Parlare di energia nucleare in Italia ha assunto, dopo i referendum in materia, il primo quello del 1987, l’ultimo nel 2011, le caratteristiche di argomento tabù. Lo sfruttamento del materiale radioattivo e l’alta pericolosità degli impianti hanno convinto gli italiani a decretare la fine della presenza di centrali atomiche nel nostro paese e scelte energetiche conseguenti con l’utilizzo di altre risorse fossili o rinnovabili. Queste ultime soprattutto negli ultimi vent’anni.

La scelta di uscire dal nucleare ha certamente molteplici elementi a favore, ma il paradosso è che chiamati alle urne gli italiani non hanno mai in realtà detto o potuto dire “nucleare sì o nucleare no!” Non è mai stato questo il quesito posto sulle schede. Al contrario si è trattato di domande referendarie legate all’utilizzo, al deposito di materiali fissili e via dicendo. In sostanza, dicendo no con convinzione abbiamo imboccato la strada dello spegnimento delle centrali presenti sul territorio a partire dagli anni ’60 e la loro progressiva dismissione, ma tutto è avvenuto senza decidere in modo diretto positivo o negativo. E questo perché trattandosi di materie di stretta competenza dello Stato, non era possibile svolgere un referendum abrogativo tout court.

Archiviata dunque la questione nel 1987, abbiamo poi avuto altre pronunce referendarie successive che hanno “completato” il quadro aggiungendo ulteriori pezzi al puzzle dell’uscita da questo tipo di fonti energetiche.

Questo ha chiuso la pagina nucleare italiana? Assolutamente no! Se si intende parlare di energia elettrica prodotta da centrali atomiche questo è certamente vero. Se invece si parla di smaltimento in sicurezza dei materiali radioattivi presenti nelle centrali dismesse, ci troviamo in un terreno assolutamente diverso. In questo caso possiamo dire serenamente (per quanto possibile dato l’argomento) che sostanze radioattive sono ancora nel nostro paese e che non si riesce a concluderne l’aspetto più inquietante: la messa in sicurezza con conseguente trasporto di tale materiale. Quindi spente le centrali, i materiali che le tenevano accese sono ancora tra noi e non si sa ancora come sistemarli una volta per tutte. E questo ad oltre trent’anni dalla decisione espressa con il voto. Se a questo aggiungiamo che tra la Francia, la Svizzera e la Slovenia , abbiamo una sorta di corona di centrali tuttora in funzione, la nostra serenità in campo nucleare potrebbe venire scossa e non poco! Anche perché per anni all’Enel (ente deputato alla gestione) dopo il referendum non era consentito mantenere competenze e funzioni di ricerca e approfondimento in materia. Come a dire non abbiamo soltanto dismesso le centrali, ma con atteggiamento manicheo come quello derivante da pronunciamenti dettati da sentimenti e non da ragionamenti, abbiamo anche impoverito le nostre competenze, elemento questo certamente non previsto e necessitato, e corretto soltanto dopo oltre due decenni.

Un po’ di storia allora ci aiuta prima di occuparci del nodo smaltimento e stoccaggio. Lo sfruttamento dell'energia nucleare in Italia ha avuto luogo tra il 1963 e il 1990. Le quattro centrali nucleari italiane sono state chiuse per raggiunti limiti d'età, o a seguito dei referendum del 1987. Il dibattito sull'eventuale reintroduzione dell'energia nucleare che si era aperto fra il 2005 ed il 2008, si è chiuso con il referendum abrogativo del 2011, con cui sono state abrogate alcune disposizioni concepite per agevolare l'insediamento delle centrali nucleari.

