Libertino, libertinismo, libertinaggio, ecc., tutti vocaboli che oggi si riferiscono, più che altro, a comportamenti di una sessualità trasgressiva o pervertita. Ma c’è e c’è stato molto altro, perché il libertinismo si affermò anche come reazione alla Controriforma, in modo nascosto dove il potere e l’influenza della Chiesa era preponderante, o in modo più arrischiato in aree geografiche – come Padova e Venezia – dove si rivendicava una sia pur larvata laicità e dove ci fu tutto un fiorire di testi e tesi eterodossi.

“Libertino”, dunque, stava a significare anzi tutto “libero pensatore”, capace di rischiare la reputazione, la carriera e, in certi casi anche la vita (più di uno finì al rogo), non tanto per prese di posizioni ereticali in ambito religioso, ma piuttosto per idee e atteggiamenti corrosivi della morale e della cultura dominanti. Se nel ‘600 queste manifestazioni di pensiero furono piuttosto marginali ed elitarie, nel ‘700, accanto al “libertinismo erudito”, si diffusero, soprattutto nel genere erotico-pornografico, testi e immagini di “consumo” fruiti dall’aristocrazia più disinvolta e dalla borghesia colta. Basti citare in questo senso la Storia della mia vita e altre opere del Casanova, pastura ambita di salotti alla moda e dame “lascive”. Va da sé che da questo clima, da queste letture, dove si trattava spregiudicatamente di adulterio, libero amore e omosessualità, potessero diffondersi comportamenti sessuali conseguenti e da qui ecco prendere il sopravvento dell’accezione più popolare e facile di “libertino” come di praticante di sesso esibito e disinibito.

Del resto, come ha scritto Alberto Beniscelli, erudito studioso del libertinismo: “Simile a pianta, o a pietra, mutabile come le cose che appartengono al regno naturale, l’uomo è pur sempre lì, con i suoi umori, le sue passioni, il suoi istinto. Non c’è alcun dubbio che uno dei nodi essenziali su cui si misura l’essenza libertina sia, per via istintuale, l’eros”.

Non apparteneva certamente alla categoria degli scrittori di genere libertino Vincenzo Monti, tra l’altro, con un ménage familiare più che ortodosso, ma, nella sua svariata produzione letteraria, non manca, invece, un’opera “libertina”: La Pulcella d’Orléans tradotta in ottave e sulla falsa riga dell’originale di Voltaire. Del resto, nell’eclettica vena montiana non sono assenti venature erotiche, come nel malizioso componimento galante A Filli, nella Feroniade e nelle traduzioni di Properzio, tanto che alcuni brani di queste opere sono stati inseriti nel Dizionario Storico del Lessico Erotico Italiano.

Dell’“infedeltà” del Monti traduttore tanto si è detto, ma ci si convince sempre di più che le sue “licenze” hanno dato spesso più colore e sapore alle sue versioni e questo, se vale per l’Iliade, vale ancor più per la “Pulcella”, a lui più vicina. La traduzione fu completata nel periodo dell’esilio parigino dello scrittore romagnolo, dopo che, nel 1799, gli Austriaci erano rientrati in Lombardia; è il momento del suo più acceso laicismo e rivoluzionarismo e la scoperta di quest’opera, già definita “empia e irreligiosa”, fu quasi un vendicativo divertimento contro i suoi antichi protettori ecclesiastici.

Nella Pulcella, dunque, si riesce a entrare nello spirito volterriano raffinatamente canzonatorio e dissacratorio di un’icona intoccabile del nazionalismo francese, Giovanna d’Arco, presentata come belloccia ragazza che non disdegna le lusinghe erotiche del suo somaro e sta quasi per cedergli, compromettendo la sua missione salvifica della Francia dall’invasione inglese.

“Bassa le orecchie, va pian piano e poi/dolcemente s’accoscia accanto ad ella./La loda di aver vinti i primi eroi,/d’esser invitta e soprattutto bella/Così il gran serpe il dì ch’Eva ne’ suoi/inganni fe’ cascar, la vanarella/prima adulò con voci lusinghiere./Del lodar l’arte è l’arte del piacere.// Cielo! Dove son io? Che cosa sento?/gridò Giovanna stupefatta allora/ È questo il mio somaro? Oh gran portento!/Per dio ch’ei parla e parla bene ancora!/ …Ma qual asino, oh Dio! Come vestita/di pregi ha l’alma e culta la favella!/Non val egli la capra favorita/d’un calabrese che di fior l’abbella?/ … Il maligno fanciul, che gli immortali/e gli uomini e i somari al par conquide,/coll’arco in man librandosi su l’ali/guarda intanto Giovanna e dolce ride./Ella infatti, allorché si strane e tali/di sua beltà le conseguenze vide/su i rozzi sensi d’alma sì villana,/sen compiacea, né tanto alla lontana.// Stende la grassa man verso l’amante/senza pensarvi, e tosto la ritira/rossa in volto, pentita e palpitante …”.