Che cosa accese, a partire dall'autunno del 1943, l'odio incontenibile contro gli italiani?
L'inconscia bramosia di vendetta contro un popolo al quale già allora si doveva riconoscere che sarebbe uscito dalla guerra infinitamente meno macchiato e infangato della propria nazione?
Contro un popolo che non voleva più saperne di partecipare alla guerra delittuosa e per questo motivo veniva bollato con l'epiteto di "traditore", esattamente come la mafia perseguita e uccide chi tenta di uscire dall'ambiente della criminalità collettiva?
Quale molla era scattata? Il disprezzo oppure l'invidia?

Parole molto più che dure, quelle usate da Erich Kuby. Una chiarezza di giudizio che non ammette scusanti, distinguo o benaltrismi di sorta. Parole che suonano quantomeno singolari, essendo rivolte da un tedesco verso il proprio popolo in relazione a un contesto ben preciso quale quello della dissoluzione dell’alleanza militare dell’Asse. Parole inequivocabili come il titolo del libro in cui sono contenute: “Il tradimento tedesco: come il Terzo Reich portò l'Italia alla rovina”. Rovina, è bene precisarlo, ottenuta con l'imprescindibile contributo di Mussolini in qualità di utile idiota. Ma procediamo con ordine: chi è Erich Kuby?

Giornalista e saggista, voce critica della Germania federale, è stato più volte sfiorato dalla Storia nel corso della sua lunga vita (1910-2005). Da bambino ha visto il padre, tipico reduce revanscista della Grande Guerra, passeggiare in giardino col generale Ludendorff. Da ragazzo ha attraversato in bicicletta l’Europa centrale in compagnia di una fidanzata ebrea. In prime nozze è diventato cognato di Heisenberg. Destinato prima al fronte orientale, dove a causa di un procedimento disciplinare è trattenuto dal raggiungere il suo reparto a Stalingrado, e successivamente trasferito in Francia, dove vive le insensate violenze dell’assedio di Brest, viene infine catturato dagli Americani. Il Kuby che sopravvive alla guerra è stato quindi testimone di tutti gli aspetti del nazismo, dalla progressione antisemita alle mostruosità nei territori occupati, ed è ben lieto di collaborare con le autorità alleate di occupazione alla selezione di una nuova leva di giornalisti tedeschi denazificati: senza esagerare, egli può essere considerato padrino di iniziative editoriali destinate a lunga vita quali Suddeutscher Zeitung, Der Spiegel e Stern. Malgrado questi successi, Kuby non smette di vigilare sul sentimento comune della società tedesca, specialmente negli anni in cui il miracolo economico sembra far passare in secondo piano altri, sinistri fenomeni come il massiccio riarmo della RFT incoraggiato dagli accordi NATO.

È in questo quadro che si inserisce Il tradimento tedesco, opera uscita in Italia nel 1986 e finita fuori catalogo da almeno vent'anni: dettaglio quantomeno singolare, così come lo è che a oggi (agosto 2018) non esista un lemma dedicato a Kuby sull'edizione italiana di Wikipedia. È una lacuna tutt’altro che secondaria, trattandosi di un libro che, da solo, affronta e abbatte uno dei pilastri di certo revisionismo nostrano: il mito dell'italiano traditore.

Kuby infatti esamina la diceria dell'inaffidabilità italiana partendo dall'origine, ovvero da come il reducismo tedesco rielaborò la Grande Guerra in generale e uno dei suoi punti di svolta in particolare: il passaggio dell'Italia all’Intesa, presentato come voltafaccia ma che così non fu. La Triplice Alleanza infatti, coalizione innaturale dall'origine, era stata già compromessa nel 1908 dall’Austria-Ungheria attraverso la cosiddetta crisi bosniaca, evento foriero di una progressiva ostilità fra Roma e Vienna: basti ricordare l’approntamento, a partire dal 1911, di una linea difensiva anti-tedesca sulle Alpi Orobie da parte di Cadorna o, addirittura, la proposta dello Stato Maggiore asburgico, dopo il terremoto di Messina, di sferrare un attacco a sorpresa contro l’Italia finalizzato a riconquistare il Lombardo-Veneto. Un idillio, insomma!

