In Italia, il gusto per il ‘nazional-popolare’ - allocuzione con cui si suole nobilitare ciò che è assai medio(cre) - è sempre stato forte, e caratterizza quasi sempre il dibattito pubblico. È assai difficile, né si vedono grandi sforzi in tal senso, cercare di ‘elevarlo’, affrontando temi più rilevanti, e soprattutto in modo non superficiale. Spesso, ciò non accade nemmeno a livello di ‘addetti ai lavori’.

È il caso, ad esempio, dei musei italiani - tema che, com’è noto, mi sta assai a cuore. Il dibattito pubblico sul tema è sempre segnato da un che di grossier, con uno stile da rotocalco popolare. Così è stato per la questione dei direttori ‘stranieri’ in alcuni musei, così per la riforma Franceschini. Si parla sempre degli aspetti più marginali, senza mai entrare davvero nel merito delle cose. A ciò, va detto, non contribuisce granché neanche il mondo dell’arte, sia esso quello incardinato nelle soprintendenze e nelle strutture museali pubbliche, sia quello che si articola nel privato. Con ragioni diverse, talune più comprensibili e altre meno, questo mondo si rivela molto più conservatore di quanto vorrebbe dare a intendere, e alcuni ‘passaggi’ hanno il merito di mostrarlo chiaramente, come cartine al tornasole.

Già qualche anno addietro, l’approccio innovativo impresso alla GNAM dall’arrivo della direttrice Cristiana Collu aveva suscitato reazioni conservatrici, che mostravano la natura pigramente ‘reattiva’ di quelle resistenze, disvelando l’abitudine (assai comoda) al quieto tran-tran del già conosciuto, che resiste al nuovo in quanto tale, e non in virtù di una opposizione di merito. E ovviamente, qui non si tratta di prendere posizione in favore della ‘rivoluzione’ adottata alla GNAM, ma semplicemente di rilevare come la ‘contestazione’ sia stata pavloviana, un vero e proprio riflesso conservativo. Ed è quanto si è rivisto, con maggior virulenza, in occasione dei cambiamenti prospettati per il museo Macro di Roma (Macro Asilo), laddove subentrano anche fattori di polemica politica nei confronti dell’amministrazione capitolina.

Vale la pena ricordare che il Macro era da tempo in grandissima difficoltà, senza fondi sufficienti, senza direzione (con la minuscola e la maiuscola...), insomma allo sbando. Un vuoto che, se da un lato aveva suscitato le proteste del mondo dell’arte, dall’altro aveva anche - evidentemente - suscitato aspettative. Che ciascuno aveva maturato secondo la propria sensibilità, un proprio sentire. Ma che, evidentemente, non potevano essere tutte soddisfatte.

La levata di scudi seguita alla scelta dell’assessore Bergamo che, perdurando la difficoltà economica, ha deciso di avviare un percorso sperimentale per il museo, ha però mostrato tutti i limiti del milieu artistico romano (e non solo); il livello delle contestazioni, infatti, è stato di una superficialità pressoché assoluta, avendo cura di tenersi il più lontano possibile dal merito. Come nella peggior tradizione italica, gran parte delle polemiche sono state ad personam: si è messa in discussione la competenza di de Finis, la sua mancanza di ‘titoli’ adeguati, persino l’essere stato compagno di scuola dell’assessore. Soprattutto - per superficialità o consapevolmente - si è fatta gran confusione sul ruolo cui è stato chiamato de Finis, continuando a indicarlo come il nuovo Direttore del Macro, laddove invece è stato incaricato di svolgervi un progetto sperimentale biennale. E senza beneficiare di alcun particolare finanziamento (i 400.000 euro annui sono appena i costi di mantenimento della struttura).

Il massimo dell’approfondimento nel merito, sul progetto pensato per il museo, è stata l’irrisione - un po’ snob - per il MAAM, ritenuto il modello che si intende riprodurre pedissequamente al Macro. Laddove appare evidente che si tratta di contesti assolutamente diversi, proprio concettualmente, e che in quanto tali non sono in alcun modo né comparabili né sovrapponibili. Ma quel che ‘disturba’, nel progetto di de Finis (e nella sua stessa persona...), è il suo collocarsi, il posizionamento ‘sghembo’ rispetto a quel mondo dell’arte che, pur attraversato da mille gelosie e rivalità, si riconosce come un unicum circoscritto, il solo ‘abilitato’ a intervenire ed esprimersi con competenza. Per convincersene, basta confrontare le innumerevoli paginate di critica, con quanto sostenuto da de Finis in alcune interviste.

