Come ogni conflitto, sin dalla notte dei tempi (dagli antichi Egizi, a Giulio Cesare, fino alla Serenissima e in ogni Paese del mondo), anche la prima guerra mondiale ebbe le sue spie, i suoi servizi di informazione, quelli che amiamo chiamare servizi segreti.

Un intenso servizio di spionaggio non lo si metteva in atto soltanto con informatori che viaggiavano e tenevano d’occhio i personaggi più in vista o più pericolosi per la madrepatria, ma anche con una fitta rete di persone comuni che comunicavano per dovere civico e, talvolta, anche per convenienze, quali erano le reali intenzioni di forestieri o persone o famiglie che potevano nuocere alla propria causa; parallelamente, si studiavano sistemi per non fare intercettare ordini e strategie, come la crittografazione dei documenti, creata già nell’antichità. È opinione comune che il creatore dei moderni sistemi di spionaggio sia stato un tedesco, Wilhelm Stieber, che nell’Ottocento organizzò reti di persone di vario tipo, maschi e femmine, in molte parti del mondo, facenti capo ad un’organizzazione centrale, per raccogliere e organizzare le informazioni.

L’Austria non fu da meno durante il dominio nel Lombardo-Veneto e, quindi, la sua organizzazione durante il primo conflitto mondiale era già pronta in proposito. L’Evidenzbureau, il servizio di informazioni dell’Impero, era costituito da ufficiali dello Stato Maggiore che avevano combattuto, e funzionava sia in tempo di guerra che in tempo di pace. Agenti operavano a Parigi, Lione, Marsiglia, Tolone, oppure presso le ambasciate, come a Bruxelles, Francoforte, Ginevra, Berna. Incrementatosi dopo la guerra del 1859, vide le sue spie operare anche a Firenze, Berlino, San Pietroburgo. A Verona, ancora austriaca, l’Evidenzbureau disponeva di un servizio presso il Comando Superiore dell’Armata di Verona, organizzatosi poi diversamente una volta che l’Italia si era costituita Regno, divenendo pertanto un’entità autonoma dalla quale guardarsi, detenendo ancora l’Austria il controllo di Trentino e Friuli. Infatti, l’attività del servizio divenne sempre più intensa, proporzionalmente al diffondersi di manifestazioni irredentistiche, soprattutto nelle zone di confine con l’Italia.

Questo controllo si mantenne, se non addirittura si intensificò, anche dopo la firma del trattato di alleanza denominato la Triplice Alleanza tra Austria, Germania e Italia, in particolar modo verso cittadini italiani che si recavano a Trento, città che da tempo premeva per passare sotto il Regno d’Italia. I controlli riguardavano le persone, ma anche le fabbriche soprattutto di munizioni ed esplosivi, stilando liste di sospettati o di soggetti che preferibilmente dovevano essere espulsi soprattutto da Trento, piuttosto che controllare la posta e le comunicazioni telegrafiche. Vennero anche organizzate reti di informatori un po’ da tutta la penisola, per venire a conoscenza di ogni cenno che potesse portare ad una minaccia per l’Austria. Se il servizio di spionaggio doveva essere intenso per il proprio Impero, non doveva essere da meno l’attenzione per le spie degli altri Paesi, a loro volta sempre meglio organizzati. Quindi, l’Evidenzbureau si dotò, intorno al 1913, di un manuale, tradotto in tutte le lingue delle etnie che componevano il grande impero austroungarico, da distribuire nelle caserme in circa mezzo milione di esemplari. Militari, poliziotti e doganieri dovevano essere consapevoli che in ogni persona poteva nascondersi una spia e starne alla larga o comunque attenti. Addirittura venne sospettato di spionaggio un metodo da poco messo a punto in Italia per occupare il tempo.

