Nel 1914 l’Europa scivolava verso la Prima guerra mondiale con un misto di entusiasmo e rassegnazione. Le potenze imperiali, incatenate da alleanze rigide e reciproche diffidenze, consideravano il conflitto non solo inevitabile ma persino auspicabile come strumento di affermazione nazionale. Si credeva a una guerra breve, “risolutiva” e quasi igienica, destinata a “purificare” le società europee. In pochi mesi quelle illusioni si trasformarono in fango, trincee, gas e milioni di morti. Oggi non viviamo la stessa euforia. Nessuno, almeno nei paesi democratici, scende in piazza per invocare la guerra. Ma un fenomeno altrettanto inquietante sta emergendo: la guerra sta tornando a essere percepita come una possibilità concreta, quasi una componente normale della politica internazionale. Non più una catastrofe da scongiurare, ma un rischio “gestibile”, un’opzione tra le altre. Questo cambiamento, silenzioso ma profondo, riguarda non solo le strategie militari, ma anche le mentalità, il linguaggio, la cultura e persino l’educazione. Ed è un campanello d’allarme per la pace e per la democrazia.
Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), nel 2024 la spesa militare globale ha raggiunto 2.718 miliardi di dollari, con un aumento del 9,4% rispetto al 2023. È l’incremento più alto dalla fine della Guerra Fredda. Gli Stati Uniti restano al primo posto con 997 miliardi di dollari, pari al 37% della spesa mondiale; la Russia ha aumentato la propria spesa del 38%, raggiungendo 149 miliardi. Anche la Cina, con oltre 296 miliardi, continua la sua modernizzazione militare. L’Europa non è da meno: la spesa militare ha toccato il livello più alto degli ultimi trentacinque anni, con un aumento del 17% rispetto al 2023. Gli Stati dell’Europa orientale, più vicini ai teatri di crisi, hanno registrato i maggiori incrementi: la Polonia ha destinato oltre il 4% del PIL alla difesa, superando la soglia simbolica richiesta dalla NATO. Dietro questi numeri c’è un mutamento strutturale: la militarizzazione crescente delle società moderne. Non si tratta più solo di rispondere a minacce contingenti, ma di trasformare la difesa in un pilastro permanente della politica economica e industriale.
Nel 2024 erano attivi 56 conflitti armati, il numero più alto dalla fine della Seconda guerra mondiale. Guerre grandi come quella in Ucraina o a Gaza attirano l’attenzione mediatica, ma la maggior parte dei conflitti è diffusa in Africa, Medio Oriente e Asia, spesso invisibile all’opinione pubblica occidentale. Questi conflitti hanno causato oltre 200.000 morti solo nel 2024, con una persona su otto esposta a violenza politica. Secondo l’organizzazione ACLED, la violenza politica è aumentata del 25% rispetto all’anno precedente, e le violazioni dei diritti umani sono in crescita in quasi tutti i teatri di guerra. Questo scenario alimenta una spirale di insicurezza: più cresce la percezione della minaccia, più si aumenta la spesa militare; più si investe in armamenti, più cresce il rischio che vengano usati. È la dinamica che lo storico John Keegan definì “la trappola della deterrenza”: un sistema che pretende di garantire la pace attraverso la forza ma che, nel lungo periodo, normalizza l’uso della forza stessa.
Per decenni il linguaggio bellico è stato usato come metafora in ambiti disparati: la “guerra” alla povertà, la “battaglia” contro il cancro, il “fronte” dell’innovazione tecnologica. Oggi, però, questa metafora sta diventando letterale. Nei discorsi politici, nei talk show e nei social media, parole come “battaglia”, “fronte”, “conflitto” non sono più immagini retoriche ma descrizioni di realtà. I confini tra guerra e pace si fanno sfumati. Anche nelle democrazie il linguaggio del “nemico” e dell’“emergenza” tende a legittimare misure straordinarie e a restringere gli spazi del dissenso. In Italia, per fortuna, non si assiste a esercitazioni a livello studentesco in senso strettamente “bellico” con armi e uniformi; esistono però da anni iniziative pubbliche per diffondere la cosiddetta “cultura della difesa” o della protezione civile, spesso in collaborazione con le Forze Armate, la Croce Rossa o associazioni di volontariato. Si tratta di visite a basi, incontri con militari, attività di simulazione di emergenze. L’intento dichiarato è quello di sensibilizzare i giovani alla sicurezza, alla gestione dei rischi e al volontariato civico.
Eppure, la scelta di certi linguaggi e simboli non è neutra: può contribuire, anche involontariamente, a desensibilizzare le nuove generazioni alla violenza o a normalizzare modelli comportamentali aggressivi. Non significa demonizzare ogni progetto di educazione civica o protezione civile, ma interrogarsi sul contesto e sui messaggi trasmessi. Se la guerra smette di essere percepita come un’eccezione tragica e comincia a entrare, anche solo come immaginario, nella quotidianità dei giovani, la pace rischia di apparire come un’utopia anziché come un obiettivo concreto.
