È sempre un’avventura carica di emozione e di sorpresa incontrare un’opera poetica, in particolare se ci si impatta con la poesia dialettale, perché è maggiormente in intima connessione con le origini, col linguaggio del corpo, con la sonorità della lingua materna e inoltre, la lingua dialettale si fa anche racconto della storia di un popolo, ne riassume e condensa la sua mitologia.

Incontrando la poesia romagnola di Nevio Spadoni si sente tangibile l’essenzialità linguistica del dialetto che, come un bulino, incide nell’anima le immagini poetiche, veicolando le emozioni senza sbrodolature, ma con un’incisività della parola che incastona e comunica in maniera forte il pensiero con lo stato d’animo che lo sorregge, toccando in maniera commovente e facendo risuonare nell’altro la storia che racconta.

Le immagini della creazione artistica hanno, infatti, la capacità di toccare l’altro, lettore o ascoltatore che sia, nel suo mondo più intimo, in maniera incisiva e commovente, a volte ancora più tangibile di quanto non succeda nelle relazioni reali, proprio perché il pensare poetico presta vita a sentimenti, a movimenti dell’anima in cui ci si riconosce perché sono universali, ma che, spesso, sono celati anche a noi stessi perché inavvicinabili per il loro carattere angoscioso e problematico.

Le poesie di Spadoni diventano segno e significato dello scorrere del tempo interiore e di quello reale, parole che raccolgono l’intreccio indissolubile e inequivocabile tra l’andamento del tempo lineare, cronologico, il κρόνος, e il tempo soggettivo, il καιρός, il tempo, cioè, che ha a che fare con le emozioni, con l’esperienza vissuta da dentro: una dimensione squisitamente personale che, trascendendo il tempo lineare, rappresenta come un punto di ripristino del passato e, contemporaneamente, di progettazione del futuro, in un immaginario movimento a spirale. In questo senso, lo scorrere delle poesie in questa duplice trama temporale diventa testimonianza di un cambiamento, ma anche della coerenza e della continuità dell’identità del loro autore. “E’ temp/ch’e’ pe ch’e’ fega a posta/ e’ fa turne i cont.” (Il tempo/ sembra che faccia apposta/ a far tornare i conti).

Secondo Heidegger l’opera d’arte è opera di svelamento e dunque di verità, di quelle verità che il pensiero logico non riesce, di solito, ad avvicinare; solo la mente sognante dell’artista può riuscire a dar voce al normalmente impensabile e ad avvicinarsi al mitico, in quello stato oniroide che sviluppa capacità quasi predittive e, come Tiresia, il vate non vedente, anche il poeta è come se si dovesse accecare per poter stare a contatto col più profondo strato del mondo interiore, inverando quello stato d’animo e predisposizione all’ascolto, poeticamente definito da Freud “quel raggio di intensa oscurità”, che permette di accorgersi anche dei segnali più deboli, più nascosti che alla luce non sarebbero percepibili. “J oc di zig i véd/dal funtâñ starghêdi/ …/ I va dret a e’ côr cun e’ pinsir/chè lò dla vita i la sa longa.” (Gli occhi dei ciechivedono/fontane stregate./…/ Vanno subito al cuore con il pensiero,/ perché loro la vita la conoscono bene). Il poeta poi, con-tatto “In ponta d’pi”(in punta di piedi), sa come esternalizzare e mostrare agli altri il suo sguardo verso l’ignoto, dando parola all’inaudito.

Il sogno di Nevio Spadoni ci fa percorrere tanti nodi e snodi della vita, toccando corde che fanno vibrare di emozioni empatiche il lettore, che si rispecchia nella declinazione vertiginosa dei versi, ritrovando sentimenti, percezioni sensoriali, esperienze dell’esistere, pensieri: le umane cose che, forse, fanno parte del segreto che impasta ogni essere umano, dove la relazione mente-corpo è ancora così intricata che la germinazione del pensiero può solo evidenziarsi con delle immagini, le immagini poetiche che, come dei fotogrammi messi in successione, raccontano la storia della vita. "E cvant ch’avdèsum la puiana in zir/…/a lasésum corar/i sogn" (E quando vediamo la poiana in giro/…/lasciamo scorrere/i sogni).

E proprio come nei sogni, l’elemento visivo è predominante, ma è un vedere affettivo, comprensivo, non giudicante, “E’ cor int j oc”, solo col “cuore negli occhi” si può riconoscere la verità, è un vedere sofferto, patito, non negato, ma attraversato con coraggio “U j è int l’eria un svuit d’pavura/…Int la cavdagna, cun oc svidar/e’ mat e’ziga, e’ ziga fort…” (C’era nell’aria un vuoto di paura/…nella cavedagna con occhi vitrei/il matto urla, urla forte …). Il vuoto spaventa, è il terrore senza nome, è la paura della pazzia, è la catastrofe del cambiamento, ma dopo il temporale dove “e’ ven zo e’ mond.” (viene giù il mondo), ci sarà un primo squarcio di sereno: si affaccia la speranza, si può cogliere che il vuoto non è solo mancanza, ma è anche predisposizione al nuovo, è anche disponibilità al cambiamento, ci vuole un vuoto per fare un pieno, così come solo con l’ombra può risaltare la luce. "Ad impresion ch’u m’fa e’ mond/cun cal lus che ogni dè al s’morta…" (Che impressione mi fa il mondo/con quelle luci che ogni giorno si smorzano…).

