Ho visto recentemente la serie Netflix Adolescence. L’ho guardato in primo luogo per ragioni professionali, poiché i temi che tratta sono coerenti con quello di cui mi occupo quotidianamente per lavoro. Devo confessare che ho fatto molta fatica ad arrivare alla fine della serie. Ho preso molti appunti, cercando di mantenere un punto di vista ragionevolmente obbiettivo, ma temo di non esservi riuscito appieno.

Essendo cresciuto spiritualmente anche nella tradizione indiana, so che dopo l’ashram dello studente viene l’ashram dell’uomo di famiglia, quello in cui mi trovo oggi. Sono un marito e un padre. L’una e l’altra sono le esperienze che più di ogni altra hanno segnato punti di svolta assoluti nella mia vita. Non mi sono mai pentito di avere formato una famiglia insieme a mia moglie, e non ho mai desiderato di non essere diventato un padre.

Adolescence parla essenzialmente di figli, genitori, e insegnanti. Non sono ancora riuscito a capire se la trama è stata scritta apposta per essere spudoratamente misandrina oppure se, come sospetto sia più plausibile, è stata sviluppata per mostrare alla società britannica ciò che essa ha permesso a sé stessa di diventare.

La selezione dei ruoli per gli attori non è casuale. Ogni personaggio di spessore, ogni personaggio significativamente positivo o in una evidente posizione di potere è nero. Non c’è niente di male nella scelta in sé, ma poiché il casting è un processo deliberato è importante sottolineare che si tratta di una scelta precisa o della produzione o dei creatori della serie.

Si può notare, en passant, anche l’uso della tecnica della ripresa continua, resa celebre da Alfonso Cuarón in I figli degli Uomini e ripresa da Sam Mendes in 1921, entrambe produzioni britanniche.

La serie si apre con una conversazione apparentemente casuale tra un ufficiale di polizia e il figlio adolescente. È fatta per mettere in luce il rapporto sano tra padre e figlio. L’ufficiale è relativamente giovane ma già in una posizione di potere. È di origini afro, molto forte, sicuro di sé. Poco istanti dopo, la scena si trasforma in una irruzione di una squadra tattica di Scotland Yard in casa di una famiglia piccolo borghese. La porta viene abbattuta con un ariete a mano, gli agenti setacciano le stanze con armi di piccolo calibro in mano, e alla fine arrestano il sospetto: un ragazzino tredicenne chiamato Jamie. Il sospettato viene ammanettato, separato dalla famiglia e portato in centrale.

I dialoghi tra gli adulti e l’adolescente sono scritti in modo da mettere in luce come tutto quello che succede sia completamente al di là dalla sua capacità di comprensione. Gli viene chiesto ripetutamente se è consapevole delle conseguenze di quanto sta accadendo. Gli vengono rivolte una serie di domande parte della procedura standard, tra le quali “hai mai cercato di ucciderti?”. Tutto questo accade senza la presenza di un genitore. Avevo già la pelle d’oca. Entro la fine dell’episodio diventa chiaro che Jamie è il responsabile di un crimine violento. Durante l’interrogatorio vengono presentate prove inconfutabili, dopo che gli agenti che hanno condotto l’arresto cercano ripetutamente di manipolare il ragazzo, assistito da un legale e dal proprio padre, perché ammetta quello che ha fatto o almeno si tradisca.

Il secondo episodio si apre nella scuola frequentata da Jamie. Tutti i personaggi bianchi della scuola sono caratterizzati negativamente. Due amici di Jamie, discutono della reazione delle famiglie al crimine di cui Jamie è accusato. Il commento del nero è “mio padre è andato su tutte le furie”, quello del bianco è “ai miei genitori non poteva importarne di meno”. Tutti gli insegnanti bianchi della scuola sono incapaci di controllare la propria classe, privi di carisma, come rassegnati all’inevitabile. C’è un atto di violenza da parte di una studentessa nera nei confronti di Ryan, uno degli amici di Jamie. L’unico commento degli altri è “Ryan è stato menato da una femmina”.