Erano anni, infatti, di intensa attività sindacale, grazie alle compagini di lavoratori che si erano organizzate relativamente da poco. Queste avevano ottenuto, con scioperi, proteste, quelli che oggi chiameremmo tavoli di trattative, di avere la giornata lavorativa di otto ore e un giorno almeno di riposo settimanale. Questo riposo, vero toccasana per la salute dei proletari, era divenuto una maledizione per molti, dato che l’unico passatempo era andare in osteria, giocare a carte e bere vinello a poco prezzo. Il tasso di alcolismo si era alzato pericolosamente e molte furono le persone che, non amanti delle osterie, oppure con altri interessi, oppure per carattere filantropico, pensarono di utilizzare meglio quel prezioso tempo a disposizione di se stessi. Allora andava bene conoscere il mondo, corroborare il fisico, organizzare piacevoli attività in compagnia. Nacque, ad esempio, il Club Alpino Italiano, che piano piano divenne punto di rifermento per chi voleva conoscere la montagna sapendo che non la si deve affrontare da soli. Pertanto le attività del neonato Club divennero partecipate e intense, anche in luoghi di confine con l’Austria, al punto che l’impero e il suo bureau pensarono di tenerlo d’occhio in quanto foriero di attività di spionaggio. Non è escluso che tra gli alpinisti in erba ci fossero, in realtà, anche delle spie, soprattutto perché conoscitori degli itinerari migliori tra le montagne per raggiungere l’Austria.

Questa, malgrado legata da un trattato di alleanza, non si fidava di un’Italia che aveva dimostrato in varie occasioni la caparbietà e la tenacia dinanzi alle rimostranze risorgimentali; e tanti pensavano di dovere combattere la quarta guerra d’indipendenza per liberare i territori ancora occupati dallo straniero, l’odiato austriaco. L’Aquila bicipite non dimenticava le Dieci Giornate di Brescia o la battaglia terribile di San Martino e Solferino; aveva ripetutamente pensato di “farla pagare” all’Italia che si era battuta per avere l’indipendenza delle sue terre. Addirittura allo Stato Maggiore dell’esercito austriaco ci avevano pensato durante le opere di soccorso e di solidarietà messe in atto nel 1908 a seguito del terribile terremoto che aveva colpito la Sicilia, scelta messa poi da parte per non apparire corvi più che aquile sulle spalle di un disastro immane. L’attacco doveva avvenire sull’altipiano di Asiago, come in effetti accadrà più tardi, durante la guerra mondiale. In ogni caso, questo correre alle spie fa capire il clima di sospetto che circolava nei salotti bene, nelle ambasciate e per l’Europa colpita da quella “isteria collettiva” che portò alla Prima guerra mondiale.

Questa scoppiò a seguito dell’attentato all’arciduca erede al trono d’Austria, Francesco Ferdinando, avvenuto il 28 giugno 1914. Scampato ad un primo attentato durante la sua visita a Sarajevo, l’Arciduca aveva voluto continuare il suo percorso in auto scoperta per le vie della bella città, quando un altro anarchico riuscì nell’intento e lo uccise. L’ultimatum inviato dall’Austria alla Serbia conteneva molte richiesta corrette, ma anche un senso di umiliazione per una nazione che voleva essere indipendente e che non poteva accettare di avere il controllo austriaco sul processo da mettere in atto contro gli attentatori. Pertanto le richieste non vennero accettate e la guerra venne dichiarata un mese dopo, il 28 luglio. Essendo l’Austria stata attaccata e non avendo subito un attacco, come recitavano le regole del trattato che aveva sancito la Triplice Alleanza, l’Italia non scese in guerra accanto all’Austria. Erano già in atto pressioni inglesi perché l’Italia rimanesse neutrale oppure iniziasse a combattere a fianco delle Triplice Intesa, formata da Francia, Gran Bretagna e Russia, ma per il momento l’Italia rimase neutrale.

Troppo difficile decidere di combattere la cattolicissima Austria, e altrettanto difficile pensare di combattere con un esercito impreparato e male equipaggiato. Quindi per alcuni mesi in Italia ci fu un clima sfavorevole al conflitto ma, allo stesso tempo, fervente per cercare la strada migliore per entrare in una compagine di nazioni tenute in considerazione al tavolo delle trattative. L’Italia era un Paese giovane, che era appena uscito, e ancora non del tutto, dal Risorgimento, cercando di mettersi in pari con la rivoluzione industriale, la costruzione di scuole e il miglioramento dell’agricoltura, pertanto la scelta non sarebbe stata facile. Intanto, il servizio segreto austriaco si mise ad operare in Serbia organizzando disordini, manifestazioni, proteste, per sobillare la situazione dall’interno creando caos e agevolando, così, l’esercito, anche con atti di sabotaggio. La collaborazione con l’alleata Germania, altra nazione giovane ma dal servizio di informazioni e spionaggio molto efficiente, divenne sempre più proficua.

