È stato lungo e faticoso il percorso per stabilire un contatto e sviluppare un rapporto con Paolo, un ragazzino inizialmente quasi impossibile da raggiungere a causa della “doppia deprivazione” sofferta che, ferendolo a morte, lo aveva reso selvatico, aggressivo, inavvicinabile.

Per “doppia deprivazione” si intende sia la deprivazione patita per circostanze esterne che sfuggono al controllo (si intende di solito la mancanza di stabili figure genitoriali nella primissima infanzia) che la deprivazione derivante da un contenitore interno che fornisce scarso appoggio. Paolo fin da piccolo ha rivelato disturbi nel comportamento: era molto aggressivo e, per questo motivo, ha subito da parte del padre punizioni corporali e castighi molto severi, come per esempio essere chiuso per ore al buio nello sgabuzzino. Sia all’asilo che alle elementari ha creato grossi problemi a causa della sua violenza, tanto che è stato espulso dalla mensa e dal doposcuola.

Paolo racconta della sua nascita come di un’esperienza traumatica, è avvenuta col forcipe perché “non ero pronto ad uscire” ed è stata caratterizzata da momenti di luce/vita e buio/morte a causa di un corto circuito nell’ospedale che, secondo lui, poteva determinare la sua morte. Davvero una metafora calzante del travaglio emotivo che l’ha segnato dolorosamente in quella prima inaccettabile separazione.

Lo prendo in carico quando entra alla scuola media e in lui esplode una forte aggressività tanto da rendere la situazione estremamente pericolosa. Urla, impreca, lancia sedie contro i compagni, distrugge oggetti, picchia, insulta, sputa, dà pugni, suda, è affannato, urla di volere essere ammazzato e di ammazzare… A causa di un episodio di tentato strangolamento di una compagna, viene allontanato dalla classe e da allora il suo ambiente sarà l’aula di sostegno dove inizieranno le violenze fisiche e verbali con le insegnanti di appoggio.

L’identificazione è col padre, uomo autoritario e violento che Paolo teme e odia, ma allo stesso tempo ammira così come Hitler “era un delinquente, ha ammazzato tanta gente …. E ha fatto bene!!!”. Il padre è considerato il capo e anche lui si autodefinisce capo a cui tutti devono sottostare e, a volte, arriva profumato col dopobarba del padre e vuole che lo annusi come per riconoscere il padre-padrone in lui. Nei momenti di crisi in cui è dominato da pulsioni distruttive e dall’aggressività, perde il contatto con la realtà, cambia espressione, non riesce a sentire più niente se non la sua assordante voce interna che lo domina e quando si riprende è disorientato, si spaventa e piange.

Nonostante le esplosioni di violenza sente pericolosamente di essere fragile e per salvarsi da questa immagine di sé inaccettabile, proietta la sua parte debole, facilmente penetrabile e feribile negli altri che devono sentirsi inadeguati e impotenti come si sente lui soprattutto rispetto al padre-capo. Il disprezzo di sé è riversato in particolare su Flavio, un ragazzino autistico che Paolo odia e vorrebbe eliminare perché teme di vedere riflesse in lui le sue miserie e quando lo incontra lo insulta ferocemente “sei nato male, sei handicappato, tua madre ti ha fatto male”, a volte lo picchia o prova a rubare i suoi giochi o a distruggerli. A me sibilerà: “Flavio è un paralitico, deve morire, lo uccido, perché perdi il tuo tempo con lui? Non devi pensarlo, ti devi scordare di lui. Io lo uccido, così tuo marito mi dirà ‘grazie’! Tutti gli ammalati devono essere uccisi”.

Quando Paolo inizia ad instaurare un rapporto con me, rivendica il bisogno di un sostegno incondizionato, altrimenti si riattiva il vissuto intollerabile di deprivazione e ogni volta che si sente frustrato nelle sue aspettative mi accusa violentemente di non mantenere la parola, di non saper fare il mio mestiere, di dimenticarmi di lui. Due giorni alla settimana inizio a lavorare alle 9.20 e Paolo non perde l’occasione di rinfacciarmi con aria minacciosa “tutte le mattine sei in ritardo”, pur essendo a conoscenza del mio orario. Il fatto poi che io divida le mie ore tra lui e Flavio lo irrita moltissimo, lo fa sentire tradito, abbandonato e ovviamente deprivato.

Ha fatto un cartellino su cui ha contato e suddiviso le mie ore di lavoro per assicurarsi di non essere leso nei suoi diritti, ma nonostante questo vive come una truffa il fatto che al sabato io abbia solo un’ora con lui e quattro con Flavio: “non è giusto che tu stia 4 ore con quel handicappato e ti dimentichi del tuo Paolo, dì la verità, mi vuoi mollare” e ha scritto una lettera alla preside e al provveditore denunciando l’ingiustizia della situazione e richiedendo più ore per sé.