In Italia la produzione di energia elettrica da fonte nucleare risale ai primi anni sessanta; nel 1966 l'Italia figurava come il terzo produttore al mondo dopo Stati Uniti d'America e Inghilterra. Nonostante le restrizioni dovute sia alle conseguenza della seconda guerra mondiale, che diminuivano le risorse economiche che potevano essere utilizzate per la ricerca, sia agli accordi di pace del 1947, che imponevano all'Italia di non poter disporre di un'industria per l'arricchimento del combustibile, la decisione di costruire la prima centrale elettronucleare venne presa già all'indomani della conferenza "Atomi per la pace" di Ginevra dell'8-20 agosto 1955 e portò l'Italia, nel corso degli anni sessanta, ad avere sul proprio territorio tre impianti di prima generazione basati sulle tre più innovative tecnologie dell'epoca: i reattori di tipo BWR e PWR di origine statunitense e quello di tipo Magnox di origine britannica.

Considerato che le tecnologie disponibili nelle prime fasi dello sfruttamento erano molteplici e che non si conoscevano ancora tutti i vantaggi e le problematiche relativi a ciascuna, l'Italia si dotò di tre centrali di differenti metodiche produttive (anche se tutte di origine anglo-statunitense) che rappresentavano, per ciascuna di esse, dei modelli pressoché prototipo e che dunque servirono anche a Regno Unito e USA per sperimentare all'estero dei reattori capostipite delle rispettive filiere.

La prima centrale elettronucleare italiana venne realizzata a Latina, un impianto con un unico reattore di tipo Magnox da 160 MWe lordi che, una volta ultimato il 12 maggio 1963, ne faceva l'esemplare più potente a livello europeo. Otto mesi più tardi fu approntata quella di Sessa Aurunca, alla quale seguì meno di un anno dopo l'installazione di Trino, che aveva a disposizione un reattore PWR Westinghouse da 270 MWe lordi e che al momento della sua entrata in funzione costituiva la centrale elettronucleare più potente nel mondo. L'energia prodotta da queste tre centrali era comunque ridotta rispetto al fabbisogno nazionale, a cui contribuivano mediamente per il 3-4%.

Il 1º gennaio 1970 iniziò la costruzione della quarta centrale, quella di Caorso. Nel 1975 avvenne il varo del primo Piano Energetico Nazionale (PEN) che prevedeva, fra le altre cose, un forte sviluppo della componente elettronucleare. In aggiunta poi alle tre centrali già in funzione e a quella in via di realizzazione a Caorso, vennero proposti una serie di siti per nuove centrali elettronucleari oltre alla costruzione di alcuni prototipi di filiere di reattori innovativi. Il 1º luglio 1982 fu messa in cantiere la centrale di Montalto di Castro con due reattori nucleari ad acqua bollente BWR da 982 MW di potenza elettrica netta ciascuno. Venne anche delineata una seconda centrale a Trino, la prima basata sull'allora nascente "Progetto Unificato Nucleare", con due reattori nucleari ad acqua pressurizzata PWR da 950 MW di potenza elettrica netta ciascuno.

Il tema della sicurezza degli impianti nucleari è sempre stato, anche a livello globale, a fianco delle scelte sullo sfruttamento dell’atomo, sicurezza che divenne una preoccupazione crescente negli anni ottanta, sulla scia dell'incidente di Three Mile Island del 1979. A seguito di questo incidente , l'inizio dell'esercizio commerciale dell'impianto di Caorso fu posticipato al fine di provvedere ad alcuni aggiornamenti ai sistemi di sicurezza. Nel 1982 l'impianto di Sessa Aurunca venne fermato per un guasto e, a seguito di valutazioni sull'antieconomicità delle riparazioni, spento. E arriviamo aò 1986, quando l'incidente nella centrale ucraina di Chernobyl indusse in Italia ad indire l'anno successivo tre referendum nazionali sul settore elettronucleare.

In tale consultazione popolare, circa l'80% dei votanti si espresse a favore delle istanze portate avanti dai promotori. I tre referendum non vietavano in modo esplicito la costruzione di nuove centrali, né imponevano la chiusura di quelle esistenti o in fase di realizzazione, ma si limitavano ad abrogare i cosiddetti "oneri compensativi" spettanti agli enti locali sedi dei siti individuati per la costruzione di nuovi impianti nucleari, nonché la norma che concedeva al CIPE la facoltà di scelta dei siti stessi in presenza di un mancato accordo in tal senso con i comuni interessati, e a impedire all'Enel di partecipare alla costruzione di centrali elettronucleari all'estero.