Anche l’Italia aveva le proprie “spie” e visse, come gli altri Paesi in guerra, un momento di necessaria organizzazione o riorganizzazione della propria guerra “segreta”, così come dovette fronteggiare un conflitto nuovo, carico di nuove tattiche militari, nuovi parametri, nuove armi, per il quale cominciò in qualche modo a prepararsi. Le informative sull’Italia non mancarono mai all’Austria, anche perché iniziò un intenso traffico di dati e documenti tra l’Italia e l’Inghilterra. Questa sovvenzionò un famoso giornalista perché cominciasse a prendere le parti dei socialisti riformisti che volevano il conflitto, e Benito Mussolini era troppo letto e graffiante per non essere fondamentale. Il suo cambiamento di pensiero verso l’interventismo fu prezioso e salutato con soddisfazione dagli inglesi che sembra proprio avessero finanziato il suo giornale, creato dopo avere lasciato la direzione de “Avanti!”, “Il Popolo d’Italia” dalle cui colonne prese a inneggiare alla lotta per l’unità nazionale.

Pertanto il servizio di spionaggio austriaco intensificò la sua azione verso l’Italia quando sembrava probabile che sarebbe entrata in guerra contro l’alleanza stipulata anni addietro. I consolati austriaci di Venezia, Milano e Napoli furono preziosi in proposito. Tra i vigilati speciali c’era Cesare Battisti per la sua azione irredentista, pur appartenente alla Dieta austriaca. L’Austria era coadiuvata nella sua attività di spionaggio nei confronti dell’Italia dall’alleata Germania che manteneva continui legami commerciali con l’Italia, prima perché l’Italia non era in guerra, e dopo l’ingresso in guerra del nostro Paese, perché la Germania le dichiarò guerra soltanto nell’estate del 1916. Quindi, l’alleata dell’impero austriaco poteva ricevere informazioni di prima mano da passare al comando delle operazioni anti italiane, anche perché la Germania continuò a finanziare i neutralisti che potevano contribuire a ledere la convinzione di dovere combattere. Questi, infatti, venivano sovvenzionati per continuare la loro politica e minare dall’interno la situazione italiana. La politica di “convincimento” messa in atto con soldi, non si attuava solo in Italia, ma dove gli italiani avevano iniziative e affari, in modo da cercare notizie, collaboratori e, soprattutto, informazioni. Gli italiani, malgrado stessero sempre più e meglio organizzando la loro azione di spionaggio, non utilizzarono modi “sporchi” di combattere, sabotando, ad esempio, le fortificazioni o le ferrovie che ben conoscevano, perché i nostri servizi segreti non contemplavano il sabotaggio come metodo di guerra. Diversa fu l’azione austriaca che utilizzò ampiamente questi metodi per creare panico tra la popolazione civile oppure sconcerto atto a chiedere che la guerra finisse e, con questa, il secondo fronte aperto per l’Impero.

L’Italia, pertanto, non solo era impreparata al conflitto militarmente (molti ufficiali si comperarono le pistole con soldi propri, ad esempio), non aveva ancora messo a punto quel sistema scientifico di guerreggiare che divenne sempre più necessario dati i cambiamenti tecnico-scientifici messi in atto in quegli anni e resi chiari e noti proprio da questo conflitto. L’opera di spionaggio, già studiata a lungo all’estero e utilizzata ampiamente dallo stesso Napoleone Bonaparte, era lungi a venire in Italia, quindi anche su questo fronte fu arretrata e col fiato corto rispetto alle potenze in campo in quegli anni. La scelta di scendere in guerra, costrinse lo Stato Maggiore dell’esercito ad organizzarsi in fretta contro l’Austria, anche con la “guerra segreta”. E chi usare meglio se non i fuoriusciti trentini, quelli cioè che, abitando nella Trento austriaca e quindi nostra nemica, fuggirono in Italia per poter combattere a favore dell’annessione della città all’Italia? Furono proprio loro a permettere di costituire un importante servizio di intelligence, come fu chiaro all’Ufficio Informazioni della Prima Armata trentina e come riferirà il colonnello degli Alpini Tullio Marchetti. Ad essi si affiancheranno anche i fuoriusciti triestini, ruotando intorno a quel nucleo costituito a Milano da Battisti e due suoi fedelissimi, Larcher e Pedrotti, chiamato Comitato di Emigrazione Trentina, che fungerà da servizio di informazioni proprio raccogliendo notizie che arrivavano o avevano come interesse l’Austria. Dopo averle filtrate, le informazioni venivano passate al comando della prima Armata che aveva sede a Milano. Sempre i trentini riuscirono a operare così intensamente da dare origine al Centro Informazioni di Verona, con varie sedi compresa Brescia dove però la questura si dimostrò molto ostile, rendendo il servizio meno efficace, oltre ad altre sedi venete e friulane.

