La dodicesima e ultima delle straordinarie fatiche di Eracle portò l’eroe a varcare la soglia del regno del fosco Ade. Il compito estremo prevedeva di portare in superficie il crudele Cerbero, l’invincibile cane dalla voce di bronzo, una bestia dal cuore violento, implacabile custode del mondo oscuro. Eracle, capace per fama di superare ogni confine, ebbe l’ardire di varcare i cancelli del regno della morte: traghettato al di là del fiume Stige, sfiorò gli spiriti infelici accalcati lungo le tristi sponde, fragili e spaventati come foglie mosse dal vento.

Tra la nebbia evanescente vede emergere la sagoma dell’odioso carceriere dei morti. Dal suo collo possente si dipartono tre teste latranti: la coda è una serpe che si contorce e lungo il dorso si rizzano teste sibilanti di serpenti; la rabbia che esprime è all’altezza del suo aspetto. Non appena la belva si accorge della presenza estranea, tutto il suo corpo si pone in allerta: forse fiuta l’odore, forse percepisce il respiro vitale. La schiena irsuta si curva, le orecchie si tendono, la coda sibila minacciosamente. Un triplice latrato squarcia quei luoghi di silenzio, ma Eracle è pronto ad agire: con uno scatto si avventa sull’animale, stringe con il braccio sinistro la base del collo, bloccando le mandibole feroci e soffocando il soffio delle tre gole, mentre con la destra rotea nell’aria la portentosa clava e la abbatte sul mostro colpendo ripetutamente fino a stordirlo. La lotta si protrae, furibonda: Cerbero si dibatte e si impunta, e i latrati raggiungono anche Ade e la sua sposa Persefone, che tremano sui loro troni, ma l’eroe riesce a guadagnare terreno e a trascinarlo fino ai cancelli del Tartaro.

Il cane sembra lentamente ammansirsi e cedere al volere del nuovo padrone; Eracle accarezza il dorso irsuto e lo cinge con catene d’acciaio, mentre le tre teste si rilassano e la coda serpentina placa l’inquieta contorsione. Si crede già vittorioso, ma non immagina la reazione dell’animale all’apparire dei bagliori della luce esterna. Avvezzo a una notte senza fine, Cerbero, di fronte allo spazio luminoso del cielo, viene colto da un delirio incontrollabile che riattiva la sua ira furibonda. Scuote le catene e storce gli occhi, e perfino Eracle fatica a controllare le sue convulsioni: dalle tre bocche emette una bava bianca e densa, che cosparge le rocce circostanti. Questa, addensandosi sul terreno, subito ne stimola la fertilità, e in quello stesso luogo spunta una pianta velenosa, l’aconito, l’erba delle rocce. Solo allora, stremato, il cane infernale china lo sguardo al suolo, chiude gli occhi per rifuggire l’odiata luce e si rintana nell’ombra di colui che lo ha domato.

Ora il figlio di Zeus ha finalmente compiuto la sua impresa definitiva: si è inabissato nelle profondità degli inferi e ne è riemerso indenne, trasformato. Al culmine del suo percorso iniziatico, assiste a un miracolo botanico, quello della nascita dell’aconito. L’eroe, in realtà, non è nuovo alle scoperte vegetali. Inaspettatamente rispetto all’immaginario comune, Eracle presenta profonde risonanze con i temi della medicina e del sapere farmaceutico, e nel mito spesso si rivela scopritore di erbe medicinali e esperto rizotomo. Forse perché, in quanto modello paradigmatico, interpreta un ruolo attivo di antagonista di ogni forza nemica al genere umano, e la malattia rientra pienamente in questo scontro simbolico e richiede l’azione eroica di un salvatore. Sono numerosissime le piante medicinali che portavano il suo nome: gli autori antichi citano una panacea detta “di Eracle”, l’origano heraclium, un’erba eraclea non meglio identificata, un’“ortica di Eracle”, e ancora un’eraclea sideria, che cura le ferite da taglio.

Il legame profondo col mondo vegetale e con la cura svela la complessità di questo personaggio che, come tutti gli eroi che compiono un viaggio di iniziazione, possiede una natura solare; visitando l’oltretomba, infatti, Eracle ha dimostrato di essere in grado di affrontare la dimensione oscura dell’esistenza, ma di saper riemergere alla luce, come l’astro solare che sprofonda negli abissi bui per ritornare vittorioso, a ogni nuova alba, a illuminare il mondo. Eppure, questo eroe ingloba nel proprio nome anche quello di una grande dea madre, Era; da lei, ancora neonato, era stato allattato, saldando un legame inscindibile con la dimensione femminile e riproponendo un ruolo antichissimo, quello del paredro, antico servitore della dea nel primitivo mondo matriarcale, che nel mito porta a compimento eseguendo le fatiche duramente imposte da Era.

Assistendo alla prima epifania dell’aconito, Eracle può testimoniare i significati profondi della nuova creatura vegetale, attraverso i dettagli simbolici della sua genesi. Può attribuirgli un nome, innanzitutto, che ricordi che l’erba è spuntata sulla pietra, “akonè”, e che sempre prediligerà i terreni sassosi. Anche la natura di veleno letale è strettamente legata al vissuto mitico di Cerbero; l’intrusione di una creatura infernale nel mondo dei vivi ha lasciato una traccia indelebile, una scia di morte che è la prova del corto circuito dimensionale prodottosi. Dopotutto la terra genera farmaci e veleni: l’aconito, letale e paralizzante, entrerà ben presto nella farmacopea di Ecate e delle sue adepte, da Medea a tutte le streghe dei secoli a venire.