Tra il 1988 e il 1990 i Governi Goria, De Mita e Andreotti VI posero termine all'esperienza elettronucleare italiana con l'abbandono del Progetto Unificato Nucleare e la chiusura delle tre centrali ancora funzionanti di Latina, Trino e Caorso. Per quanto riguarda gli impianti in costruzione e quelli pianificati, fu interrotto il cantiere della centrale di Montalto di Castro la cui area, sfruttando le prese per l'acqua a mare già realizzate, venne poi riutilizzata per la realizzazione della centrale a policombustibile Alessandro Volta mentre per il progetto della seconda installazione di Trino era stato solo individuato e predisposto il sito che fu in seguito impiegato per l'approntamento di un impianto a gas a ciclo combinato.

Dal 1999 tutti i siti di queste centrali sono di proprietà e gestiti da SOGIN e, assieme agli altri complessi nucleari presenti sul territorio italiano, sono in fase di smantellamento e programmati per essere rilasciati all'ambiente senza alcun vincolo radiologico entro il 2025, cioè tra meno di sette anni.

Nel periodo di attività antecedente al 1987, le centrali elettronucleari italiane hanno prodotto scorie radioattive che, ad ottobre 2011, si trovano per il 98% negli impianti di ritrattamento di Areva a La Hague in Francia (da dove verranno restituite riprocessate nel 2025) e di BNFL a Sellafield nel Regno Unito (la cui riconsegna era prevista entro lo scorso anno). In precedenza, erano sistemate nelle piscine delle centrali stesse o in quella dell'impianto EUREX di Saluggia.

Il dibattito politico si è riaperto dopo l'impennata dei prezzi di gas naturale e petrolio negli anni tra il 2005 e il 2008 e ha condotto alla decisione del quarto Governo Berlusconi di ripristinare in Italia una capacità nucleare a fini di elettro-generazione. Lo scopo dichiarato di questa politica era di tagliare le emissioni di gas serra, ridurre la dipendenza energetica dall'estero e abbassare il costo dell'energia elettrica all'utente finale, anche se soprattutto quest'ultimo punto non è provato. L'intento di tornare alla produzione elettronucleare in Italia è stato dapprima postulato con la definizione della "Strategia energetica nazionale".

Tuttavia, a seguito dell'incidente in Giappone nell’impianto di Fukushima Daiichi dell'11 marzo 2011, il Consiglio dei ministri decise una moratoria di 12 mesi del programma nucleare italiano. Moratoria che non ha riguardato l'Agenzia per la sicurezza nucleare, né il deposito di scorie. Successivamente, il 24 aprile 2011, il Governo definisce la moratoria già stabilita tramite un articolo del cosiddetto decreto legge "Omnibus" che in sostanza rinvia la costruzione di nuovi impianti «al fine di acquisire ulteriori evidenze scientifiche, mediante il supporto dell' l'Agenzia per la sicurezza nucleare sui profili relativi alla sicurezza nucleare, tenendo conto dello sviluppo tecnologico in tale settore e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione europea. La decisione dell’esecutivo non ferma però il percorso del referendum che si svolge nello stesso anno il cui quesito anti centrali viene validamente approvato con un quorum di circa il 54% di votanti e una maggioranza di oltre il 94%. Le norme inerenti al nucleare del cosiddetto decreto Omnibus vengono a questo punto abrogate, determinando la chiusura del nuovo programma nucleare.