Anche Brescia, comunque, divenne uno dei sette Uffici Informazioni Militari staccati con Verona appunto, Belluno, Tolmezzo, Udine, Palmanova, Milano, tutti dipendenti dall’Ufficio Informazioni dello Stato Maggiore di Roma. Stato Maggiore di cui divenne capo il generale Luigi Cadorna. Se il Comitato di Emigrazione Trentina aveva dato il via ed era poi servito da copertura per mascherarsi alle spie del nemico, gli uffici distaccati diverranno poi Informazioni Truppe operanti degli Uffici Informazioni delle Armate. Le dislocazioni non erano casuali. Ovviamente sul versante est, in prossimità del fronte friulano, era essenziale ottenere informazioni sul nemico in sua evidente prossimità, ma Brescia era sostanziale per operare nelle retrovie e verso la Svizzera, oppure per ottenere informazioni dall’estero. Verona era determinante soprattutto per le informazioni che riguardavano la guerra sul fronte trentino. L’Ufficio informazioni di Brescia venne affidato alla direzione del tenente colonnello Tullio Turchetti, mentre quello veronese era a capo del capitano Cesare Pettorelli Lalatta, prezioso perché conosceva perfettamente il tedesco e l’ungherese. Brescia e Verona vennero accorpati al comando di Turchetti divenendo l’ufficio Informazioni della prima Armata.

Ormai i nostri uffici di informazioni segrete stavano diventando sempre più organizzati e importanti al fine di ottenere rilevanti risultati bellici e concorsero come i militari al fronte ai successi militari. Successi che non erano sempre rilevanti, in un confine di oltre 600 chilometri con l’Austria, dei quali circa 500 di media e alta montagna. Lo Stato Maggiore operava sia in modo offensivo, sull’Isonzo ad esempio, per cercare spazi verso Trieste e tentare di incunearsi nei territori nemici, che difensivo, per garantire che il territorio italiano non venisse invaso dai nemici. In questo senso, l’attività dei servizi segreti fu importante, soprattutto vista la minore consistenza del nostro esercito che doveva quindi essere adeguatamente supportato da informazioni preziose per poter attaccare il nemico, come avvenne con ampio successo in Valsugana. Servizio informazioni che, ad esempio, sconsigliò a Cadorna di sdoppiare la Prima Armata per l’operazione sul monte Ortigara del 1917. Gli Austriaci avevano già tentato di sbaragliare l’esercito italiano con la Strafexpedition della primavera del 1916, ma fu il 1917 l’anno decisivo, date le continue defezioni sul fronte russo a causa dei problemi interni che la Russia cominciò ad avere a partire dal febbraio. Cadorna comandò 300mila uomini nel giugno 1917 per un’offensiva che comportò pochi risultati, ma un numero impressionante di morti e feriti, in modo particolare tra le brigate alpine che registrarono circa 28mila perdite. L’intento di consolidamento difensivo sul fronte trentino non si concretizzo, portando in agosto alla famosa battaglia della Bainsizza sul fronte giulio senza quella protezione che sarebbe stata importante. Infatti, l’esercito italiano lasciò abbastanza scoperta l’area vicentina, e il risultato di non avere consolidato le posizioni trentine convinse Vienna di potere spostare soldati austriaci in supporto sul fronte friulano, fino ad organizzare la grande offensiva autunnale iniziata il funesto 24 ottobre. Offensiva che l’Italia ricorda come dodicesima offensiva dell’Isonzo o disfatta di Caporetto, agevolata anche in questo caso dalla disponibilità di molti uomini non più impegnati sul fronte russo.