E lo straziante dolore della morte, e di ogni separazione che sempre intimamente la rinnova, è vivo e bruciante, lascia ferite nell’anima e appesantisce il corpo “Tci propi un cuchel/u m’gep un dè e’ mi ba;/…/L’anzul dla mort/ul’a purté vi trop pres.t”. "Come un picì/la j a pighè e’ col.”(“Sei proprio uno sciocco/mi disse un giorno mio padre/…/L’angelo della morte l’ha portato via troppo presto.” "Come un pulcino/ha piegato il collo.

E per poter tollerare una sofferenza così grande occorre ripararsi, “La besa galâna/la m’è sempar piasuda,/sreda int e’ su mond/la s’arves e la s’asera/sgond dagli ucasion.” (La tartaruga mi è sempre piaciuta/chiusa nel suo mondo/si apre e si chiude/a seconda delle occasioni), se c’è un guscio protettivo, che serve come ritiro dall’esterno, come protezione dal dolore, c’è anche l’esperienza di una bontà, del poter venir fuori, del potersi fidare: “Brutto è il bello e bello il brutto” dicono le tre streghe del Macbeth, ogni esperienza contiene entrambe queste connotazioni e lo schema della nascita, che porta in eredità anche la certezza della morte, “Par me la vita cun la mort la bala” (Per me la vita con la morte balla), rappresenta il “leit-motiv” ricorrente in tutta l’opera, che viene sempre attraversato in una continua oscillazione trasformativa e poi stemperato nell’articolazione delle emozioni corrispondenti.

Qualsiasi sia la colorazione affettiva che tinge i suoi versi, Spadoni la carica di una passionalità sanguigna e di una pregnanza sensoriale che dà profondità tridimensionale alla parola, si percepiscono i suoni, gli odori, gli umori, la plasticità delle forme e questa incarnazione del verbo si innerva nella sfera psico-somatica del lettore.

Una passionalità così tangibile permea i fantasmi di un’ineluttabilità, a volte rabbiosa e disperata “Un’ucêda la t’smâna/la t’arvives un’êtra./I s’cen j è com i spen./i n’s’ciapa par la ponta!” (Un’occhiata ti spoglia/un’altra ti rimette in vita./Gli uomini sono come gli spini: non si prendono per la punta!).
Non mancano, però, le tenerezze struggenti, i soffi dell’anima, le ondate di dolcezza infinita legati agli affetti più cari, alla natura “U m’armanza ad te/ di rez trapesa dal ros/un fil d’vòs alzira/coma ‘na pioma d’piopa…”(Mi rimangono di te/riccioli nascosti tra le rose/un filo di voce leggera/come una punta di pioppo…).

Luce/ombra, speranza/disperazione, legame/separazione, pensieri-randagi/parola, corpo/anima, passione/tenerezza, pesantezza/leggerezza, sangue/trasparenza, sono, allora, i temi ricorrenti nella poesia di Spadoni, binomi esistenziali declinati con passione, con autenticità, con la piena disponibilità a sperimentare la verità dei sentimenti anche più sconvolgenti tramite una visione introspettiva impietosa, dove il poeta non si limita a vedere, ascoltare, accogliere la verità ultima, ma sa diventare, nella profondità del suo essere, quell’emozione esistenziale che attraversa e forma il genere umano. La casa editrice Il Ponte Vecchio ha raccolto le poesie di Nevio Spadoni dal 1985 al 2017. Questa “raccolta”, proprio come un raccolto, sembra anche rappresentare l’opportunità di osservare quale percorso di crescita abbiano intrapreso i suoi pensieri/semi gettati nel suo viaggio dal 1985 ad oggi, di guardare la sua vita nelle parole, le parole del mondo interno, dell’intimità delle radici, dell’esperienza di abitare il mondo attraverso “Cal parol fati in ca”, quelle parole fatte in casa che hanno dato voce al corpo, ma anche ritrovare quel corpo che ha dato senso alla parola.

Si può considerare la poesia di Spadoni, nello scorrere degli anni, il percorso di un pensiero ricostruttivo, una sorta di “recherche”, ma anche la consegna ai lettori della chiave dei suoi pensieri: “… la cev di mi pinsir/a l’avì ‘vuda” con la consapevolezza che “E’dè ormai l’è andê/e a n’ò incòra fnì/d’s-ciarê i pèn d’aìr.” (Il giorno è ormai passato/e non ho ancora finito/di sciacquare i panni di ieri).

Nevio Spadoni vive a Ravenna. Le sue poesie tradotte e pubblicate in più lingue gli hanno permesso di vincere importanti premi letterari. È anche autore di opere teatrali rappresentate in Italia e all’estero ottenendo due nomination al premio “Ubu”. Scrive su alcune riviste letterarie e ha collaborato a diverse antologie di poeti romagnoli.