Il tradimento per antonomasia è però un altro, stando a un immaginario ancora oggi tenacemente radicato e alimentato per motivi politici: è lo sganciamento dell'Italia dalla Germania maturato nell'agosto ‘43 e suggellato dalla proclamazione dell'avvenuto armistizio la sera del fatidico 8 settembre. È necessaria a questo punto una precisazione: Kuby si rivolge essenzialmente ai Tedeschi che, a partire dagli anni ‘60, hanno progressivamente riscoperto le vacanze estive in Italia. Si tratta di turisti fra quali sopravvive ancora qualcuno che un ventennio prima ha attraversato la penisola in tutt'altra veste e ancora si porta dietro l’eco delle argomentazioni della propaganda dell'epoca: su tutte, l'infamia del voltafaccia badogliano ai danni dell'onesto alleato tedesco.

Ma onesto quando, e quanto?
- Onesto nel far uccidere il cancelliere austriaco filo-italiano Dollfuss?
- Onesto nel vendere armi all'Etiopia, armi che spareranno contro gli italiani aggressori?
- Onesto nel fare coriandoli del trattato di Monaco, creatura diplomatica primariamente di Hitler ma strumentalmente attribuita a Mussolini?
- Onesto nel fissare già nel marzo ‘39 l'invasione della Polonia entro fine estate, salvo poi a maggio, in sede di firma del Patto d'Acciaio, garantire (a parole) all'Italia la menzogna della pace in Europa fino al 1942?
- Onesto nel manomettere a suo vantaggio il testo tedesco dello stesso patto, di fatto considerando nulla la versione italiana dello stesso accordo?
- Onesto nel firmare un trattato di non aggressione con l’URSS, pur vigendo quel Patto Anti-Comintern in virtù del quale l’Italia aveva sacrificato fior di commesse economiche, anzitutto navali, con Mosca?
- Onesto nell'attaccare Polonia, Danimarca, Norvegia, Olanda, Belgio, Francia, Regno Unito e URSS senza uno straccio di concertazione con l'Italia, come gli accordi imponevano, anzi continuando a illudere l’alleato circa la non imminenza di una guerra su scala europea?
- Onesto nel liquidare come marginale lo scacchiere del Mediterraneo in favore dell'ottusa obbedienza alla dottrina geopolitica di Haushofer?
- Onesto nel mortificare sistematicamente le esigenze tattiche e strategiche dell'Italia quali Malta, Tunisia, Gibuti, arrivando al punto di dare più ascolto persino alla Francia di Vichy?
- Onesto nel non mantenere mai le promesse di forniture economiche e militari?
- Onesto durante la disfatta di Stalingrado nel requisire gli autocarri agli italiani lasciandoli a piedi nella neve?
- Onesto nell'abbandonarli a El-Alamein?
- Onesto nel cercare sistematicamente di esautorare lo Stato Maggiore italiano nel comando delle truppe italiane stesse?
- Onesto nel convincersi della necessità di invadere l’Italia già nel dicembre 1942, e nel predisporre poi i piani di tale invasione fin dal marzo ‘43, con Mussolini ancora in sella?
- Onesto nel dichiarare di avere riserve esigue per aiutare l'Italia sotto attacco, salvo poi inviare 15 divisioni tra cui alcune d’élite e di cui ben otto corazzate per occuparla?

… Ecco allora che la serie di eventi riportati permette di riconsiderare radicalmente l'atteggiamento del governo nazista nei confronti dell'Italia, ravvisandovi infine un'opera di costante e progressiva vampirizzazione dell’alleato portata avanti fino al totale fagocitamento. Per contro, il comportamento italiano verso la Germania è quello di uno Stato che dà valore agli accordi sottoscritti e condivide le proprie debolezze: niente di più fatale se l’alleato si chiama Adolf Hitler. L’Italia infatti, fra il ‘38 e il ‘39, ribadisce continuamente e vanamente la propria impossibilità di intraprendere iniziative militari prima di 3-4 anni a causa delle precedenti campagne in Etiopia e Spagna, della generale riorganizzazione delle forze armate in corso, nonché di un piano di potenziamento industriale appena varato e che porterà all'attivazione di nuovi poli siderurgici a Genova e Napoli non prima del ‘41. La Germania ignora tutte queste raccomandazioni e, peggio ancora, Mussolini accetta sempre più passivamente l’indifferenza tedesca: solo il subentro di Badoglio a fine luglio ‘43 interrompe una spirale di crescente asservimento dell’Italia nei confronti di Berlino. È bene ricordare infatti che Badoglio, appena insediato, prima cerca invano un colloquio con Hitler per esporgli la situazione italiana come mai in precedenza aveva osato fare il duce, e solo successivamente, dopo aver denunciato ripetuti accessi non autorizzati di truppe tedesche dal Brennero, dà mandato ai suoi emissari per avviare trattative di resa e al contempo cerca di far pervenire istruzioni almeno alle forze italiane presenti sul suolo metropolitano.