Sul fronte trentino, l’azione dei servizi segreti italiani comprendeva anche la guerra psicologica, come sarebbe stata chiamata in seguito, che consisteva in una vasta campagna di informazione, sensibilizzazione e convincimento nei confronti di tutti coloro che combattevano per l’Austria non sapendo bene perché, appartenendo a etnie in contrapposizione con la madrepatria, oppure convinti della bontà delle motivazioni italiane a rivolere i propri territori, insomma, per cercare di minare la solidità dell’esercito nemico e la fedeltà dei soldati. La tattica sortì gli effetti sperati con insubordinazioni e defezioni soprattutto tra gli irredentisti trentini e friulani, mentre altre compagini mantenevano la disciplina tipica dell’esercito austriaco.

Fu così che un sergente austriaco, tale Mleinek, il 12 luglio 1917 si presentò ad un avamposto italiano con un plico da consegnare ad un comando italiano. Venne portato dal tenente colonnello Cerruti, Capo di Stato Maggiore della Divisione di stanza a Pieve Tesino, in Valsugana, che aprì la busta e vi trovò una serie di schizzi sul sistema difensivo austriaco, evidenziando dove sarebbe stato possibile un attacco favorevole all’Italia. Il sergente era solo un ambasciatore. Nella busta c’erano precise indicazioni su come dimostrare di accettare non solo l’informazione, ma anche aiuto. Gli italiani avrebbero dovuto sparare due colpi di granata da 152 contro il campanile del paesino di Carzano, uno dei punti in cui i nemici erano più vicini in quella zona, confermando poi di notte con un segnale luminoso. Successivamente un altro uomo si sarebbe recato ad un appuntamento per prendere precisi accordi tattici. L’informativa venne immediatamente inviata al maggiore Pettorelli Lalatta, dell’Ufficio Informazioni, che capì l’attendibilità della fonte, aggiungendo informazioni a quelle già in suo possesso sulla linea difensiva nemica, anche elettrificata in alcuni punti. Per non mettere a rischio i suoi uomini, Pettorelli andò personalmente all’appuntamento per accordarsi con chi aveva offerto aiuto. Si trattava di un tenente, Ljudevik Pivko, comandante di un battaglione bosniaco, che odiava profondamente l’Austria. Su di lui la propaganda italiana aveva fatto breccia, convincendolo non solo a disertare, ma a colpire la sua patria prima di lasciarla. Pettorelli architettò un piano geniale: usare il nuovo collaboratore per inviare una colonna di soldati a Trento, impedendo la ritirata a tutti i soldati nemici schierati dalla Valsugana al Garda.

Pivko accettò di buon grado la proposta di diventare una spia in favore dell’Italia e di incontrarsi con Pettorelli per riferirgli sui movimenti dell’esercito al quale ancora apparteneva. Pivko si rivelò indispensabile, affidabile e ben organizzato, tanto che aveva un informatore anche al comando dell’Undicesima Armata austroungarica di Bolzano che gli faceva avere gli ordini prima di diramarli, consegnandoli così agli italiani prima che gli stessi austriaci li ricevessero. Importanti erano le informazioni su come erano disposte le difese nemiche, per poter organizzare adeguatamente gli attacchi. L’attacco avrebbe previsto che i filoitaliani, dall’interno delle linee austriache, avrebbero staccato la corrente ai reticolati, cercando di addormentare le truppe con sonnifero, mentre materiali necessari come le passerelle per guadare i fiumi venivano ammassate in posizione strategica; sarebbero state interrotte le linee di comunicazione, impedendo il passaggio di ordini dai comandi e, insomma, coordinare una serie di azioni finalizzate alla buona riuscita del piano italiano. Il momento era propizio: a seguito delle inefficaci azioni italiane sul fronte trentino, infatti, molti battaglioni soprattutto di fanti austriaci avevano lasciato la zona per recarsi sul versante friulano, pertanto la scopertura dell’area, dalla quale erano stati spostati anche i pezzi di artiglieria pesante, rendeva ideale un attacco per conquistare postazioni strategiche e puntare su Trento.