Durante tutto l’anno scolastico Paolo darà libero sfogo alla sua aggressività distruggendo coattivamente cose e attaccando violentemente persone. Sfascia l’aula di sostegno, calpesta i tubetti di colore imbrattando pareti e pavimenti, stacca gli attaccapanni, rompe le prese della corrente, allaga l’aula e il corridoio facendo scorrere l’acqua dal lavandino e aprendo gli idranti, scardina la porta, rompe le sedie, stacca le bombole antincendio appese ai muri facendo saltare le viti, dà pugni e calci a preside, insegnanti, bidelli e compagni. Distrugge anche psicologiamente svalutando e minacciando le persone che avvicina, mi ripete urlando in maniera ossessiva insulti e poi “ti rovino, ti spacco la faccia, ti uccido, ti frusto”.

La scuola è l’ambiente privilegiato dove Paolo deposita la sua furia, è il teatro d’elezione dove mette in scena i suoi fantasmi più terrorizzanti. Probabilmente nella sua fantasia inconscia ritiene le proprie pulsioni aggressive responsabili della morte del fratello “per me è come se non fosse mai morto, è dentro di me” e per acquietare il suo senso di colpa cerca punizioni (le sospensioni, le emarginazioni) e un contenitore che delimiti la sua onnipotenza distruttiva e che dimostri di sopravvivere, di non farsi distruggere da quegli attacchi che avevano invece “ucciso” il fratello. Per le sue minacce e per le aggressività agite apparentemente non si sente in colpa in quanto si sente sempre in credito di affetto e pieno di rancore e di vendetta per il male subito. Paolo sferra attacchi anche alla sua mente rifiutandosi di studiare o fare i compiti, nonostante sia molto intelligente.

Per evitare che io mi avvicini e che lo capisca rimandandogli quello che succede in lui, tenta di svilire i miei pensieri attaccando il lavoro che faccio “bastarda, sei figlia di merda, sei peggio di una bidella, sei una pezzente, tu per me qua non sei più nessuno, sei un’estranea che non mi toglierò mai dalla mente” oppure “tu non sai niente, non comandi niente, il capo sono io”. Paolo non si può permettere un legame affettivo, lo desidera ma lo teme, la vicinanza sarebbe ustionante, è come se dovesse essere sempre figlio della deprivazione, come se si fossero atrofizzate le capacità di assimilare il bene.

Dopo alcuni mesi inizia a permettersi i primi passi verso di me, ma solo disumanizzando la relazione e creando tra di noi un rapporto di tipo meccanico “devi imparare a fare i numeri pari e i numeri dispari per maturare e diventare un’elettrotecnica per aggiustare e usare il computer ‘Paolo 1500’ quando è impazzito e non funziona più niente”. Dopo un anno di scuola, pur mostrando ancora moltissime difficoltà di rapporto, si evidenzia una progressiva bonificazione interna che fa sperare che la deprivazione possa essere gradualmente attenuata.

Infatti ha inventato tanti giochi che esprimono desiderio di comunicazione, di essere capito e aiutato. Ha costruito un telefono a gettoni, un ristorante che prepara cibi buoni, tram, metropolitane, filovie e tanti altri mezzi di comunicazione che oltre al significato di mettere in contatto hanno anche quello di creare un contenitore e soprattutto, di vivere l’esperienza del costruire dopo tanto distruggere. Ha rivelato anche l’instaurarsi del senso di fiducia inventando una fiaba in cui in un paese terrorizzato da un lupo che mangiava le persone, i bambini hanno trovato la pace perché una "cacciatrice di lupi" li avrebbe protetti e avrebbe ammazzato il lupo cattivo. Ha iniziato a non aver più il bisogno di una identificazione incondizionata con l’immagine del capo, chiedendomi di giocare alla polizia in cui io facevo il capo e lui il mio aiutante. È riuscito ad accettare e a compiacersi nell’essere riconosciuto come persona, anche nelle paure “hai un grande intuito, allora sai tutto della mia vita … aiutami, dillo tu al posto mio, dillo tu che lo sai”.

A questo punto poteva rischiare di permettersi un rapporto tra esseri umani vivi, la relazione non era più sentita così terrifica e portatrice di distruzione. È capitato che dopo una crisi di angoscia devastante in cui si era addirittura arrampicato sulla parete come un gatto selvatico, è corso nell’aula di musica, ha aperto tutte le amplificazioni, si è messo alla pianola, ha individuato i toni basso/gravi e pestando con ferocia sui tasti ha espresso la drammaticità del suo tsunami emotivo producendo un insieme caotico e assordante dove si perdeva, cambiava espressione, lo sguardo era torvo e opaco, la bocca serrata e stizzosa, affondando come accecato nei suo incubi, nel frastuono prodotto che ha definito con voce tombale “la musica paurale”.

Io ho cercato di raggiungerlo, di ripescarlo da quell’affondo, richiamandolo alla realtà con una musica diversa, pacata e dolce, mettendomi dall’altra parte della tastiera, facendo da contraltare leggero alla gravità del suo frastuono, avvicinandomi a poco a poco a lui che iniziava a scorrere le dita in maniera meno frenetica e incontrollata, ma più intenzionale verso quella sonorità rassicurante da lui definita con sollievo “la musica di pace” e, recuperato il senso del vivere, ha potuto affidarsi e chiedere aiuto aggrappandosi a una sensazione di bene che finalmente poteva riconoscere “suonala sempre, devi continuare così, altrimenti cado ancora nella musica paurale…”.

Ora la sua mente abrasa non più sanguinante, ma in via di rimarginazione, poteva tollerare di essere toccata...