Stando così i fatti, l'Italia dell’estate 1943, più che a un doppiogiochista spudorato, andrebbe accostata, con un'immagine neanche troppo azzardata, a una donna che, resasi conto di essere in balia di un marito psicopatico e potenzialmente omicida, segretamente si rivolge alle forze dell'ordine. La storia poi andò come andò: disastrosamente. Con alcuni accorgimenti sicuramente si sarebbero potuti limitare i danni, ma non evitarli, perché ormai era troppo tardi per una fuoriuscita indolore dal conflitto. Si accusino allora il sovrano, il capo del Governo e lo Stato Maggiore di miopia, pressapochismo, incompetenza, negligenze gravi e chi più ne ha più ne metta, ma l'accusa di tradimento lasciamola proprio perdere.

La recensione di questo libro fuori catalogo può essere allora occasione per alcune ulteriori considerazioni a margine, tali da integrare e talvolta aggiornare l’opera di Kuby. Cominciamo con una provocazione: c'è forse chi parla di tradimento a proposito della resa francese del 1940, o degli armistizi firmati da Romania, Bulgaria e Finlandia nel 1944? Assolutamente no, così come all'estero la capitolazione italiana non viene presentata come un'infamia, e se proprio si deve parlare di infamia, per lo meno in Francia, ci si riferisce alla ‘pugnalata alla schiena’ del 1940.

L’apparente assurdità che proprio in Italia perduri il tormentone del tradimento badogliano è facilmente spiegabile con il fatto che ancor oggi esiste e resiste chi ha interesse a puntare il dito contro altri per far passare in secondo piano un tradimento realmente avvenuto nel settembre ‘43: quello di tutti quei militari che, venendo meno al giuramento prestato all'unico legittimo Stato italiano esistito per tutta la durata del conflitto, ovvero il Regno d'Italia, seguirono Mussolini nella sua pseudo-repubblica eversiva, unitamente a tutti quei civili che scelsero a vario titolo il collaborazionismo con l'invasore nazista, contribuendo a innescare inevitabilmente una guerra civile che ancora oggi avvelena gli animi di quasi tutte le famiglie italiane.

L’ossessiva ripetizione di questo mantra è allora tipica di quanti, nel 2018, coltivano l'insensato culto della vergognosa esperienza di Salò, ovvero le varie anime del neofascismo, indubbiamente più libere che in passato di esternare le proprie imbarazzanti simpatie sempre più spesso oltre il limite dell’apologia di reato, anche a causa della conclamata incapacità dei social network di porre filtri efficaci a questo genere di propaganda: ecco allora che note bufale storiografiche un tempo riservate alla cerchia dei lettori di periodici come “Asso di Bastoni” godono di nuova, insperata e immeritata visibilità; ecco nuovi proseliti per vecchie fanfaluche come il carteggio Churchill-Mussolini, le lettere di De Gasperi, il proclama di Juin o l’inaffondabile teorema del “tradimento degli ammiragli”, che a un giornalista scandalistico prestato alla storiografia di nome Trizzino portò negli anni Cinquanta tanta fama, ma anche diversi guai giudiziari nel decennio successivo.

