Il gran numero di ricerche che si concentrano attorno alla sindrome borderline sono anche dovute alla rilevanza sociale acquisita da un disturbo che connota la società attuale, “… la grande diffusione delle sindromi marginali potrebbe anche dipendere dall’evoluzione della nostra società … Ora si parla di società borderline e c’è chi asserisce che chiaramente borderline sono gran parte dei romanzi e delle poesie che caratterizzano la letteratura moderna”. (G. Benedetti)

Ma anche buona parte dell’arte pittorica contemporanea è arricchita da opere sorprendenti di personalità borderline, i cui lavori sono stati incapsulati nelle definizioni di Art Brut, o Outsider Art, o Raw Art o Arte psicopatologica; ma è davvero sottile, quasi impercettibile, il filo che separa gli “artisti lucidi” dagli “artisti folli”, la demarcazione che segna la differenza tra autori di grande fama, in particolare i simbolisti e i surrealisti, da autori che hanno vissuto al margine della società.

L’espressione artistica esprime in maniera ineffabile la situazione di confine che il termine stesso “borderline” sta a indicare, dove appunto la delimitazione che connoterebbe la normalità e la follia assume confini sempre più labili, sfumando in un non sapere che ci interroga sulla verità ultima di cui è impastato l’essere umano...

Introspezione, disagio della realtà, disagio del corpo, terza dimensione del mondo, il sogno rivelatore, questi alcuni temi che attraversano vivamente opere appartenenti alla cosiddetta “arte psicopatologica”, ma non solo…

Sono tutte parole fortemente evocative, alludono a storie, a condizioni di vita, a situazioni estreme, a pensieri selvatici e furibondi, alla necessità estrema di essere raccontati tramite opere d’arte, usando le immagini-corpo per essere guardati, letti, compresi da menti altre per trovare una propria significazione.

L’immagine è la prima trasformazione degli stati proto-mentali, delle sensazioni, dei pensieri grezzi, in una raffigurazione che, se connessa ad altre immagini, darà poi vita a una narrazione, a una storia, a un mito soggettivo che possiamo equiparare al sogno, sogno come funzione trasformativa del non pensato. In questo senso la produzione artistica è una forma di autocura, di sublimazione, direbbe Freud, della pulsionalità non elaborata. Dipingere è come sognare, sognare è narrare, narrare è pensare.

Possiamo dunque immaginare che ogni quadro sia una narrazione che parli di una storia intima che diventa racconto condiviso e co-narrato quando entra in contatto con l’altro da sé, creando tanti significati quanti sono gli incontri, i legami che si realizzano, ognuno dei quali, si suppone, possa riflettere una parte del Sè dell’autore.

Mi ha da subito acceso un nome, Aloïse, forse perché donna, forse per il suo suono dolce e antico, forse perché nome così solo ed essenziale che ha stimolato la mia curiosità e la voglia di scoprire un po’ del vero di questo personaggio attraversando la sua opera.

Strano come prima delle immagini sia stata catturata dalle parole, anzi dal suono delle parole, prima dunque il nome della pittrice e poi un titolo Ma lumière dans ma malmaison (1947-48). Forse perché già quelle parole sono immagini. E forse, perché, come sostiene Lacan, l’inconscio è un linguaggio. Si tratta, dunque, di un quadro coloratissimo e pieno di figure di donne con occhi enormi, marcati di blu scuro che possono apparire spalancati o completamente chiusi sul mondo. Mondo esterno o mondo interno? La “malmaison” a chi appartiene? Perché mal? E la “lumière” cosa illumina, cosa vede, cosa scopre?

Lì nel quadro, nella parte inferiore, appare un mondo infantile, da gioco, da paese dei balocchi intristito e reso paradossale da corpi di donna, nudi, addobbati, colorati, non liberi, ma ingabbiati da forme statiche, bambolotti volanti, compressi in contenitori che non danno respiro, corpi desideranti e bloccati da una fissità delle forme, del tratto, del colore intenso e stagnante; le donne potrebbero raffigurare tante Aloïse, tanti parti del Sé frammentate alla ricerca di un legame. Nella parte superiore della “malmaison” c’è una scena d’amore, compaiono anche parole come per completare la sua rappresentazione. Ecco come le parole sono parte del quadro, sono esse stesse immagine. D’altra parte il quadro è un caleidoscopio di immagini che suscitano sentimenti contrastanti, il motivo comune e costante sono gli occhi, grandi, pieni di colore, senza differenziazione tra iride, pupilla e sclera, ma questi occhi-lumière abbagliano o sono abbagliati dall’effervescenza della vita pulsionale che si anima nella “malmaison”, pulsionalità che sembra essere rappresentata dalle labbra, altro motivo ricorrente, labbra rosse, carnose, gonfie, a forma di cuore chiuso.

