Una femminista bocciata dalle femministe. Una femminista colpevole di troppa avvenenza. Una femminista che non intende rinunciare alla propria femminilità. Tacciata per il suo fascino distraente, Hannah Wilke – scultrice e performer newyorkese – viene immediatamente guardata con sospetto da una legione di donne che nel 1968 combatte per ridefinire i diritti di genere.

Accanita oppositrice della pressoché inutile funzione sociale della donna, nonché della superficiale e talvolta insulsa immagine che di essa ne ha l’intera collettività, Hannah sceglie di muovere la propria personale contestazione partendo esattamente da lì, da quella stessa immagine che non condivide. Un’immagine di donna-oggetto, donna-usa-e-getta, donna-copertina, donna-manicaretto, donna-come-tu-mi-vuoi, donna-godiva, donna-merce, donna-madonna, esteticamente perfetta, esteticamente appetibile, potenzialmente frivola e indisturbante, utile soltanto a copertine di riviste glamour o a uomini che intendono soddisfare i propri desideri. Donna che si agghinda, donna che si atteggia, donna che si piace, donna che si mette in mostra. È l’immagine di una donna vuota, narcisista e decorativa. Ma è l’immagine dalla quale la Wilke intende partire. Un vero anti-modello per la milizia femminista appena insorta. E che non comprendendo immediatamente il suo atteggiamento, le si scaglia contro.

Personalità di rilievo come Lucy Lippard – curatrice, critica d’arte e attivista – controbattono ampiamente la sua modalità di fare arte attraverso il corpo. Troppo sensuale – dicono –, armata di troppo charme e troppa nudità per poter tenere alta la bandiera degli ideali femministi. A loro detta, Hannah non risponde agli standard convenzionali di femminista agguerrita. Non appare troppo arrabbiata, non ha i “numeri” per combattere contro il sessismo e il maschilismo. E’ troppo bella. Troppo narcisista. Troppo esibizionista. È troppo superficialmente donna per poter essere una femminista. Secondo la Lippard, inoltre, non è una vera artista, poiché non sembra essere realmente impegnata in una lotta di contestazione sociale; piuttosto appare alquanto egoica e accentratrice.

Ma la Wilke, che ha scelto di porre l’accento su una certa ostentazione proprio allo scopo di aprire un dialogo e attuare la propria lotta personale, sa che le cose non stanno così. E infatti, nel 1977, decide di pubblicare un Manifesto indiscutibilmente provocatorio nei confronti di tale integralismo. Il Manifesto prende il titolo di Marxism and Art: Beware of Fascist Feminism. Si tratta di una locandina in bianco e nero che la ritrae in posa, con una camicia aperta che le scopre i seni e un paio di jeans a vita bassa. Mani sui fianchi, sguardo altezzoso, qualche accessorio… e alcuni chewing gum incollati sulla pelle. Il Manifesto viene esposto in una mostra collettiva tenutasi quello stesso anno presso l’Edificio delle Donne di Los Angeles, e voluta dal Center for Feminist Art Historical Studies. In risposta a una sorta di regime totalitario, la Wilke ribatte, quindi, con un’immagine di sé che ricorda quella di alcune modelle in posa sulle copertine di Play Boy. Una notevole provocazione, che le vale una certa celebrità. Ma quei chewing gum incollati alla pelle… cosa significano?

Non è certo la prima volta che ne fa uso. La fotografia utilizzata per il Manifesto è infatti stata estrapolata da una performance realizzata qualche anno prima e intitolata S.O.S. Starification Object Series: An Adult Game of Mastication ( 1974-75), durante la quale l’artista a busto nudo si lasciava ritrarre in più scatti, assumendo pose da vera pin-up. La sua pelle era costellata di tanti piccoli chewing gum forgiati in forma di vagina. Pare che la Wilke, all’inizio dell’esibizione, distribuisse pacchetti di gomme da masticare al pubblico entrante, e che dopo essersi denudata tornasse da quegli stessi spettatori per farsi riconsegnare la gomma masticata. Quindi, sotto i loro occhi stupiti – da brava scultrice e modellatrice quale era stata agli albori della sua carriera – ne modellava la forma. L’ultimo passaggio era dato dall’applicazione di queste gomme-vagine sulla sua pelle. Il chewing gum era stato scelto perché, a suo parere, rispondeva perfettamente all’idea maschilista di donna media americana: masticabile, assaporabile, plasmabile, sostituibile. Esagerando ed esasperando quell’immagine la Wilke mirava a provocare reazioni e riflessioni sul tema. Il corpo dialogante poneva domande e attendeva risposte, mediante una provocazione in chiave pop.

Hannah è sì una femminista, ma non è integralista. Essere femminista significa, per lei, ridisegnare il ruolo sociale della donna, ristabilirne i diritti, ma senza inibire la grazia, la sensualità, l’avvenenza insite in ogni creatura del suo stesso sesso. Essere femminista può e deve significare anche essere orgogliosamente femmina. La sua ricerca si incastona, dunque, tra rivendicazione e riscoperta di una femminilità legittima.