L’importanza della “memoria”
Il ricordo nefasto della Prima guerra mondiale - tragica anticipazione della Seconda - avrebbe dovuto funzionare come un vaccino contro la follia bellica. Invece, a più di un secolo di distanza, la retorica bellicista ritorna, come l’aggressione della Russia all’Ucraina dimostra, alimentata da nazionalismi, paure e interessi geopolitici. L’idea di una guerra inevitabile o preventiva riaffiora sotto nuove forme. La storiografia ha mostrato che la Grande Guerra non fu il frutto di un destino ineluttabile, ma di scelte politiche, errori di calcolo e illusioni condivise. Ogni volta che la guerra appare inevitabile, in realtà qualcuno sta scegliendo di non esplorare alternative. Le istituzioni nate dopo il 1945 – ONU, Unione Europea, OSCE – sono sempre più in difficoltà di fronte alle crisi globali. Il Consiglio di Sicurezza è paralizzato dai veti delle grandi potenze; le missioni di peacekeeping sono cronicamente sottofinanziate; i processi di disarmo nucleare sono in stallo. In questo vuoto, la diplomazia cede il passo alla logica della forza. Il rischio è che il diritto internazionale perda credibilità e che i conflitti tornino a essere risolti non nei tribunali o ai tavoli negoziali, ma sui campi di battaglia.
La guerra non minaccia solo la pace esterna, ma corrode la democrazia dall’interno. In nome della sicurezza, gli Stati introducono misure straordinarie: censura, sorveglianza, limitazioni delle libertà civili. Anche nelle democrazie consolidate, lo “stato di emergenza” tende a diventare permanente. La storia del Novecento mostra come i conflitti esterni rafforzino le tendenze autoritarie interne: la Prima guerra mondiale accelerò la fine dei regimi liberali in Europa; la “guerra al terrorismo” dopo l’11 settembre aprì la strada a pratiche di sorveglianza di massa e a interventi militari poco trasparenti. Quando la guerra diventa normale, anche i cittadini si abituano a delegare decisioni cruciali a élite militari e tecnocratiche. La discussione pubblica si riduce a un “sostegno alle nostre truppe” e chi solleva dubbi è accusato di disfattismo. È un meccanismo che riduce gli spazi del dibattito democratico e rafforza le logiche di blocco e contrapposizione.
In questo contesto, è quanto mai urgente riaffermare la pace come scelta consapevole e attiva. La pace non è soltanto assenza di conflitto armato, ma un processo dinamico che richiede impegno, dialogo e solidarietà. Non basta interrompere le ostilità: occorre affrontare le cause strutturali dei conflitti – disuguaglianze, ingiustizie, crisi ambientali, sfruttamento delle risorse. Se vogliamo evitare che la guerra diventi normale, occorre educare alla pace, non come retorica astratta ma come competenza concreta. Ciò significa sviluppare nei giovani, capacità di mediazione, gestione dei conflitti e pensiero critico. Significa promuovere programmi scolastici e culturali che valorizzino la cooperazione, la storia del pacifismo, le conquiste del diritto internazionale. La democrazia è condizione per la pace, ma anche la pace è condizione per la democrazia. Difendere le istituzioni democratiche, i diritti umani e lo stato di diritto significa ridurre il terreno di coltura dei conflitti armati. Questo richiede il gravoso impegno da parte di tutti a una vigilanza quotidiana: la pace non è un dato acquisito, ma un obiettivo da perseguire ogni giorno.
Per questo condanno apertamente la normalizzazione della guerra, perché ciò è un pericolo reale e attuale. Non possiamo permettere che il conflitto armato diventi la nostra nuova normalità. E che l’opinione pubblica sia influenzata da “questo o quel” politico di turno, che mai andrà in guerra, semmai manderà i nostri figli. La storia ci insegna che la guerra non è mai inevitabile, ma sempre una scelta – talvolta la scelta di non scegliere alternative. Reagire significa riaffermare i valori della pace, della democrazia e della solidarietà, investire nella diplomazia, nel disarmo, nell’educazione. Significa riconoscere che la sicurezza vera non nasce dall’accumulo di armi, ma dalla costruzione di relazioni giuste e sostenibili. Se il Novecento è stato il secolo delle guerre mondiali e della guerra fredda, il XXI secolo può – e deve – essere il secolo della pace consapevole. Ma questo dipenderà dalle scelte che facciamo oggi, come cittadini e come comunità internazionale. La guerra può diventare “normale” solo se accettiamo di dimenticare, mentre la pace può diventare “normale” solo se impariamo a costruirla.