Tra il 1907 e il 1908 Giacomo Balla realizzò Il Dubbio, un ritratto di Elisa Marcucci, sua moglie e musa, che oggi è possibile ammirare presso la Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma.

Solo un anno dopo, nel 1909, dietro la spinta di Carlo Carrà, di Fortunato Depero e di due dei suoi allievi romani, Umberto Boccioni e Gino Severini, Giacomo Balla aderì al Movimento Futurista teorizzato da Filippo Tommaso Marinetti, firmandone il Manifesto.

Ed è proprio al Movimento Futurista che siamo soliti associare l’artista Giacomo Balla, anche e soprattutto perché è con piena convinzione che egli stesso aderì a quella corrente artistica. Seppure il richiamo alle sue opere non dovesse essere immediato nella nostra memoria, provvidenziali reminiscenze scolastiche ci verrebbero in soccorso nell’associare le opere di Balla ad una geometrizzazione spiccata, oppure alla ripetizione di elementi identici in sequenza, in tutti i casi alla tendenza verso una sintesi compositiva che farà di lui uno dei massimi esponenti del Futurismo, nella celebrazione della modernità e con l’obiettivo principale di rappresentare una visione dinamica del futuro attraverso nuove tecnologie intese all’epoca come treni, automobili e aerei che esaltavano la velocità.

Tuttavia la protagonista de Il Dubbio non rientra affatto nei canoni di cui finora abbiamo detto perché Giacomo Balla, negli anni precedenti al Futurismo, era stato affascinato come altri suoi contemporanei dalla ricerca sulla luce e dalle novità degli studi sull’ottica e sulla fotografia.

Nei primi decenni del 1800, Michel Eugène Chevreul, chimico accreditato nel mondo scientifico accademico parigino, durante i suoi esperimenti di laboratorio, aveva notato che accostando due colori complementari, l'aura di uno rafforza quella dell'altro aumentandone la luminosità. Ed era pervenuto, formulandola, alla cosiddetta “legge del contrasto simultaneo”. In altre parole, quando l’occhio umano vede due colori contigui nello stesso momento, questi saranno percepiti come ciascuno il più dissimile da se stesso. Perché? Perché i nostri occhi cercano il contrasto, ma non un contrasto qualunque, un contrasto preciso tra colori complementari necessario al nostro cervello per riequilibrare con il contributo della retina, la percezione cromatica. La somma di tali colori, in alcune specifiche situazioni, rielaborata dal nostro occhio e dal nostro cervello ci permette di percepire il bianco.

E cosa c’è di più bianco della luce?

Questa scoperta affascinò molti artisti di quegli anni a cominciare da quelli d’Oltralpe, primo fra tutti Seurat, famoso per aver dato origine alla corrente del Puntinismo che trova i corrispettivi italiani nel Divisionismo. Ed è proprio al Divisionismo che appartenne Balla prima di aderire al Futurismo.

Alla base dei concetti e degli obiettivi di questa corrente artistica della seconda metà dell’Ottocento c’è dunque una specifica operazione, quella di “dividere” i colori, accostandoli sulla tela in lunghe pennellate invece che mescolarli sulla tavolozza, per far sì che il colore percepito fosse ricomposto da una miscela ottica e non da una mescolanza fisica, ottenendo cioè una miscela realizzata dall'occhio.

I colori primari sono il rosso, il giallo e il blu. Dalla loro mescolanza e dalle relative combinazioni nascono tutti gli altri colori. Se mescoliamo i primari blu e giallo otterremo il verde, e il rosso (altro primario), sarà complementare del verde ottenuto. Se li accostiamo, il nostro occhio vedrà il verde un po’ meno verde e il rosso un po’ meno rosso. I due colori cercheranno cioè di “mescolarsi” otticamente, e non fisicamente per mano del pittore.

La luminosità che si ottiene è moltiplicata, e l’intensità dei toni amplificata: così il bianco diventa quasi accecante, molto più intenso di quello ottenuto mescolando i colori sulla tavolozza. Agli inizi del Novecento, l’interesse che la fotografia degli albori aveva suscitato nei giovani artisti un secolo prima, era ancora molto vivo e la fotografia esercitava il suo fascino, se possibile ancora di più.

Anche Balla ne fu affascinato, non soltanto sotto l’aspetto scientifico e dell’innovazione tecnologica, ma proprio dal punto di vista artistico e creativo, tanto più perché la fotografia era a sua volta influenzata e collegata alla settima arte. Però: l’opera di Balla precede di qualche decennio le foto delle dive nostrane…

Ed ecco che ne Il Dubbio, Elisa Marcucci, ritratta in primo piano di tre quarti, ci dà quasi le spalle, che rivelate da una profonda scollatura, sono la superficie più grande su cui si posa la luce. Il collo compie una torsione per mostrare il volto e i capelli raccolti, un volto la cui metà rimane in penombra, e lo sguardo rivolto al marito, e a noi.

Il taglio compositivo “in diagonale” che esprime la figura non centrata rispetto ai margini della tela, quasi fosse tagliata per necessità estranee a motivazioni artistiche, rivela in realtà proprio una scelta pensata dell’autore, che si mostra non solo molto innovativo rispetto ai tempi, ma assolutamente attuale, contemporaneo.

