La voce profetica di Ildegarda raggiunge chi si mette in ascolto con modalità personalissime. La “mia” Ildegarda si è svelata attraverso progressive suggestioni, in risonanza con i temi di approfondimento che mi sono cari, e si è presentata con molte cose da dire.

Dapprima, attraverso un’opera pittorica dell’artista Octavia Monaco, grande esploratrice degli archetipi femminili, la quale recentemente mi ha invitata a scrivere un articolo di accompagnamento a un suo trittico dal titolo Viriditas che, senza avere una connessione specifica con il personaggio Ildegarda, ha toccato le mie corde attraverso il riferimento al mito. Dalla tela emergeva una figura femminile imperscrutabile e ieratica, che mi ha istintivamente evocato una enigmatica Demetra, la dea madre nel cui mito sono al momento immersa per ragioni di studio. Il concetto di viriditas è molto pertinente con questo mito, che è allo stesso tempo un grande affresco del femminile: ho immaginato quel verdeggiare smeraldino come un simbolico anello di congiunzione tra Demetra e Ildegarda: la potente dea mediterranea e la “paupercola feminaea forma”, come la santa amava definire se stessa. Una contraddizione?

La seconda intuizione mi ha raggiunta quando ho assistito alla prima esecuzione di un’opera musicale dedicata a Ildegarda, su invito dell’ideatrice, la flautista Federica Lotti. Un’opera raffinatissima e d’avanguardia, intitolata E immediatamente diventai sapiente: le turbatissime visioni di Hildegard von Bingen, un dialogo tra parola e sonorità che esplora i saperi e la personalità di questa figura straordinaria attraverso il rapporto di maternità spirituale con la giovane Richardis, la sua allieva prediletta e amatissima. Il messaggio della vibrazione sonora ha ricomposto la complessità simbolica della coppia Demetra/Persefone, invitandomi a esplorare la risonanza di questo archetipo in Ildegarda.

Il mito di Demetra proietta nell’iperuranio della dimensione cosmica che è propria di ogni biografia divina il dramma umanissimo dell’iniziazione femminile, raccontato nella duplice prospettiva della figlia e della madre. La figlia archetipica, Kore, e la madre archetipica, Demetra, varcano soglie parallele: la fanciulla quella della vita adulta, nell’incontro con la dimensione maschile, con la polarità sconosciuta, con la ricerca di una nuova identità e di un nuovo nome; la donna matura quella del superamento dell’età fertile, del ruolo di cura e di protezione, attraversando lo shock del rapimento repentino e inaspettato e l’immenso vuoto lasciato da quella figlia inghiottita dalla voragine. Kore viene carpita da un dio tenebroso e come sua regina dovrà abituare la vista alla penombra opaca, ma Demetra sperimenterà un’ombra ancora più fosca: dapprima la rabbia funesta e incontenibile, che la spingerà alla ricerca infinita e improduttiva di Kore; in quanto dea cosmica, sarà travolgente nel suo impeto emozionale, tanto da trascinare con sé il suo intero universo simbolico. In seguito, la depressione che si impossesserà di lei fagociterà l’intera natura, che è il suo dominio, soffocando ed estinguendo in ogni manifestazione di vita.

Ildegarda ha vissuto intensamente nella sua biografia il mito demetriaco, e lo ha fatto nell’esperienza di un rapporto di maternage intenso e sofferto: non una maternità fisiologica, che come donna consacrata le era preclusa, ma una maternità spirituale vissuta con pienezza, quella con la sua allieva e pupilla Richardis von Stade, una fanciulla di nobile casata la cui educazione e istruzione le era stata affidata. In quegli importanti anni di formazione la giovane Richardis aveva sviluppato doti di ingegno, intelligenza e sensibilità, affiancando la badessa anche nelle attività intellettuali, compresa la stesura dello Scivias, una delle opere più importanti della sua abbondante produzione filosofica. Nel tempo il legame si era trasformato in un’amicizia privilegiata, alimentata da reciproca stima, ammirazione e grande affetto. Con Richardis Ildegarda sperimenta l’amore incondizionato, totalmente ricambiato, della madre per la figlia, della maestra per la discepola, dell’amica per l’amica, fino a quando il destino impone lo strappo di una separazione improvvisa e non preventivata: come per Demetra, vissuta come un vero rapimento. Il fratello della ragazza, infatti, che era vescovo a Brema, ne aveva ottenuto la posizione di badessa nel monastero di Bassum: un incarico di prestigio, che avrebbe rinforzato il peso politico della famiglia von Stade. Richardis accettò, nonostante l’insistenza e le suppliche di Ildegarda, la quale tentò ripetutamente di dissuaderla. Ma il pungolo dell’ambizione, o forse la pressione psicologica della famiglia, ebbero il sopravvento, e la ragazza lasciò definitivamente il monastero e la sua maestra.

