Non tanto rigide icone ma vere visioni ci vengono offerte dalla milanese Daniela Montanari. La sua passata esperienza professionale e culturale nel campo dell’architettura, del restauro e della progettazione diventa un valore aggiunto metabolizzato nella e dalla sua passione figurativa che approfondisce la ricerca costruttiva della figura femminile rinnovando la tipologia romantico-pop del ritratto.

Daniela realizza quel raro e difficile equilibrio dinamico fra la cura maniacale del dettaglio e della strutturazione e la focalizzazione di sintesi sull’unità organica di visione e figura. Non a caso una sua importante esposizione del 2003 a Lissone, a cura di Sciaccaluga, recava il nome di Storie sulla pelle, proprio per l’intensità poetica ed espressiva dell’“epidermide” delle sue moderne e misteriose “feminae”. Ma la massimizzazione dell’analisi viene qui ad aiutare l’esaltazione della persona e non la sua decostruzione. Lo sguardo critico, o anche solo estetico e curioso, non riesce infatti a fermarsi a scomporre la configurazione in quanto la forza narrativa e ideativa delle sue opere, come invadente e saturante ogni spazio mentale e ottico, induce alla contemplazione e non alla scissione.

Come le tele seicentesche, ma anche nei tarocchi, nei francobolli, nei “santini”, e nella loro versione laica delle “figurine”, il fondale appare ridotto all’essenza di un colore dominante, o a pochi segni: linguaggio misterioso e osmotico che rafforza, insieme alle scelte cromatiche decise e “intensificate”, il protagonismo della persona nella sua intrigante e inquietante femminilità, e con essa dialoga nello stesso focus di atmosfera e vibrazione, aura e matrice nel contempo in rapporto alla figura umana. Tutta l’opera si apprezza “dentro” l’immagine della donna. Composizioni che ci raccontano la magia intima di mondi femminili immensi colti nella loro limpida e specifica occidentalità, non altrimenti risolvibile. Daniela supera ogni dualità e ogni nominalismo per ridonarci il gusto dell’apparire, libero dal senso dell’effimero come dalla preoccupazione della durata e denudato anche da ogni intenzionalità concettuale o ideologica... Non c’è retorica nel suo linguaggio perché non c’è teorema o imitazione né secondi fini comunicativi, ma solo appassionata ricerca e raffinata tecnica che mira alla rigenerazione dell’immaginario pittorico nel ritratto.

Le donne di Daniela, presenze seduttive e penetranti come in Maria, corrugate e sfuggenti come in Megane, o estaticamente allibite e “rapite” come in Sunset sembra che sappiano di essere guardate e si lasciano conoscere dolcemente, acconsentendo a che il loro insolubile mistero sia partecipato e condiviso... Il “velo” dei colori, dei visi indagati fino all’imbarazzo e al disagio, dei vestiti vividi, dei capelli mossi, degli occhi luminosi e grandi, aperti ad un’istantanea totalità, diventa nell’opera di Daniela, la sostanza stessa dell’umanità e della natura, l’essenza vitale del cosmo, il superamento della distanza fra frammento e unità.

La pittrice ricompone efficacemente la frattura estetica e filosofica fra fenomeno e “noumeno”, fra apparenza ed essere, intenzione e linguaggio, essenza ed accadimento. Come le ninfe le sue donne non recano alcuna frattura nella scena che connotano e sostanziano. Nella sua donna la “superficie” corrisponde niccianamente alla spontanea e sincera profondità dell’esserci e l’essenza interiore si pone proprio nella sua comunicazione. Dall’enfatizzazione dei colori, concentrati, audaci, accurati, stesi omogeneamente in “aree morbide” in un preciso chiasmo o intreccio con i dettagli più dinamici, e dal complementare ravvicinamento visivo dei volti, deriva il senso di veloce freschezza e convincente narratività, oltre l’idea di allucinazione e di surrealtà, oggi abusata e banalizzata. Una donna intensa e ardente, da amare e accogliere proprio nell’incontro con lei, momento ipnotico e liberatorio, illuminante e decisivo. Senza preamboli. Senza scampo.