Al momento di questa decisione in Italia erano stoccati complessivamente oltre 28 mila metri cubi di rifiuti radioattivi in oltre 20 siti; di questi, 1 727 m³ sono scorie di III categorie, cioè rifiuti ad elevata attività e con vita media lunga. Per questi rifiuti è previsto lo stoccaggio di superficie solo come misura temporanea in attesa del deposito geologico, mentre per quelli di I e II categoria lo smaltimento definitivo avviene in siti di superficie. Il volume più elevato di scorie è presente nel Lazio, nel deposito Nucleco, mentre i rifiuti a maggiore contenuto di radioattività sono stoccati in Piemonte, presso l'impianto Eurex a Saluggia. Situazione complessivamente invariata. Inoltre, entro il 2025 dovranno rientrare in Italia i rifiuti prodotti dal riprocessamento delle barre di combustibile delle centrali nucleari italiane, spedite in Inghilterra e in Francia. Il volume di rifiuti proveniente dall'Inghilterra ammonterà a 5 500 m³, ci cui 17,3 m³ ad alta attività, condizionati in matrice vetrosa, e i rimanenti a bassa e media attività, in matrice cementizia.

Entro il 2015 la Sogin, la società responsabile dell’attività di smantellamento il cosiddetto decommissioning degli impianti nucleari italiani, avrebbe dovuto indicare e progettare la mappa dei siti costituenti il deposito nazionale per i rifiuti radioattivi. Questa infrastruttura, per la quale non è ancora stata scelta l'ubicazione, permetterà lo stoccaggio definitivo in superficie di 75 000 m³ di rifiuti a bassa e media attività, e quello temporaneo di 15 000 m³ di rifiuti ad alta attività. Di questi circa 90 000 m³ di scorie, circa il 60% risulterà proveniente dalle opere di decommissioning degli impianti esistenti, mentre il restante 40% sarà di origine medica, industriale o di ricerca.

Né la mappa né l’ubicazione del deposito risultano oggi ancora stabiliti e questo sta esponendo, proprio nel corso di quest’anno, il nostro paese a una procedura di infrazione da parte dell’Unione Europea. Il nodo cruciale era e resta, l’individuazione dell’area geograficamente e geologicamente giusta per un’opera del genere e – soprattutto – un punto d’incontro e di mediazione con le popolazioni che quel luogo abitano. La storia del nucleare italiano mostra come le popolazioni siano molto reattive e contrarie in linea di principio ad ospitare siti legati all’atomo. Il tempo stimato per arrivare all’autorizzazione per la costruzione del Deposito nazionale, che costerà un miliardo e mezzo di euro, è di circa quattro anni dalla definizione delle caratteristiche delle aree potenzialmente idonee. La realizzazione è prevista per la fine del 2025, mentre l’esercizio delle strutture per l’immagazzinamento dei rifiuti ad alta attività e del combustibile esaurito è previsto a partire dall’inizio del 2024.

Il ritardo accumulato è tale da far porre un forte interrogativo legato alla considerazione iniziale: l’intera gestione del dossier nucleare nel nostro paese, compresi gli appuntamenti referendari, avrebbe dovuto essere condotta in modo lineare e diretto, mostrando tutti i passaggi necessari ad arrivare all’uscita definitiva dal programma nucleare, un’uscita che comporta un’assunzione di responsabilità nazionale sul fronte della messa in sicurezza dei vecchi impianti spenti e nello smaltimento dei rifiuti radioattivi da essi prodotti nonché di quelli che continuano ad essere prodotti per le attività mediche o scientifiche che richiedono materiali radioattivi, aspetto non secondario, anche quando saranno stati riprocessati e resi sicuri quelli più antichi delle defunte centrali. Attività che richiedono capacità e professionalità nazionali da formare e mantenere in attività e aggiornamento anche in un paese senza atomo come vogliamo essere.

Ed è anche necessario, non dimenticare che l’intero programma di smantellamento dei quattro vecchi impianti spenti oltre trent’anni fa e la messa in sicurezza e riprocessamento delle scorie da essi prodotte costerà oltre 7 miliardi di euro secondo quanto emerso lo scorso settembre 2017 a Vienna dall’assemblea dell’Aiea, l’Agenzia internazionale Onu per l’energia atomica!