Nata nel 1940 a New York da genitori ebrei originari dell’Europa dell’Est, Hannah inizia la sua carriera artistica occupandosi di scultura. Studia arte presso lo Stella Elkins Tyler School of Fine Art, Temple University di Philadelphia e successivamente tiene laboratori, conferenze e corsi. Nel 1974, fonda un dipartimento di ceramica presso la School of Visual Arts di New York. La scultura resterà il grande amore di una vita e sarà la disciplina che qui insegnerà per diversi anni, sino a quando un linfoma non le impedirà brutalmente di condurre una vita normale. L’uso del corpo come medium giunge in seguito a una serie di mostre in cui espone le sue vagine scolpite in diversi materiali e diverse dimensioni. Il leitmotiv della sua indagine artistica, la vagina, “l’origine del mondo” per dirla alla Courbet, è dunque presente sin dal principio. Viene ritratta in terracotta, ceramica e latex, per poi approdare al chewing gum, quando la pratica scultorea cede il posto a quella performativa. Forme esclusivamente vaginali costituiscono l’elemento modulare del suo repertorio, e già a partire dal 1960, le celebri Vulvar in terracotta vengono esposte a New York, città dove Hannah continua a vivere e dove negli anni si lega sentimentalmente allo scultore pop Oldenburg.

Il passaggio dalla scultura al corpo avviene proprio negli anni in cui la Performance e la Body Art si affermano come nuovi linguaggi artistici prevalentemente usati dalle donne. Il corpo, il gesto, l’azione, il comportamento, divengono medium immediati e inequivocabili, che oltre a rivendicare diritti umani, omosessuali, lotte di genere e antimilitarismo, rovesciano anche le logiche tradizionali del mercato dell’arte. La performance può accadere ovunque. E l’artista è opera d’arte vivente, mutante e ambulante. Come scrive Carla Subrizi nel saggio Azioni che cambiano il mondo: Le artiste hanno non soltanto esposto ma hanno indicato con gesti, azioni, forme performative, la condizione culturale della corporeità e con essa dei comportamenti, delle relazioni sociali (…), hanno messo in relazione l’arte con la politica, l’arte con la poesia, l’arte con i lavori manuali e artigianali. E ancora: Non era questione di definire il maschile rispetto al femminile, ma le soggettività a partire dal genere, dal sesso, dalla cultura, dalle storie individuali e collettive. Questo processo di individuazione di soggettività è stato dunque avanzato con forza e con punti di vista teorici e pratici fondamentali proprio dalle donne, dalle molte specificità della “femminilità” non tanto per la definizione dell’essere donna, ma per attivare processi del divenire donna.

Ecco, questa è l’esatta cornice in cui si incastona la figura di Hannah Wilke, che agli sgoccioli della sua vita riesce persino a utilizzare il corpo performante per dialogare con il cancro che la sta uccidendo. Intra-Venus (1992-1993) è infatti il suo ultimo lavoro. Una documentazione fotografica dello stravolgimento fisico che la malattia le genera. Aumento di peso, ferite, perdita di capelli dovuta alla chemioterapia. Hannah si fa ritrarre nuda, con pochi capelli e poi completamente calva. Un approfondimento di questo lavoro è Intra-Venus-Mirror, in cui l’artista pone l’una accanto all’altra, le immagini di se stessa da giovane e di sua madre provata dalla lotta contro un cancro al seno. Intra-Venus è certamente il lavoro più forte della Wilke. Esposto postumo, per volere del marito Donald Goddard, che a seguito della sua morte ne custodì le fotografie, questo repertorio fotografico la mette a nudo in tutta la sua umana fragilità, e in tutto il suo orgoglioso coraggio.

Tra gli altri suoi lavori che ho il piacere di ricordare, cito Gestures (1974), un video in cui l’artista guarda direttamente l’obiettivo, sfregando o stirando la pelle del viso con le mani e ripetendo una serie di movimenti e di espressioni facciali sempre uguali, e Intercourse With… * (1978) altro video in cui l’artista viene ripresa mentre ascolta una selezione di messaggi lasciati sulla sua segreteria telefonica da persone con cui ha avuto una relazione. I nomi di queste persone sono scritti sulla sua pelle e lei li rivela lentamente, spogliandosi. *So Help Me Hannah, è invece un lavoro fotografico datato 1979, che funge da indagine del proprio rapporto con la figura materna.

Hannah Wilke muore di linfoma il 28 gennaio 1993, nella sua città, New York. La diffusione postuma del suo lavoro artistico è dovuta allo straordinario impegno della sua famiglia, la quale ha istituito nel 1999 l’archivio Hannah Wilke Collection nella città di Los Angeles. Oggi sue opere sono presenti nei più grandi musei di Arte Americana Contemporanea, come il Guggenheim, il Moma, il Whitney Museum di NewYork, sino ad arrivare a Los Angeles e Minneapolis.