La bocca che cola sangue, ma gli occhi ancora aperti in una smorfia di dolore. David, il pastorello che ha ucciso il gigante Golia con una fionda lo ha già decapitato per portare la sua testa in trionfo a Gerusalemme. E la mostra afferrandola per un ciuffo della folta capigliatura scura, pur se il suo sguardo non sembra quello di un combattente vittorioso, ma rivela turbamento.

È drammaticamente potente questo David con la testa di Golia esposto a Palazzo Barberini nella grande mostra dedicata a Caravaggio. Non è soltanto l'umanità dei personaggi di un racconto biblico a coinvolgere lo spettatore: c'è anche qualcosa di vero in questa scenografia teatrale. Forse non è sempre corretto leggere nelle opere la vita degli artisti, ma nel caso di un genio disperato e ribelle come Caravaggio diventa quasi impossibile evitarlo. Anche perché lui stesso lascia tracce, come sassolini bianchi in un bosco nero, per farsi cercare e ritrovare.

Quel volto contratto, sofferente, nonostante una spada avesse reciso la testa dal resto del corpo, è infatti il suo volto. È lui il cattivo, è lui a dover essere mostrato ormai inerme, espiando il senso di colpa per i suoi misfatti. Cambiano le date, cambiano i personaggi, ma la storia si ripete. Non siamo più nella valle di Elah, a pochi chilometri da Gerusalemme, dove gli ebrei stanno fronteggiando l'esercito dei filistei. Siamo nei vicoli della Roma del 600 tra pellegrini, banditi, vagabondi, artisti e prostitute che infestano locande e botteghe della città santa.

In quegli anni tenebrosi Caravaggio, occhi scuri e ciglio nero come la chioma, conosce spesso le galere pontificie. Risse per donne e per debiti di gioco rivelano il suo carattere iroso e arrogante, pronto a reagire anche per inezie, come quando – così narrano le cronache – tirò un piatto di carciofi al cameriere che lo aveva servito male.

Ma, artista geniale e già famoso quale era, poteva contare su amici influenti che ogni volta lo tiravano fuori dai guai. Fino al 28 maggio 1606, quando al Campo Marzio, durante una partita di pallacorda, infilzò con la spada il rivale Ranuccio Tomassoni e lo uccise. Nessuno sa se fu per un fallo di gioco o per questioni economiche o di amore. Certa, invece, è la sua condanna a morte per decapitazione, che poteva essere eseguita da chiunque lo riconoscesse per strada. Ecco, il David con la testa di Golia prese vita proprio negli anni successivi a quel giorno horribilis, quando Caravaggio fu costretto a fuggire da Roma e vagò da Napoli a Malta alla Sicilia alla ricerca del perdono papale per poter tornare nella città santa.

Il suo crimine e tutti i suoi misfatti sono lì, in quella testa mozzata a cui Caravaggio ha dato il suo volto, un volto reso ripugnante a dimostrazione del suo desiderio di riscatto e dell'ansia di salvezza. Dunque lui si riconosce nel male, mentre David, che forse è il Papa stesso, lo guarda malinconico e senza odio, preparandosi, come l'artista spera, al perdono.

L'ossessione per la decapitazione d'altronde torna altre volte negli ultimi anni della sua vita come nella Decollazione del Battista, eseguito a Malta, dove è ancora conservato nella concattedrale di San Giovanni. Così come, al contrario, la Resurrezione di Lazzaro, oggi al museo di Messina, realizzata quando erano giunte buone notizie da Roma, esprime un momento più rilassato dell'artista che si riconosce dietro l'indice puntato di Cristo, ed ha le mani giunte, forse in segno di ringraziamento.

Quella di Palazzo Barberini è certamente una mostra ambiziosa ed anche un'occasione unica per ripercorrere la vita e la rivoluzione artistica e culturale di un mito riscoperto solo nel secolo scorso ed ancora circondato da un alone di mistero. Le 24 opere raccolte da musei di tutto il mondo e da collezioni private permettono di seguire i diversi snodi della sua carriera con il cambiamento umano e stilistico di chi non ebbe mai paura di ribaltare luoghi comuni e di guardare in faccia la malattia, il male e la morte, svelandole attraverso bagliori che squarciano l'ombra.

Con la sua cruda realtà, le luci drammatiche, una profondità emotiva senza pari, Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, ha saputo raccontare l’animo dell’uomo nelle sue sfaccettature più profonde, dall’innocenza alla violenza, dalla speranza alla disperazione.

Sottolinea Thomas Clement Salomon, direttore delle Gallerie Nazionali di Arte Antica di Palazzo Barberini.

Fu lui, questo pittore dall'animo irrequieto, a segnare una svolta potente nell'arte, contrastando un altro Michelangelo, quello fiorentino, che prima di lui aveva conquistato Roma e i Papi, lasciando segni indelebili. Il suo stile brutalmente naturalistico che lo portava a travestire clochard e prostitute per farli diventare i protagonisti veri di opere religiose, si oppose fin da subito agli stereotipi del Manierismo di cui il Buonarroti era stato protagonista. Ha commentato il critico Vittorio Sgarbi:

Per Michelangelo il luogo dove tutto avviene è il cielo, per Caravaggio, invece, è la terra. La terra per lui è il luogo dell'incertezza, del dubbio. È l'inferno. Ma nonostante questo, o anzi, proprio per questo, resta anche un visionario. Lui è il primo pittore realistico, ma nella realtà c'è un margine così straordinario di incertezza che può diventare visione.

