Nei viaggi tra il 2014 e il 2016, alla ricerca delle relazioni bio-evolutive tra il genere umano e quello vegetale nella foresta amazzonica, ho incontrato il popolo Shuar, che significa “difensore della natura”, nel cuore della foresta amazzonica in Ecuador.

Usando la fotografia come strumento scientifico in progetti definiti al limite tra la biologia evoluzionistica e l’antropologia, ho discusso con loro della possibilità di rappresentarli nelle foto “armati delle proprie piante”, impugnate come strumenti di lotta in difesa della loro cultura/identità/esistenza: un ritratto secondo il significato classico-rinascimentale del termine, dove il soggetto in posa tiene stretto tra le mani un oggetto che deve trasmettere le informazioni fondamentali su di lui, rappresentandone lo status, i valori, le occupazioni. La pianta sacra, albero o radice prescelta dalla foresta in cui vivono, con una semplicità primordiale e potente, concentra in sé la forza di un mondo, la potenza della crescita, la caducità della vita, la sussistenza che nasce dalla conoscenza e dal rispetto, la capacità femminile di guarire, nutrire, riparare, servire. Dal loro punto di vista, le piante sono intelligenti e sacre. Una pianta può essere un rimedio per una malattia, una droga, un veleno per uccidere – oppure è in grado di fornire alimenti o materie prime per la costruzione di case, barche, strumenti, vestiti, armi e così via.

Ciascuna di queste persone, tramite il loro stare e guardare dritto nell’obbiettivo, comunica una gravitas data dalla consapevolezza di avere radici salde nella terra. Ognuno è la punta di un compasso dalla quale circoscrivere un mondo la cui costante impermanenza è condizione ontologica di vita, come per tutti gli esseri viventi. Un mondo dove le persone e le piante appartengono alla stessa, sacra, categoria delle cose vive.

Più che ritratti fotografici, questi scatti costituiscono un ritratto collettivo, che appartiene tanto al dominio dell’arte che a quello della ricerca socio-antropologica. In questo senso, ho illustrato il concetto che, come le piante, l’uomo non ha possibilità di sussistenza al di fuori del suo network, del sistema di connessioni che ne garantisce la sopravvivenza, che egli ne sia consapevole o no. Ad aggiungere un ulteriore livello di lettura, la parte inferiore delle fotografie presenta l’immagine ingrandita di un seme che si staglia contro un nero assoluto, quasi come un pianeta fluttuante nello spazio, con la sua stessa presenza e misteriosa eterna lontananza. Ho introdotto un riferimento al Rinascimento, con i suoi affreschi costruiti a registri di diverso significato simbolico e metaforico.

Consapevole che la pianta e il mondo vegetale sono l'arma più efficace che abbiamo per preservare il mondo dalla distruzione, ho voluto simbolicamente ripercorrere gli stessi sentieri del biologo naturalista Crespi, che nelle sue lettere del ‘23 scriveva già del pericolo di distruzione della foresta ed era preoccupato dell’estinzione delle minoranze Shuar ridotte a poche centinaia. Le mie immagini cercano di testimoniare la loro tradizione millenaria come difensori della foresta. Ho deliberatamente scelto di lavorare senza un set progettato, evitando così i limiti necessariamente imposti da esso. Le persone coinvolte nel progetto si sono quindi sentite davvero coinvolte e libere di esprimersi e rappresentare nel proprio ambiente naturale e sociale la propria identità evidenziando il rapporto magico, psicologico e biologico che ci collega al mondo delle piante, con il quale condividiamo il 26% del nostro DNA.

Le piante sono da sempre fonte di cura, sopravvivenza e sanazione per tutti gli esseri viventi e in tutte le culture del mondo. La scienza ufficiale le classifica solo come molecole e le divide in categorie per sfruttarle attraverso il metodo tecnologico ma il loro potere e quello delle sciamane che le sanno interpretare è ben diverso. Ad oggi, questo approccio, che considera le piante esseri viventi dotati di energia messa a disposizione dal pianeta per purificare, sanare e nutrire l’uomo, sopravvive solo in poche culture ancestrali come quella andina e amazzonica.