In una di queste [1], l’antropologo dichiara che intende "ripensare il dispositivo museale, (di) provare a renderlo più interessante e non solo in termini di partecipazione, ma anche di senso"; e in fin dei conti, sembra essere proprio questo il terreno di scontro più acuto: il senso più profondo del progetto, infatti, rimette in discussione l’autoritas del mondo artistico, il suo indiscusso privilegio alla cooptazione. "Gli attacchi a de Finis si sono concentrati su due punti programmatici ben legati fra loro: quale ruolo svolge l’artista, soprattutto chi è l’artista e, infine, il ruolo che in questa definizione del fare artistico dovrebbe essere riservato al pubblico" [2]. Ben più che la decisione di rinunciare sostanzialmente alle mostre, privilegiando un’idea di museo come spazio ‘abitato’ piuttosto che semplicemente ‘attraversato’, quel che ha urtato il mondo dell’arte - o quantomeno una sua gran parte - sembra essere appunto la ‘sottrazione di potere’ che quel modello comporta.

Similmente a quel che avviene già in altri settori, in Italia non abbiamo un ‘sistema dell’arte’ (un insieme di soggetti che, nella diversità dei ruoli, lavorano alla valorizzazione dell’arte, italiana in particolare), ma un network di soggetti prevalentemente impegnati a difendere il proprio orticello, perennemente - e mutevolmente - divisi tra di loro, ma sempre pronti a superare ogni distinguo quando viene messo in discussione il ruolo ‘esclusivo’ del network. Già molti anni addietro, così lo descriveva ABO: “L’arte è diventata un grande condominio in cui il museo è il proprietario, i curatori sono i ragionieri e il pubblico un veloce ospite-voyeur" [3]. Ovvio che ‘amministratori di condominio’ e ‘ragionieri’ vari mal gradiscano qualsivoglia forma alternativa, foss’anche solo temporanea e sperimentale.

Ma fintanto che la sperimentazione rimane off rispetto al circuito ‘ufficiale’, la si può deridere, la si può ignorare, la si può persino apprezzare - ma sempre con la serenità dovuta al saperla, appunto, ‘estranea’. Così, anche al di là del senso politico dell’operazione, l’esistenza del Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz non ha destato allarme. Lo si riteneva un esperimento ‘oltreconfine’, un fatto esotico, e che in quanto tale poteva persino risultare fascinoso. Quando, sia pure soltanto in qualche misura, ha varcato quel confine, ‘invadendo’ il sacro terreno dell’arte ‘ufficiale’, ecco che è stata percepita la minaccia.

Non è un caso che la gran parte delle obiezioni al progetto del Macro Asilo, oltre che all’incarico attribuito a de Finis, sia giunto non dagli artisti, ma dagli ‘addetti ai lavori’. Perché sono coloro che, nel senso profondo del progetto, intravedono una minaccia al proprio ruolo - o quanto meno una sua messa in discussione. Eppure, l’idea di de Finis è in fondo a sua volta un atto creativo, il cui esito è per di più imprevedibile (potrebbe avere successo, come potrebbe rivelarsi fallimentare), e in ogni caso viene a riempire un vuoto. E, per dirla con Rancière, "una creazione è sempre qualcosa che si aggiunge a qualcosa che già c’è, che lo sostituisce, che lo trasforma, che gli dà nuova forma. Una creazione consiste nel produrre del nuovo, ma non del nuovo nel senso di qualcosa che non è mai stato. Piuttosto, nel senso di uno spostamento delle forme di visibilità, delle forme di percezione, rispetto alle nostre forme di percezione ordinarie" [4].

La proposta ‘spiazzante’ del museo asilo, in fondo resa possibile proprio dalla crisi strutturale del Macro, è un’occasione per sperimentare nuove forme museali, per cambiarne la nostra “percezione ordinaria”. È, per definizione, una sperimentazione - né più né meno come lo è quella messa in atto alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna - che prova a cercare nuove strade, a ripensare il rapporto dell’istituzione museale con la comunità (artistica e territoriale) di riferimento. E perché l’esperimento potesse eventualmente avere valore generale, era necessario che si svolgesse proprio in un luogo istituzionale, non ‘marginale’ e/o ‘alternativo’. Come per ogni esperimento, occorre attenderne l’esito, per poterne valutare la ricaduta. Più che osteggiarlo, bisognerebbe ‘attraversarlo’, trovare la chiave per esserne parte. Considerarlo un’opportunità - e coglierla.

Liberarsi da questa sorta di sindrome dell’asilo, come una sindrome di Stendhal al rovescio, per cui si vede ‘brutto’ ciò che è diverso, e se ne rimane stravolti quasi psicosomaticamente. Ricominciare dall’asilo, in fondo, può rivelarsi interessante...

[1] Intervista a Giorgio de Finis, il MACRO Asilo? Un museo vivo, una cattedrale laica contemporanea
[2] Francesco Rosetti, MACRO ASILO, O DEL SENSO DELL’ARTE
[3] Achille Bonito Oliva, citato in Attacco all’arte. La bellezza negata, di Simona Maggiorelli, ed. L'Asino d'Oro
[4] Jacques Rancière, Dissenso, emancipazione, estetica, intervista,