Intorno a questo nocciolo duro di irriducibili, impegnati a ostentare un’idea di onore che si presta fin troppo a richiamare il tribalismo della mentalità mafiosa, si estende poi a perdita d'occhio una zona grigia apparentemente apolitica nei cui discorsi puntualmente riemergono “anche cose buone”, bonifiche, treni in orario e, ultimamente, ponti incrollabili: insomma attenuanti più o meno mitizzate che si traducono in un atteggiamento sostanzialmente bonario verso Mussolini e il suo maledetto ventennio; chissà poi che in alcuni casi questa posizione parzialmente assolutoria non sia interessata, ovvero riabilitare il duce e il suo regime non significhi, a cascata, magari inconsciamente, scagionare anche un nonno stupratore di ragazzine etiopi, un prozio incendiario di villaggi sloveni o un congiunto arricchitosi a discapito del vicino di casa ebreo.

Per contro, l'astio nei confronti di Vittorio Emanuele III era ed è fortissimo, e anche chi non vede nell'armistizio un tradimento si vergogna della cosiddetta “fuga di Pescara”: reazione alquanto singolare se si pensa che invece Polacchi, Norvegesi e Olandesi non hanno mai rinfacciato nulla ai rispettivi governi e sovrani fuggiti in esilio davanti all'incalzare della Wehrmacht, mentre i Belgi, nel dopoguerra, pretesero l’abdicazione di re Leopoldo III, reo di aver accettato la condizione di ostaggio dei Tedeschi. Così come più o meno tutti i governi e i vertici militari europei avevano pronti dei piani di contingenza per “assicurare la continuità e la libertà d’azione decisionale dei vertici politici e militari”.

Tornando al caso italiano allora, Re, Governo e Stato Maggiore, dirigendosi non incontro agli Alleati ma verso una porzione di territorio libera da qualsiasi esercito straniero, quale è la Puglia nel settembre ‘43, salvano almeno formalmente la continuità diplomatica, militare e dinastica dello Stato e consentono agli Alleati di avere un interlocutore ufficiale, condizione per cui un’Italia internazionalmente riconosciuta, non solo non cessa mai di esistere (diversamente dalla Germania, annullata dal 1945 al 1949), ma ancora a guerra in corso gradualmente riottiene la piena sovranità di buona parte del proprio territorio metropolitano arrivando ad esser considerata co-belligerante, qualifica che contribuirà di molto ad ammorbidire le condizioni post-belliche.

Altro motivo di astio, nonché altro falso storico, è poi la vulgata dell’esercito abbandonato senza ordini, ma un passaggio della stessa fuga di Pescara fornisce lo spunto per ben altra riflessione: nello spettacolo delle centinaia di ufficiali con famiglie al seguito che si accalcano sulla banchina del porto di Ortona, cercando di imbarcarsi sulla corvetta “Baionetta” alla volta di Brindisi, si ha la visione della vera vergogna italiana. Diversamente da quanto normalmente raccontato in sede di commemorazione storica, gli ordini da Roma ai Comandi d'Armata, circostanziati e competenti, furono trasmessi, ma troppo spesso non arrivarono alla truppa per grave negligenza o viltà degli ufficiali intermedi. Lo sbandamento generale del Regio Esercito era già iniziato all'indomani del 26 luglio, con diserzioni in massa - come quelle registrate sul fronte siciliano - o con piccole, appena percettibili, lente emorragie di diserzione spicciola giornaliera, alla chetichella.

Tale trasversale sfacelo serpeggiò lungo tutte le scale gerarchiche “dal caporale al colonnello” fin quando, fra il 10 e l'11 settembre, la notizia della fuga delle autorità dalla capitale si diffuse nel Centro e Nord-Italia: la stragrande maggioranza dei reparti era, al momento della diffusione della notizia, o già liquefatta, o sulla via delle montagne, o prigioniera dei tedeschi.

L'8 settembre allora non è l'anniversario del tradimento di pochi, ma della vergogna di tantissimi che, seppure al corrente di ordini precisi, nel momento della verità cercarono solo di far perdere le proprie tracce, mentre negli anni successivi, lungi dal confessare le proprie colpe, approfittarono ben volentieri del capro espiatorio del Savoia fuggiasco (sicuramente additabile per tante altre gravissime colpe, dal 1922 in poi) immagine prima enfatizzata in funzione del referendum istituzionale del ‘46, e poi consolidata nel tempo via via che la causa monarchica andava esaurendo il suo bacino elettorale, rendendosi invece utile nel ruolo di “male assoluto” per gli schieramenti più disparati, dagli eredi ideologici dei repubblichini ai capi-rione di certo localismo separatista fondato sul mito di fantomatiche Eldorado pre-unitarie.

