“La situazione era un po’ più complessa”.

È ciò che dice Giulio Andreotti a Eugenio Scalfari in un dialogo tratto dal Il divo di Paolo Sorrentino. Nella scena, Scalfari elenca al senatore tutti i crimini politici dei quali è accusato, e Andreotti – lapidario e coerente al suo stile – gli risponde così.

Forse Andreotti è/era il mandante di tali crimini. Forse è stato il ponte tra Stato e mafia. Forse è stato la parte più oscura della storia politica d’Italia. Non si sa. Un giorno magari lo sapremo con certezza. Ma anche se da un certo punto di vista è innegabile imputargli una più o meno rilevante responsabilità di quanto gli si attribuisce, è innegabile allo stesso tempo che non abbia agito per pura scelleratezza. C’era un piano. “La mostruosa, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene”. Insomma, la situazione è davvero un po’ più complessa.

Prendo in prestito quanto detto per invitarvi a una riflessione storica, e cioè come a volte eventi del passato hanno oggi – per semplicità o semplificazione – una visione forse troppo facilmente univoca quando invece possono presentare risvolti più articolati.

Partiamo da un esempio “classico”: la democrazia ateniese. Per antonomasia, l’Atene dell’antica Grecia viene identificata come il luogo dove nacque la democrazia. Vero. Il termine e l’organizzazione della stessa nascono lì. Ma fu un vera democrazia in tutto e per tutto? Oggi le nostre democrazie vengono spesso paragonate a quella, talvolta con l’intenzione di bacchettare le nostre imperfezioni governative avendo come modello quella illuminata del V sec. a.C. Purtroppo però “la situazione era un po’ più complessa”, perché la democrazia ateniese prevedeva appunto il potere del demos, termine con cui si identificava una parte della popolazione (o anche di territorio) che aveva diritto alla cittadinanza e dunque al voto.

Il demos tuttavia era costituito solo da cittadini ateniesi, di sesso maschile e maggiorenni. Il che significa che dobbiamo escludere donne, minorenni, immigrati e schiavi – classe sociale che per fortuna oggi non esiste ma all’epoca sì ed era pure numerosa. A questa categoria va aggiunta ovviamente quella dei non cittadini, vale a dire tutte quelle persone che non erano nate ad Atene, ma ci si erano trasferite (oggi a seconda dei casi le chiameremmo “immigrati” o “oriundi”). Ad esempio, io che sono nato in una certa città, ma oggi mi ritrovo a vivere in un’altra, nell’antica Atene non avrei posseduto una cittadinanza. Tradotto in cifre sufficientemente attendibili, si può affermare che su trecentomila abitanti circa (stima nella sua massima espansione), il numero di cittadini (e dunque votanti) oscillava tra i venti e i trentamila. Dunque, in proporzione, la democrazia ateniese prevedeva che dell’intera popolazione votasse il dieci percento.

Ma mettiamo subito le mani avanti: in un periodo storico in cui è prevista la presenza di schiavi e – per quanto ci possa sembrare incivile – il non diritto di voto alle donne era una cosa assolutamente normale, possiamo comunque parlare di una democrazia abbastanza autentica, o almeno di una sua introduzione. Solo c‘è da operare i dovuti distinguo perché la situazione è un po’ più complessa di quanto si immagini.

Che dire invece della più feroce congiura mai ordita durante la Roma repubblicana? Quella smascherata da Cicerone e ordita da Catilina, personaggio che la tradizione storica ci tramanda come infame, violento, assassino, incestuoso e perfino cannibale. Nel nostro immaginario reduce dai banchi di scuola (o per lo meno di chi è reduce da una scuola che ancora sapeva fare il suo mestiere), Cicerone appare come il campione della libertà e giustizia, mentre Catilina l’oscura minaccia ai danni della repubblica. Ma se per caso anche qui la situazione fosse un po’ più complessa?