A questo punto si trattava di informare del piano, già redatto nei dettagli, il comandante della Prima Armata, generale Pecori Giraldi, che trovò interessante il progetto, ma non fu disponibile ad intromettersi nella gestione della Sesta Armata dalla quale dipendevano i soldati in Valsugana. Inviò Pettorelli direttamente da Cadorna. A quel punto l’organizzazione si sfilacciò in una serie di decisioni da prendere circa chi avrebbe dovuto avere il comando della Divisione di testa, nel momento in cui la fibrillazione era già alta a seguito dell’organizzazione dell’Undicesima battaglia dell’Isonzo, quella della Bainsizza. Questo fece addirittura ridere del piano di Pettorelli, mentre Pivko si manteneva sempre attento e preciso nel fornire prove dell’attendibilità delle sue informazioni. Che riferivano dell’altrettanto lavoro degli agenti segreti austriaci volto a logorare la fedeltà dei soldati italiani alla corona sabauda, per portarli a defezioni che avrebbero consentito all’Aquila bicipite di ottenere lo scopo di sconvolgere il fronte italiano e vincere, finalmente, l’Italia. Bisognava dunque agire in fretta, perché anche i nostri nemici si organizzavano adeguatamente. Proprio sul finire dell’offensiva della Bainsizza, ecco un rapporto austriaco del 27 agosto che già parlava di sferrare un devastante attacco alle linee italiane per sfondarle. Ben due mesi prima della paurosa azione che portò a Caporetto.

Sempre riferite al Comando Supremo, queste notizie portarono Cadorna a convocare Pettorelli il 4 settembre; questi riferì nei minimi dettagli, per circa due ore, tutto il piano strategico elaborato, ricevendo la proposta di comandare parte dell’attacco previsto. Pertanto Pettorelli sarebbe dovuto tornare dal generale Cadorna di lì a tre giorni per continuare la messa a punto dell’azione anche con il generale Etna, comandante del XVIII Corpo d’armata e per ora della Sesta Armata. Alla riunione del 7 furono presenti numerosi altri comandanti che sarebbero stati interessati dall’azione. Ancora una volta prevalse lo scetticismo, la volontà di essere al centro dell’attenzione e di non essere messi in ombra da un maggiore, l’idea di operare solo un colpo di mano e non di mettere in atto un’azione vera e propria, capace di impetuoso sfondamento delle linee nemiche e di un’ottima operazione conducente fors’anche alla vittoria.

Servivano ardimentosi, insomma, non di chi pensava a fare poi rientrare le truppe nelle linee. E lo stesso Cadorna si rese conto di non avere i generali adatti a questo. Addirittura per le rapide azioni vennero scelti un battaglione di bersaglieri e una compagnia di arditi del Corpo d’Armata che non erano mai stati al fronte, quindi sarebbero stati alla prova del fuoco. Tuttavia, sarebbero state forze abbondanti, il generale Cadorna le predispose personalmente in numero ampio, a testimoniare quanto credesse nell’operazione. Oltre a questi reparti, ci sarebbero stati due reggimenti di fanteria, sei battaglioni di bersaglieri ciclisti, due battaglioni alpini, un battaglione di arditi dei bersaglieri. Con gli uomini pronti ad intervenire, in tutto circa 40mila soldati erano pronti all’azione he avrebbe avuto come centro il piccolo comune di Carzano.

Il piano d’attacco prende avvio la notte tra il 17 e il 18 settembre. Pettorelli comanda gli arditi che entrano a Carzano, constatando l’assoluta fedeltà di Pivko che mantenne tutti gli impegni di collaborazione che aveva promesso. Invece, il comando italiano non fu in grado di organizzare l’avanzata delle truppe rese pesanti da un approvvigionamento eccessivo, mentre non si erano coordinati i tempi tra i necessari rifornimenti alle truppe e la rapidità con la quale avrebbero dovuto muoversi i soldati impegnati nel “colpo di mano”. In realtà, gli avamposti furono precisi, alle due e mezza della notte si erano già trovati in posizione per poter assicurare una rapida penetrazione delle truppe verso l’interno, approfittando della sorpresa nemica. E invece tutto si fermò. Molte delle colonne rimasero senza ordini precisi e regnò una grande confusione, con la disorganizzazione imperante. Intanto alcuni soldati austriaci fuggirono da Carzano e diedero l’allarme.

