C’è un momento della vita in cui la terra sotto i piedi cambia consistenza. Max lo percepisce all’improvviso: diciannove anni, provincia veneta, un’estate programmata nei dettagli con gli amici, la libertà come unico orizzonte. Poi un clic, un’e-mail, e il suo mondo si incrina. Robert Price, figura imprevedibile, diventa il richiamo di un altrove che trasforma l’abitudine in pressione, il gioco in una scelta che non può più essere rimandata.

Squali, esordio nel lungometraggio di Daniele Barbiero, racconta con rara delicatezza questo passaggio fragile e inquieto, come se osservasse da vicino una corrente invisibile. Max non compie solo uno spostamento geografico: attraversa un tempo emotivo inedito, in cui ogni gesto pesa e ogni decisione modifica la rotta. L’adolescenza, con la sua ritualità e la sua spensieratezza, si rivela improvvisamente fragile, simile a un ghiaccio sottile su cui muoversi con cautela.

Lorenzo Zurzolo restituisce con intensità l’instabilità del protagonista, sospeso tra desiderio e paura; James Franco, invece, è il contrappeso, la presenza adulta che incarna la forza concreta del mondo esterno. Tra i due, il film esplora un equilibrio precario: Max cresce toccando con mano un futuro che non aspetta, e lo spettatore ne avverte ogni oscillazione, ogni incertezza, come un movimento minimo ma determinante.

La città, il treno, le luci notturne: tutto diventa metafora del passaggio, del moto continuo. Come gli squali, Max non può fermarsi — o almeno così crede — e in questa corsa contro sé stesso il film trova la sua tensione poetica. Nessun giudizio, nessuna verità risolutiva: solo possibilità aperte, scelte pesanti, e il bisogno urgente di non perdere sé stessi nel mezzo della transizione.

Squali non è un racconto di ascesa né di caduta: è la storia di una sospensione, di come il passaggio dall’adolescenza all’età adulta assomigli a un nuotare in acque profonde, fragili, incerte, ma inevitabili.

Abbiamo incontrato il regista Daniele Barbiero e gli abbiamo rivolto alcune domande.

Passare al lungometraggio ha rappresentato per te una sfida o un’evoluzione naturale? È stato un salto necessario o un passaggio atteso?

Assolutamente necessario ma anche molto atteso, devo dire. Sono partito dai cortometraggi e da altre forme brevi come videoclip e pubblicità ma ho sempre sentito l’esigenza di voler ampliare la narrazione, avere più tempo per approfondire temi e personaggi. Ogni passaggio nella carriera è una sfida ma personalmente la vedo come un’evoluzione naturale, cerco sempre di alzare l’asticella di progetto in progetto: credo che, soprattutto al cinema, lo si debba in particolare al pubblico.

Quanto è stato complesso tradurre in immagini quella precarietà emotiva e quella vertigine che segnano il passaggio all’età adulta?

Ho pensato molto a come riuscire a rendere quelle sensazioni in immagini e alla fine sono ricorso un po’ allo stomaco, a quell’età le emozioni sono viscerali e piuttosto enfatizzate. È come se ti trovassi in un vortice di molte novità difficili da gestire la cui narrazione non è lineare, per questo abbiamo giocato molto col montaggio che definirei quasi sensoriale. A livello tecnico ho cercato di diversificare i due mondi: quello degli amici, in Veneto, raccontato con macchina a mano e riprese più libere, mentre quello delle opportunità romane, più inquadrato con inquadrature fisse e centrate ma anche improvvisi cambi di ritmo.

Nel film, il viaggio fisico di Max — tra treni, città e spazi sconosciuti — diventa riflesso del suo viaggio interiore? Quanto sono legati questi due movimenti?

In realtà credo che il personaggio di Max sia sempre un passo indietro agli eventi, appunto perché sovrastato da scelte che ancora non riesce a prendere. E’ un po’ uno personaggio-spettatore fino a che non capirà davvero cosa vuole per sé e per la sua vita. Però la domanda è interessante perché viaggio fisico e interiore sono senza alcun dubbio strettamente collegate e se ci pensiamo bene ci succede spesso, anche con cose apparentemente futili. Ricordo diversi viaggi che mi hanno portato poi a momenti di svolta interiori!

Quali osservazioni o esperienze personali ti hanno guidato nel raccontare il confine tra due mondi così distanti: la provincia e l’universo delle opportunità incarnato da Robert Price?

Ovviamente ho cercato di immedesimarmi nei personaggi e ho voluto raccontarli senza giudizi di sorta, fanno ciò che fanno perché ci credono davvero e questo li rende più realistici. Diciamo che ho cercato di raccontare i ragazzi per come li vedo e con i ricordi di quando avevo la loro età, mentre per il mondo di Robert Price (James Franco) ho pensato fin dalla prima lettura della sceneggiatura che un attore americano avrebbe rafforzato la credibilità del contesto: si fa ancora fatica in Italia ad associare talenti nostrani agli ambiti hi-tech e spesso in un film non si ha il tempo giusto per rendere il contesto totalmente credibile e certe scelte possono influire sulla ricezione dello spettatore.

Nel film gli “squali” sono i giovani che non possono fermarsi. Cosa significa per te questa metafora nella quotidianità dei ragazzi di oggi?

In realtà abbiamo cercato di capovolgere lo stereotipo dello “squalo” come comunemente lo intendiamo, ovvero quello del predatore degli oceani. Qui gli squali sono i giovani che devono muoversi costantemente e non possono rimanere fermi. O così almeno credono!

Quali strumenti visivi hai scelto per rendere tangibile ciò che normalmente resta invisibile — pressioni, emozioni, tensioni interiori?

Come dicevo prima ho cercato di portare il mio sguardo al servizio delle emozioni di un ragazzo di 19 anni, con tutte le contraddizioni interne del caso. Visivamente con il direttore della fotografia Andrea Reitano abbiamo immaginato il Veneto come una sorta di Far West italico, dove poter raccontare la noia e il caldo estivi; Roma invece è più una città delle opportunità, un po’ come viene comunemente raccontata Milano nell’immaginario collettivo. Nel montaggio di Gianluca Conca sono presenti dei flash che ricorrono per tutta la durata del film a rappresentare quella fase della vita che vive le emozioni intensamente e che spesso arrivano così, senza preavviso.

Vorrei chiudere con la tua formazione: quali elementi di continuità o di rottura ritrovi in Squali rispetto ai tuoi lavori precedenti? E c’è un sogno nel cassetto che vuoi anticiparci?

Credo che chiunque abbia visto i miei lavori precedenti troverà una continuità visiva e di linguaggio registico, ovviamente negli anni si cresce e ci si evolve. Ci sono diversi elementi ricorrenti nei miei lavori ma anche alcuni punti di rottura dovuti alla storia raccontata: ho cercato di raccontare la storia con un linguaggio che fosse vicino al target di riferimento, i giovani.

Per quanto riguarda i sogni nel cassetto ne ho tanti! Il primo che mi viene in mente è portare alla luce un film che è stato scritto da Costanza Bongiorni, sceneggiatrice con cui collaboro da tempo, e che mi emoziona ogni volta che lo rileggo. É un romantico legato ai ricordi e con elementi legati al cinema del fantastico.