Aloïse Corbaz suscita affetto e sconcerto, tenerezza e confusione, induce voglia di giocare con lei e di proteggerla dal male che le è stato fatto e che si nasconde negli occhi bui e nella bocca serrata. Viene la smania di svegliarla da quel torpore fiammeggiante per guardarla negli occhi ciechi, per saperne un po’ di più e per ascoltare le parole non dette da quelle labbra ostinatamente chiuse. Che sia questo il suo desiderio? O il suo indicibile tormento? Quello di essere risvegliata come la Bella Addormentata che la parte superiore del dipinto sembra raffigurare? Ma lumière dans ma malmaison è come un urlo soffocato, una ricerca di aiuto, un brulicante racconto disperato, una mascherata di allegria. Ma è anche il modo che Aloïse ha escogitato per dare forma e dunque contenimento ai contenuti impensabili che le straziavano l’anima.

Per contrasto Alfred Kubin, pittore simbolista, in Epidemia (1900) racconta in una terrea incisione monocromatica una storia macabra che ricorda L’invasione degli ultracorpi, film fantascientifico di Don Siegel. E davvero la sua opera sembra una scena fantascientifica, in primo piano appare un insetto gigantesco che incombe su un pallido paesaggio morente, con alberi scheletro e case fatiscenti, dove l’uomo pare non essere sopravvissuto o si trova prigioniero, morto-vivente, dentro la sua casa. Sembra un incubo che pittografa il mondo interno del grande artista, dove un immenso proto-pensiero-insetto invade e occupa la sua mente resa asfittica dalla infestazione di sensazioni inelaborate che gli procurano un indicibile dolore emotivo.

L’insetto/pensiero selvatico/sentimento predatore schiaccia, scova, penetra, fruga, pare non lasciare via di scampo; la solitudine e la disperazione colorano di terrore la scena. Forse il doloroso sentimento che ha potuto essere pensato da Kubin tramite l’incisione, aveva a che fare con angosce profonde di morte, con sentimenti di odio e di impotenza, stati d’animo dunque terrificanti incisi nell’anima proprio come la tecnica usata, ma che grazie alla possibilità di essere raffigurati hanno potuto essere metabolizzati, visti, raccontati e condivisi negli innumerevoli incontri con l’altro.

Souvenir de l’irréalité immediate (1952) è il titolo dell’opera intrigante del surrealista Victor Brauner, che ci trascina in un vortice ammantato di grigio che avvolge corpi inanimati, esangui, grigi come lo sfondo da cui, a malapena, si differenziano. È una raffigurazione angosciante e angosciosa della sofferenza del vivere, della difficoltà/impossibilità a trovare la dimensione dell’umano e lo spazio dove abitare la vita. In primo piano ecco i corpi lividi, quasi robotizzati, di incerta natura e di ambigua identità sessuale, in parte con sembianze umane, in parte completati da oggetti-scatola che raffigurano appunto la scatola cranica che contiene teste raccapriccianti di animali mostruosi o forme che alludono a elementi corporei.

I corpi denunciano l’angoscia della dimensione umana, l’essere schiacciati dal peso del pensiero e dalla responsabilità asfissiante della prigionia che la condizione dell’essere umani comporta. La testa è la parte più massacrata, martirizzata e trasformata, la testa come rappresentante della mente incombe catastrofica, disumana e disumanizzante, la testa paradossalmente inscatolata rende il dolore rimbombante, intontito, isolante il contatto con sé e con l’altro da sé. Quando nella figura centrale la testa è finalmente rappresentata nella sua umanità, appare innaturalmente lontana dal corpo, sia perché collegata da un collo stranamente lungo, sia perché macrocefala e dissintonica rispetto alla dimensione dell’intero, ma soprattutto sembra non appartenere a quel corpo, sembra essere altro da lui, è lì come per sbaglio e gli occhi comunicano terrore senza nome, sconcerto, confusione per trovarsi lì posizionata in un posto non suo.

Questa brutta sensazione di “irrealtà” ci restituisce la concretezza di un’indicibile sofferenza mentale, il dolore della non vita e di un torcersi e contorcesi dell’anima alla ricerca della propria verità per liberarsi dalla prigione angosciante in cui è incistata. L’inferno non potrebbe essere meglio rappresentato e il pittore surrealista ci fa sentire sulla pelle il dolore che l’ha imprigionato in una gabbia asfittica e senza speranza. L’immagine, la raffigurazione può essere il modo per esprimere il male di vivere che non trova traccia nel pensiero e tantomeno espressione nelle parole, l’immagine può pittografare l’ansia esistenziale, dare forma e contenimento a sensazioni ingestibili, metabolizzandole in pensieri finalmente pensabili.

È con dispiacere che devo interrompere la comunicazione intima con questi autori che mi inducono a prendere contatto con mie parti profonde, che mi permettono di sognare e mi interrogano sulla feconda ambiguità della mente umana, le cose non sono così semplici, ma la loro complessità, se ci si avvicina con una mente insatura e capace di sostenere il dolore dell’incertezza, costituisce anche la loro ricchezza.