A quel punto non ci volle molto perché l’artiglieria austriaca cominciasse a sparare su Carzano. Pettorelli salvò molti uomini, ma nell’azione morirono 13 ufficiali, 896 soldati italiani ai quali vanno ad aggiungersi oltre trecento soldati nemici. Cadorna commentò che non c’erano gli uomini adatti ad imprese del genere, intendendo ufficiali, coloro che fossero in grado di organizzare un’azione seria ed efficace. In effetti non erano stati scelti a dovere, essendo i generali legati alle convenienze e alla forma, invece che alla sostanza. L’episodio, che venne poi taciuto, soprattutto dopo i fatti di Caporetto, dimostra la ristrettezza di vedute di chi vedeva ancora la situazione come una sorta di campo scuola per provare le tattiche studiate alla scuola ufficiali. In ogni caso, non tutte le operazioni italiane furono fallimentari. I tenenti Ugo Cappelletti e Salvatore Bonnes, assieme a Stenos Tanzini, Remigio Bronzini, Natale Papini e Livio Bini, organizzati da Marino Laureati e Pompeo Aloisi, riuscirono a neutralizzare la centrale operativa dello spionaggio austriaco in Italia che si trovava in Svizzera, a Zurigo. Questo episodio avvenne nel febbraio del 1917, ma la data è imprecisa, collocata tra il 20 e il 21, oppure tra il 24 e il 25 del mese, se non addirittura in altre notti. In ogni caso, gli operativi della Regia Marina riuscirono ad introdursi nella centrale di spionaggio nemica e a forzare la cassaforte di Mayer, il comandante dello spionaggio austriaco anti italiano, rompendo la rete di informatori del nemico, costituita specialmente da sabotatori che erano riusciti a portare all’affondamento delle due corazzate italiane “Leonardo da Vinci” e “Benedetto Brin”, per sabotaggi a bordo nei porti di Brindisi e Taranto.

L’Italia fu teatro anche delle performance di una delle spie più famose di quel periodo, l’olandese Margaretha Geertruida Zelle, nata nel 1876 e morta nel 1917. Margaretha ebbe una vita difficile: sposata per procura ad un soldato di stanza a Giava, visse alcuni anni in Indonesia, prima di rientrare ad Amsterdam e all’Aja con la famiglia. In breve, il marito la lasciò e lei ottenne il divorzio, quindi si trasferì a Parigi dove per vivere iniziò ad esibirsi in un circo come amazzone, dato che in Indonesia aveva imparato a cavalcare. Cominciò anche a ballare come aveva imparato a Giava, e questo attirò l’attenzione su di lei che, finalmente, ebbe il successo che sperava. Fu a seguito di questo che si rese necessario trovare un nome d’arte, più adatto a farsi ricordare dal pubblico. Margaretha divenne allora Mata Hari, famosa dal Moulin Rouge al Trocadéro, e resa ancor più conturbante dall’invenzione della sua vita: essendo di carnagione scura e dai capelli neri, divenne facile far credere di essere nata a Giava e non in Olanda. Iniziò tournée in giro per l’Europa e tra i suoi ammiratori ci fu anche Giacomo Puccini. Lei era la danza fatta persona e tutti la ammiravano, così come leggevano la sua biografia scritta dal padre e assolutamente falsa. Raggiunse l’apice artistico a La Scala di Milano, poi cambiando stile di danze. Scoppiata la prima guerra mondiale, mentre cercava di entrare in Svizzera per tornare in Francia, venne fermata alla dogana e rimandata a Berlino, sua ultima residenza. Raggiunse quindi ancora Amsterdam e poi L’Aja, mantenuta da vari amanti. Fu proprio nella capitale olandese che conobbe Alfred von Kremer che l’assoldò come spia per la Germania, approfittando dei suoi frequenti spostamenti in Francia.

Mata Hari avrebbe dovuto fornire informazioni sugli aeroporti sotto il nome H21, per divenire infine l’agente AF44 dopo l’addestramento in Germania da parte della famosa spia nota come Fräulein Doktor. Mata Hari venne quasi immediatamente controllata dal controspionaggio inglese e francese e proprio la Francia le propose di diventare una spia per Parigi. La donna accettò e instaurò un doppio gioco fornendo informazioni a Olanda e Germania e alla Francia di rimando. Arrestata il 13 febbraio del 1917, venne sottoposta ad un complesso processo che decretò la sua colpevolezza e la condanna a morte per fucilazione. La condanna venne eseguita il 15 ottobre. Delle tante persone della sua vita, nessuno reclamò il corpo che venne sepolto in una fossa comune, eccetto la testa che venne conservata e trafugata negli anni Cinquanta. Sembra che la famosa spia fosse stata assoldata dai francesi per un sottile stratagemma tedesco, visto che la Germania voleva sbarazzarsene in quando divenuta scomoda ed esosa, ma, essendo parte della “guerra segreta”, la verità vera non la sapremo mai.