Lo sfacelo dell'8 settembre, collasso anzitutto morale e conseguentemente militare, arriva da lontano: è il frutto avvelenato di vent'anni di diseducazione civica attuata dalla dittatura, per cui una passiva accettazione di sterili rituali collettivi ha sostituito la reale partecipazione alla vita pubblica, mentre il dilagante culto del capo infallibile si è tradotto in un progressivo disimpegno dall'assunzione di qualsivoglia responsabilità individuale.

In simili circostanze di immaturità di massa non può che sbalordire ancor di più la prova di senso del dovere data dalla squadra navale di La Spezia, dai granatieri di Porta San Paolo, dalle guarnigioni di Corsica, Sardegna, Cefalonia e Lero, per non parlare di singole figure di comandanti quali un Gonzaga, un Bellomo, un Fecia di Cossato: esempi di cocciuta lealtà al giuramento prestato che meriterebbero sicuramente maggiore fama rispetto a quella lugubre primadonna del principe Borghese, reo insieme ad altre figure carismatiche di aver adescato migliaia di ventenni spaesati del Nord Italia, traviandoli col proprio pessimo esempio.

Nelle prime reazioni all'aggressione nazista, c'è il germe della Guerra di Liberazione, che fu anche guerra di riscatto, personale e collettivo. Riscatto per le Forze Armate, ora investite della responsabilità della cobelligeranza: per la Regia Marina, reimpiegata quasi subito nella scorta ai convogli; per i circa 300 aerei superstiti della Regia Aeronautica, sulle cui ali ricomparve la coccarda tricolore il luogo del triplice fascio; per il Regio Esercito, gradualmente ricostituito e riorganizzato dapprima come Corpo Italiano di Liberazione e poi come Gruppi di Combattimento, che si dimostrò capacissimo di superare sia la prova del fuoco sul fronte, sia ostacoli psicologici come la necessità, dall'estate ‘44, di sostituire per esaurimento scorte le proprie divise con quelle inglesi, mentre a nord le varie forze militari e paramilitari di Salò sconciavano definitivamente l'onorabilità del grigioverde. Riscatto che, nei territori ancora occupati, significò Resistenza: inizialmente limitata ai militari scampati alla cattura, poi movimento di popolo capace di incarnare il ritrovato pluralismo politico; pluralità di anime allora a cui sarebbe opportuno far corrispondere una pluralità di memorie oggi, ad esempio ricordando l'esistenza non solo di ANPI ma anche di FIVL e FIAP, onde privare i neofascisti della comodità di nascondersi dietro la maschera dell'anticomunismo.

Resistenza che si espresse in varie forme: sia nella guerriglia capace di distogliere dal fronte la quasi totalità delle forze fasciste e un buon 30% delle truppe tedesche, come lo stesso Kesselring ammise poi, sia nella stoica sopportazione dei 600.000 internati militari italiani che preferirono due anni di schiavitù nei lager al giuramento a Salò. Resistenza che periodicamente viene liquidata come assurda e anacronistica, ma che così non è, anzi ha ancora molto da insegnare, non solo e non tanto per rintuzzare i sempre più frequenti e sfacciati rigurgiti neofascisti, ma come esempio di cittadinanza attiva nel mondo reale, fatta di proposte, discussioni e partecipazione, e non di proclami più o meno isterici sulla propria bacheca da condividere all’interno di comunità virtuali. Perché nell’Italia del 2018 è ancora troppo forte la tentazione di barattare la democrazia con il padrone buono di turno.

Si ringraziano Paolo Alpini, Giacomo Bellucci, Fabiano Fava, Vito Scipione, Michele Spadoni.

Bibliografia
E. Kuby, Il tradimento tedesco, Amburgo 1982, Milano 1983
F. Stefani, 8 Settembre 1943 – Gli armistizi dell’Italia, Milano 1991