Eccola allora la pittura cinematografica di Caravaggio in un’altra opera tormentata come Giuditta decapita Oloferne. Un drappo rosso incornicia la scena, come su un set o su un palcoscenico teatrale, mentre Giuditta, con gli abiti da festa con cui aveva sedotto il generale assiro che minacciava il popolo ebraico, affonda la spada con forza nel suo collo. La testa non è ancora completamente mozzata, Oloferne cerca di reagire e sembra emettere un urlo, ma il sangue sgorga già copiosamente. «Ricorda i filmati di propaganda dell'Isis, quando fanno vedere i momenti della decapitazione», sottolinea ancora Sgarbi.

Questa immagine, purtroppo dolorosamente moderna nella sua violenza, ci consegna un altro sassolino bianco con cui ripercorrere i momenti della vita dell’autore. L'opera seguì infatti l'atroce episodio della decapitazione di Beatrice Cenci, diciottenne accusata dell'omicidio del padre violento e quindi giustiziata l'11 settembre 1599 nella piazza di Castel Sant'Angelo. Caravaggio, come altre migliaia di romani, assistette all'esecuzione e ne restò profondamente colpito, così da trasferire empaticamente la tragicità della scena nella storia biblica di Giuditta e Oloferne.

Sarà Fillide Melandroni, cortigiana e modella di molti pittori, oltre che amante di quel Ranuccio Tomassoni ucciso dalla spada di Caravaggio nel 1606, a dare il viso alla sdegnata Giuditta, così come a Santa Caterina di Alessandria e alla Maddalena di Marta e Maddalena.

La sua modella prediletta, oltre che amante, fu comunque Maddalena Antognetti, a cui fece impersonare la madre di Dio nella Madonna dei pellegrini, tela dipinta per la chiesa di Sant'Agostino, a Roma, dove ancora è conservata. Impresa rivoluzionaria dare alla Madonna il volto di una nota prostituta di alto bordo e farla apparire sulla soglia della porta di una casa come se fosse in un vicolo romano.

Ma Caravaggio, ormai conosciuto come il pittor celebre, era riuscito a far accettare il suo stile brutalmente naturalistico e a trasportare storpi, mendicanti e prostitute anche sulle pale d'altare. Certo un po' di scandalo non mancò, visto che la donna fu riconosciuta, e anche il figlio - trasformato in Gesù bambino -, ma i padri della chiesa accettarono comunque la tela. Andò peggio alla stessa Maddalena, la modella cortigiana, che per aver osato impersonare la sacra figura venne sfregiata in volto dal convivente. Con queste opere, che squarciano un velo sulle protagoniste femminili della sua vita, è ormai cominciato anche quel processo stilistico che portò Caravaggio ad “ingargliardire gli oscuri” per creare potenti contrasti di luce e ombre dando alle sue storie un'intensità spesso brutale.

Cercando a ritrosi nuovi sassolini per ricostruire altri tasselli della sua vita, lo troviamo ventiduenne appena arrivato a Roma, sconosciuto, in cerca di fortuna e di commissioni. Con una tecnica quasi fotografica è intento a congelare la verità in un istante. Come quando nei Bari, un giovane dal volto pulito sta per essere imbrogliato da due giocatori dall'abbigliamento sgargiante. E come anche quando, nella Buona Ventura, una zingara sfila l'anello dal dito di un ragazzo a cui sta leggendo la mano.

La sua quasi ossessiva volontà di rappresentare la realtà senza ricorrere a nessuna idealizzazione è già chiara nel suo primo autoritratto, quel Bacchino malato dove Caravaggio si ritrae appena uscito da una malattia. Certo, lui si trasforma in Bacco, il leggendario dio greco del vino e dell'ebrezza, ma il suo viso è livido e le occhiaie infossate. C'è già, in nuce, il suo desiderio di incarnare il divino nell’umano e di vedere i suoi personaggi sul piano morale, più che estetico, nel bene e nel male.

Appena un mese prima della sua morte l'artista compare ancora nel Martirio di Sant'Orsola, la sua ultima opera. In questa nuova sinfonia di volti che si affollano intorno alla donna colpita a morte dalla freccia scagliata dal re degli Unni, Caravaggio, che ha appena ricevuto la notizia del perdono papale e sta tornando a Roma, appare nel fascio di luce che illumina la santa in fin di vita. Un presagio, forse, del suo destino imminente. Ma i sassolini bianchi sono terminati. Quello che avvenne dopo non può più raccontarcelo. Di sicuro fu inseguito fino a Napoli, pugnalato e sfregiato al volto dai sicari di un cavaliere che aveva ferito gravemente a Malta durante una rissa. Ma la sua morte durante il rocambolesco ritorno a Roma sarebbe avvenuta poche settimane dopo a Porto Ercole, probabilmente per malaria o altra infezione. Era il 18 luglio 1610 ed aveva solo 39 anni.

In una vita privata e artistica tempestata di atti drammatici Caravaggio ha però lasciato almeno un messaggio di speranza. Il suo Amor vincit Omnia dipinto nei suoi ultimi anni romani, quando la sua fama e il suo successo erano all’apice, suggerisce il rimedio di tutti i mali del mondo. Un ragazzino dal volto efebico ed ammiccante che mostra felice il suo corpo nudo e stringe in pugno le frecce di Cupido, calpesta una corona regale, una corazza e persino strumenti musicali. Il potere, la gloria, le guerre, le arti: tutto scompare di fronte all'amore. L'amore, ci dice Caravaggio, trionfa su tutto. Non è stato vero allora. Purtroppo non lo è ancora oggi.