Il momento più importante dell’episodio, o almeno quello che probabilmente era nelle intenzioni degli sceneggiatori, è il dialogo tra l’ispettore nero e suo figlio, anch’egli studente nella scuola di Jamie. Senza girarci troppo intorno, il figlio dice “visto che state girando a vuoto, ti spiego io cosa succede”. E gli elenca una serie di banalità abbastanza innocue sulla “manosfera”, la regola dell’ “80 e del 20”, il significato degli emoji usati nei messaggi fra adolescenti. Il senso di tutto questo sarebbe che Jamie, come tanti altri, è stato manipolato da quegli influencer che propongono una visione dell’uomo improntata alla prevaricazione e alla violenza. Il problema è che non c’è nessuna ulteriore indagine da parte delle forze dell’ordine, nessun approfondimento, nessuna verifica delle fonti. La spiegazione della “manosfera” viene presa per buona dagli investigatori, e presumibilmente ci si aspetta che gli spettatori facciano lo stesso.

Alla fine, l’amico bianco di Jamie scappa da scuola. L’ispettore nero lo insegue, lo blocca in un angolo, gli estorce una confessione, e quel punto per Jamie non c’è più scampo. Viene alla luce che è stato continuamente vittima di cyberbullismo proprio da parte della ragazza che ha finito per uccidere, ma questo non sembra importare a nessuno.

Il terzo episodio di Adolescence contiene delle sequenze che ho trovato semplicemente oscene. Jamie è in regime di detenzione e partecipa a una serie di colloqui con una psicologa che ha il compito di esaminarlo e preparare una relazione per il giudice. Il comportamento della psicologa è spudoratamente predatorio: gioca continuamente con la stabilità della psiche di Jamie, riuscendo un paio di volte a scatenare dei comportamenti aggressivi in cui il ragazzo esprime quello che dovrebbe essere un atteggiamento misogino. Gli rivolge continuamente domande come “come ci si sente ad essere un uomo?”. “Quale credi che sia la quantità normale che qualcuno della tua età dovrebbe fare a livello sessuale con un ragazzo o una ragazza?”.

È chiaro dall’interazione che i colloqui con la psicologa sono preziosi per Jamie perché lo sottraggono a una quotidianità che trova soffocante e spaventosa. La psicologa incoraggia la dipendenza di Jamie fino a quando non ottiene ciò che vuole, poi si trasforma diventando a tutti gli effetti un’estranea.

Nell’episodio conclusivo, la famiglia di Jamie fa i conti con lo stigma sociale del suo processo. C’è una scena in cui il padre viene avvicinato da un commesso bianco, magro, senza muscoli, con gli occhiali, cioè il polo opposto della figura potente e vigorosa dell’ispettore, che gli sussurra che dovrebbe ricorrere alla forza della rete perché si tratta evidentemente di un caso costruito ad arte per uno scopo ideologico. Quando il padre viene sopraffatto dalla pressione, vandalizza il proprio furgone invece di danneggiare altri.

Ho letto diversi commenti, tutti di una parte ideologica e politica ben precisa, in cui si metteva in luce come Adolescence fosse un invito agli uomini e ai ragazzi a mostrare “vulnerabilità” e a rifiutare l’uso della violenza. Se è così, non è chiaro perché l’ispettore capo usi la violenza e l’aggressività per estorcere la confessione che inchioda Jamie, perché la compagna di classe nera aggredisca fisicamente uno degli amici di Jamie, apparentemente senza conseguenze, e via dicendo.

Io l’ho trovato una descrizione terrificante dell’impotenza delle autorità, comprese quelle scolastiche, nel prevenire il verificarsi di atti come questi. Perfino l’Europa si sta accorgendo che nel tentativo di porre rimedio alla “disparità di genere”, ha messo in atto politiche che per anni hanno penalizzato i maschi. L’insorgere di fenomeni come la cosiddetta manosfera non sono banalizzare come un retaggio della “cultura patriarcale”. In una società realmente sana ed egualitaria, non avrebbero seguito perché non avrebbero ragione di esistere.

I genitori vengono rappresentati come ugualmente incapaci di capire il mondo in cui vivono i loro figli, i meccanismi che regolano le loro interazioni, i mezzi attraversi i quali queste interazioni hanno luogo. C’è un importante dibattito in corso sull’opportunità di dotare i figli di smartphone e accesso a internet. Per parte mia, non ho problemi a dichiarare che sono dalla parte più tradizionalista, per cui uno smartphone ha senso quando ce n’è bisogno, non quando lo si desidera, ma il punto è un altro. Prima o dopo, il punto fondamentale è che i genitori abbiano costruito le condizioni perché il dialogo con i figli non si interrompa.