Lo stile unico impresso al ritratto, dal fotografo italiano più famoso dell’epoca Arturo Ghergo, il fotografo delle dive del cinema, si identifica proprio con l’introduzione del taglio compositivo in diagonale e si caratterizza attraverso l’uso della luce radente. Da Alida Valli a Valentina Cortese, da Clara Calamai a Sophia Loren, da Gina Lollobrigida a Silvana Mangano, tutte furono ritratte da Arturo Ghergo che ridefinì i moduli figurativi dei soggetti femminili, sganciandoli definitivamente dalle pose rigide e polverose tipiche del periodo conservatore dal quale si era finalmente usciti, e trasformando le dive in vere e proprie icone immortali.

Il modo in cui Balla si adoperò per esprimere la luce sulla tela, ricorda proprio il modo nel quale questa veniva resa attraverso la fotografia, ad esempio attraverso l’uso della luce radente, una modalità di illuminare le figure, dal basso - radente appunto la superficie – che consente di mettere in evidenza molti più dettagli. E così, avvicinandoci a pochi centimetri dall’opera, vediamo come la pelle eburnea con riflessi rosacei di Elisa Marcucci, che concentra su di sé la luce di tutto il ritratto evocando quasi atmosfere caravaggesche, sia in realtà ottenuta sfruttando lo stratagemma del contrasto simultaneo, attraverso un uso intelligente dei colori complementari, ossia accostando pennellate la cui “somma” viene percepita dai nostri occhi come colore bianco. E sono ancora la fotografia ed il bianco e nero fotografico ad essere evocati dal cosiddetto effetto flou, o soft focus, un particolare tipo di effetto che consiste nel ridurre i contrasti dell’immagine, senza sfocare.

Quanto è stato anticipatore del futuro dunque, a prescindere dalla firma apposta sul Manifesto, Giacomo Balla?

In lui convivono più anime e qualità estetiche tanto che, seppure automaticamente e notoriamente venga associato al Futurismo al quale peraltro aderì con convinzione, salvo poi tirarsene fuori altrettanto dichiaratamente, (nel 1937 l’artista dichiarerà pubblicamente di considerarsi ormai estraneo alle attività futuriste e di voler tornare all’arte figurativa, come poi fece), dal punto di vista tecnico appartenne al Divisionismo del contrasto simultaneo, ma si inserisce a pieno titolo anche in una corrente contemporanea al Divisionismo che poneva il focus non sull’aspetto tecnico, ma piuttosto su quello emotivo e psicologico, ovvero la corrente del Simbolismo.

Per nulla interessati a oggetti, paesaggi e contesti in cui ritrarre le figure, i Simbolisti si concentrarono quasi esclusivamente sulla necessità di trasmettere le emozioni, la psicologia, i sentimenti, i sogni, le idee, tutti principi per i quali gli involucri costituivano solo un medium. Estremizzando potremmo affermare che la figura simbolista non si identifica con la figura stessa rappresentata, ma che questa ne sia piuttosto una metafora. Nel caso di Giacomo Balla questa estremizzazione e riduzione di figure a metafore non c’è, nella maniera più assoluta.

Certamente però, lo sguardo magnetico della donna e l’atmosfera velata di mistero di derivazione simbolista, fanno dell’opera Il Dubbio di Giacomo Balla un capolavoro assoluto, un capolavoro dal titolo che non trova però motivazioni oggettive e logiche. È davvero un dubbio ciò che comunica lo sguardo di Elisa Marcucci? La parola dubbio contiene in sé il concetto di duplicità, e si potrebbe definire come un'oscillazione tra due opzioni.

Gli occhi di Elisa Marcucci non comunicano piuttosto complicità con il marito che la ritrae? E a partire dal momento in cui viene fissata per sempre in quell'immagine, e consegnata alla "storia dell'arte", non comunica forse la donna, una sorta di complicità anche con l'osservatore? Con ognuno di noi? È uno sguardo da cui traspare forse anche un pizzico di malizia, ma solo un pizzico, mentre saldamente rimane ancorato pur sempre ad una pulizia di animo e candore. E per questo, davvero non trovo sentimento o principio che abbia potuto ispirare il pittore ad intitolare quest’opera Il Dubbio.

Ma si sa: il titolo di un’opera per gli artisti non sempre è di vitale importanza. Basti pensare alle innumerevoli opere Senza titolo esistenti.

Una cosa è certa: non c’è alcun dubbio sul contributo che Balla ha dato alla modernità; se il ritratto di sua moglie è così moderno, attuale e contemporaneo da poter tranquillamente meritare una copertina di Vogue nel nostro secolo, ma realizzato prima ancora che egli stesso approdasse formalmente al Futurismo, allora non possiamo che riconoscere in lui un futurista ante litteram, per lo sguardo alle innovazioni che ha sempre avuto, un futurista per definizione per l’appartenenza formale al movimento istituzionale e, ça va sans dire, un futurista nel DNA per il suo esercizio continuo di modernità.