlo, niente anche lì. Simile a un naufrago spaesato, ci si potrebbe aggrappare a un souvenir come ultimo scoglio e risorsa: spiacenti, anche lì vi dovrete accontentare di qualcosa non originale, tipo la calamita da frigo o le penne colorate.

Capua presenta lo stesso problema. Al di là dei famosi “ozi di Capua” che infiacchirono l’esercito di Annibale portandolo alla sconfitta, la città è famosa per il suo anfiteatro e in particolare è nota alla Storia per essere stato il luogo da cui è partita la rivolta del gladiatore Spartaco, uno degli episodi più importanti della storia di Roma in quanto la città rischiò seriamente di cadere per mani di schiavi ben addestrati alla guerra. In filosofia troviamo una prima importante menzione negli scritti di Marx che sottolineò l’evento come il primo esempio di “rivolta del proletariato”, ma è nella cultura pop che l’episodio rimbalza da un media all’altro quali cinema e televisione e consegnando dunque la figura del gladiatore all’immaginario visivo.

Esattamente come Velia, né il sito archeologico né il gradevole museo fa leva su questa possibile promozione. Spartaco viene menzionato una o due volte all’interno di qualche didascalia, ma niente di più. Ed è un vero peccato perché una figura del genere oltre a essere una promozione accattivante è anche portatrice di un messaggio morale (rivolta contro i soprusi e il potere) che esiste da sempre e che – oggi come oggi – non è affatto superfluo ricordare.