La strenua opposizione di Ildegarda è un grido di dolore, il segnale della difficoltà di accettare il passaggio di Richardis all’età adulta. Così come Demetra era partita alla ricerca di Kore dopo aver appreso del rapimento, furiosa e avvolta in un mantello nero, pronta ad aggredire ogni avventore pur di portare a termine il suo compito, Ildegarda combatté la sua battaglia personale affidandosi alla propria autorità politica. Si sedette allo scrittoio e indirizzò lettere a tutte le figure coinvolte nella decisione: la madre e il fratello di Richardis, vescovi e prelati, perfino il papa Eugenio III; nelle sue perorazioni e nella sua opera di dissuasione tentò ogni strada possibile per arginare il caos emotivo generato dal timore della perdita. Infine, delusa e rassegnata, scrisse alla stessa Richardis parole struggenti, nelle quali risuona una malinconia dolente, la ferita dell’abbandono, una struggente nostalgia, la delusione che tuttavia non vince sull’amore: “Audi me, filia, matrem tuam in spiritu dicentem. Dolor meus ascendit...”. “Povera me madre, povera me figlia! Perché mi hai abbandonato come un’orfana? Ho amato la nobiltà delle tue maniere, la tua saggezza e la tua purezza, la tua anima e tutta la tua vita, tanto che molti dicevano: ma cosa fai? Ora piangano con me tutti quelli che hanno un dolore simile al mio, quelli che in cuor loro e nell’intimo dell’animo hanno provato per amore di Dio un affetto per qualcuno, come io ho per te, ed è stato loro strappato all’improvviso, come tu sei stata strappata a me”.

La forza del contrasto malinconia-viriditas nel mito è potente e pervasiva. La depressione di Demetra è una tristezza cosmica, che trascina con sé il mondo vegetale fino a portare anche il genere umano sulla soglia dell’estinzione. Interpreta la polarità opposta alla viriditas, che è esplosione di vitalità, flusso libero e brulicante di vita, potere di tutto ciò che verdeggia. Demetra si getta sulle spalle il manto funereo e parte alla ricerca di Kore, il suo dolce germoglio. Afflitta nel cuore, colpita nel nervo più scoperto della sua identità di madre, la dea si presenta agli uomini “simile a una vecchia, lontana dalla maternità e dai doni di Afrodite”: prosciugata nella sua capacità generativa. Soltanto quando Kore le viene restituita, sebbene per un breve periodo dell’anno, Demetra può recuperare il suo travolgente slancio vitale: la sua gioia rigenera i frutti fecondi della terra e tutto si ricopre nuovamente di foglie e di fiori.

Questa malinconia è una tristezza archetipicamente legata al femminile, e anche Ildegarda è consapevole del potere irresistibile di tale inclinazione, sulla quale medita a lungo esaminando la natura della melaina chòle, quella che i Romani chiamavano atra bilis, la deprimente bile nera che ostacola l’esistenza e piega l’animo alla tristezza. La melanconia, o malinconia, qualità saturnina, è la forza che si contrappone alla ben più celebrata viriditas ildegardiana, la quale interpreta il transito alchemico tra nigredo e albedo. La malattia, intesa come rottura di un equilibrio armonico tra corpo, psiche e anima, si manifesta su quell’asse invisibile che trascolora dal nero al verde, e l’attento sguardo filosofico si sofferma a lungo e con profondità di pensiero sulle cause di questo umore subdolo, che nel medioevo era considerato una patologia psichica responsabile di molte malattie: una alienatio mentis, cioè un delirio, una tendenza a cui sono fisiologicamente più inclini le donne, e che la stessa Ildegarda sperimentò a più riprese nella sua vita.

La malinconia prende il sopravvento ogni qual volta la linfa prodigiosa della viriditas si inaridisce, ma è anche un dolente strumento di esplorazione del proprio mondo interiore, in quanto connette l’individuo con la tragicità della condizione umana. Ildegarda, infatti, non trascura l’interpretazione teologica di questo male, che ritiene intrinsecamente legato alla condizione del genere umano dopo il peccato originale. Un fardello ereditato dall’antica colpa di Eva e di Adamo, che si propaga nell’anima come una pestilenza silenziosa.

In un’ultima e fatale risonanza con l’archetipo Persefone, anche la strada di Richardis si avviava a tracciare il sentiero del regno di Ade: la ragazza infatti morì pochissimi mesi dopo il suo arrivo a Bassum. Non ci è dato dalle fonti conoscere la causa del decesso; sappiamo solo, da una lettera del fratello, che Richardis aveva confessato di vivere con sofferenza il distacco dalla sua maestra, e che durante la breve permanenza nel nuovo monastero aveva espresso il desiderio di tornare. Come Persefone, di riabbracciare la madre per allontanare la morte.