Tutte le piante medicinali devono essere consacrate a una divinità, a un archetipo. Solo così, come sante reliquie, residui di significati sottesi e dimenticati, possono essere comprese nella loro natura più profonda e svelare all’uomo i misteri di cui sono portatrici. Questo almeno pensavano i nostri progenitori. I racconti che onorano la loro genesi assomigliano a quelli dei santi o degli dèi; meritano devozione e di essere raccontati per prendere forza di verità.

Il lentisco è una pianta che nell’erbario della farmacopea mitica non gode di un ruolo da protagonista. Non è la rosa di Afrodite o il giglio di Era; nemmeno il papavero di Persefone o l’alloro di Apollo. Il lentisco è un arbusto rustico, forte, che ha grande capacità di adattamento; come la sua dea, che è la selvatica Artemide, divinità silvestre, autonoma, invincibile. Artemide era un’amica affettuosa per le ninfe che la accompagnavano nelle sue avventure nei boschi e aveva consacrato il lentisco alla memoria della più amata fra le sue compagne, Britomarti, l’infallibile cacciatrice di cerbiatti. Nell’isola di Creta la giovane gioiva della vita libera e indipendente delle ninfe silvane, ma era stata notata dal re Minosse, che se ne era perdutamente innamorato e aveva preso a inseguirla senza sosta per ogni dove. Ma le seguaci di Artemide, come si sa, desiderano mantenersi eternamente vergini e fuggono le attenzioni maschili per non perdere la loro integrità; per nove lunghi mesi Britomarti riuscì a sottrarsi al suo inseguitore, ora cercando riparo sotto le querce, nell’oscurità dei boschi, ora arrampicandosi sui pendii scoscesi dei monti e trovando ricovero nelle grotte. Corse fino a quando sentì che le forze venivano meno, fino a quando si sentì braccata; solo allora, sul ciglio di una rupe, non esitò e scelse la liberazione della morte lanciandosi nel vuoto, cercando l’abbraccio delle onde.

Il destino intesseva però per lei altre trame, e fu proprio un’opera di sapiente intreccio a garantire il lieto fine: alla fine della vertigine del salto, infatti, si ritrovò avvolta nelle reti dei pescatori dell’isola, i quali la trascinarono a riva mettendola in salvo. Ne fecero la loro dea, le eressero altari e la chiamarono da quel giorno Signora delle Reti e anche Dittinna, dalla parola “dìktuon”, che in greco indica proprio la rete da pesca. Nei giorni sacri alla nuova dea avrebbero indossato corone di lentisco, ma guai se avessero toccato il mirto! È a questo punto che tra i risvolti del mito si inseriscono le forze botaniche, che come ombre fedeli ai personaggi che interpretano dispiegano tutta la loro partecipazione alle vicende umane e divine. Perché toccare il mirto viene considerato un atto sacrilego che disonora Britomarti? È il poeta Callimaco a svelarci questo enigma, nel suo Inno ad Artemide: racconta infatti un particolare inedito della vicenda, sfuggito agli altri narratori; forse perché sconosciuto ai più, o forse semplicemente un tocco di poetica divagazione. Spiega che durante l’ultima fuga disperata di Britomarti da Minosse un ramo di mirto si era impigliato nel peplo della giovane, rallentandone la corsa e mettendo a rischio la sua integrità.

Il messaggio è inequivocabile: Afrodite ha voluto metterci lo zampino! Se Britomarti, così come tutte le ninfe dell’entourage di Artemide, disprezza l’amore e i suoi doni e si ostina con caparbietà nel folle proposito di purezza, allora è Afrodite la sua antagonista e carnefice, prima ancora che Minosse, e con l’ausilio della pianta a lei consacrata, il cui ramo trattiene la fuggitiva per le vesti, cerca di favorire l’inseguitore spingendo la ninfa tra le sue braccia. Il mirto, che possiede un principio vegetale passionale e afrodisiaco, persegue strenuamente la sua vocazione archetipica e si trasforma in artiglio per trattenere colei che ritiene l’amore cosa indegna; la dea ha agito delegando la sua azione alla propria pianta sacra, che non è altro, in fondo, che il suo doppio botanico, un’altra sua identità.

Il lentisco di Britomarti si oppone al mirto per contrasto. Era una pianta utile alle funzioni di Artemide, che pur essendo votata alla verginità era la protettrice delle partorienti: la medicina popolare la utilizzava per curare i disturbi ginecologici, come le altre erbe dedicate a questa dea, l’artemisia e il dittamo. Lentisco e mirto intraprendono un dialogo fitto che intreccia mito e vita botanica: arbusti sempreverdi, protagonisti dell’habitat mediterraneo, spesso si trovano in associazione, mescolando nell’uniformità della macchia rami e significati. Non solo; sono simili nell’aspetto e nella forma delle foglie, e nella stagione in cui non presentano fiori o frutti possono facilmente essere confusi da un osservatore inesperto. Solo il diverso colore delle bacche li differenzia al colpo d’occhio: nere quelle del mirto, rosse quelle del lentisco. Nella farmacopea antica venivano utilizzati in associazione, per preparare decotti lenitivi o elisir salutari, ma soprattutto per gli usi della medicina ginecologica, nella quale le forze dei due archetipi femminili si ricompongono.

Dunque, nel segno della funzione farmaceutica delle rispettive piante le due divinità antagoniste, interpreti di forze opposte della femminilità, riescono a riappacificarsi e a trovare una collaborazione costruttiva. La nemica Afrodite è anche una madre in fondo, e Artemide non può rimanere insensibile all’amore materno. Nel gioco degli intrecci simbolici, nella condivisione dei patronati vegetali, si intuisce la memoria dell’antica sorellanza, forse addirittura di una primitiva unità.