Per esempio, potremmo partire dal fatto che gli storici che parlano di Catilina erano quasi del tutto avversi politicamente, un po’ come se oggi Berlusconi dovesse scrivere la biografia di Lenin. Ma per avere un quadro più chiaro della cosa, conviene ricordare l’evento: Catilina si candida alla carica di console nel 62 a.C., avendo come avversario Murena. Poco prima della votazione, Cicerone presenta al senato lettere anonime che accusano Catilina di congiura (immaginate la reazione di oggi se nel nostro parlamento un deputato accusasse un candidato premier sulla base di una lettera anonima). Murena nel frattempo vince le elezioni ma viene accusato di brogli elettorali e – dettaglio importante – non verrà accusato da Catilina ma da altri due candidati, Sulpicio e Catone. Esattamente quel Catone Uticense che tutta le tradizione storiografica descrive come esempio di rettitudine somma; difatti anche se Murena all’epoca venne assolto dall’accusa di corruzione, oggi è ormai comunemente accettato che fosse invece colpevole. La difesa di Murena al processo fu assunta da Cicerone, il quale la impostò in modo da descrivere Catilina come una persona malvagia e capo di una congiura, sostenendo di essere lui stesso sfuggito alla morte dopo che due congiurati tentarono di ucciderlo. La sua orazione convinse così tanto il senato che Catilina e presunti congiurati verranno condannati alla pena capitale, anche se sarebbe stato loro diritto scegliere l’esilio e la confisca dei beni (diritto che venne loro negato).

Insomma uno scenario abbastanza più complesso da come ce lo descrivono i sussidiari di storia. Soprattutto se si va a scavare e si scopre che Catilina proponeva una politica di riforme che avrebbe indebolito e rovesciato il sistema oligarchico dei senatori, concedendo più spazio alla plebe, grande spina nel fianco della repubblica romana in quanto maggioranza, ma quasi per nulla rappresentata all’interno del senato. Insomma, se Catilina stesse proponendo un governo molto più popolare rispetto all’aristocrazia vigente o se stesse effettivamente tramando un colpo di Stato non lo sapremo mai; certo è che qualunque sia la risposta non è per nulla così netta, ma sfumata nelle maglie di una situazione decisamente più complessa.

La tentazione di proporre un ultimo esempio è forte, ma soprattutto lo è la tentazione di usare la rivoluzione francese per tale esempio. Tuttavia sicuramente commetterei – nonostante tutta l’attenzione possibile – errori di superficialità nello sviscerare un evento così vasto e articolato. Mi contento solo di ricordare quanto tale evento sia mediamente considerato positivo, cosa che sicuramente lo è, ma che forse è tale solo nel momento in cui lo vediamo con il cannocchiale della Storia. Senza la rivoluzione noi oggi non avremmo i diritti fondamentali dell’uomo, non avremmo questa consapevolezza di uguaglianza dell’essere umano (e forse di conseguenza quella consapevolezza che ha permesso la fine dell’apartheid in America), non avremmo la maturità civica che ci permette di non sottostare a un’autorità lo cui sola forza proviene da un titolo nobiliare. Ma sono appunto cose – come altri eventi del passato – i cui benefici o i cui danni si percepiscono se lasciati maturare nel corso di un tempo declinato in decenni se non proprio secoli.

Sul momento la rivoluzione è stato un macello (la Storia stessa ne ricorderà un pezzo battezzandolo il “Terrore”), e forse un piccolo trionfo di ipocrisia. Come accade a molte altre rivoluzioni, del resto. Non c’è da stupirsi se, una volta al potere, la popolarità diventa populismo e il populismo si risolve in despotismo (sarebbe quasi superfluo ricordare un Pol Pot, un Tito, un Peron, per non parlare dei “classici” Hitler, Mussolini, Franco e Stalin).

Ma che si faccia sempre bene attenzione a non scadere nel revisionismo storico, il peggiore dei mali che può subire chi studia il passato. Qui non si tratta di cambiare la percezione morale di un evento: si parla invece di gestirlo conoscendolo nelle sue sfaccettature, possedendo il bene e il male, il pro e il contro, sempre e solo per poter imparare da chi ci ha preceduto quali sono le condizioni che generano un evento e quali sono le conseguenze che quello stesso evento crea.

Perché la Storia è solo un po’ più complessa. Non complicata.