La premessa del film è la metafora che lo contiene e quindi dice come stanno le cose. C’è un seme, quello del fico sacro, che si nasconde nella cacca degli uccelli, piomba dall’alto, invisibile, sopra un altro albero, ignaro dell’ospite che va a insinuarsi tra i suoi rami e sulle sue foglie. Le conseguenze saranno fatali. Il seme si apre, cresce in silenzio, si dipana, si estende come un boa constrictor lungo il tronco e infine soffoca l’albero che l’ha ospitato. Un seme nascosto negli escrementi del più libero degli animali, un uccello con il dono delle ali, porta con sé la rovina.
C’è della magia, ancorché nera e tenebrosa. Per questo mi viene in mente Macbeth, l’antieroe di Shakespeare.
Nel nostro caso è un giudice dell’attuale società iraniana appena promosso.
A sua moglie confessa che non aveva un’idea precisa della sequela di condanne che gli sarebbe toccato emettere ogni giorno, condanne “à la carte”, senza il tempo di studiare il singolo caso come si dovrebbe, in nome dell’etica e della moralità del proprio ruolo. Ma sono tempi difficili, la società è inquieta: i giovani studenti protestano, le studentesse lo fanno sistematicamente senza il velo d’ordinanza. Insomma c’è in atto una rivolta contro i principi e il costume della teocrazia al potere. Perciò bisogna giudicare in fretta. Intanto la polizia manganella, spacca ossa e arresta senza andare tanto per il sottile. E poi a chi tocca decidere le condanne?
A lui, che deve mantenersi in sella e non perdere di vista il gradino successivo della scalata al potere. Il prezzo è che le giornate di lavoro si allungano, turni massacranti, da mal di testa. Certo, sempre meno dolorosi dei mal di testa di chi ha il cranio fracassato e magari rischia di perdere un occhio, o di farsi anni di prigione, se va bene. Ma tant’è, a ognuno il suo.
A casa, il nostro tormentato giudice è atteso fino a tardi dalla fedelissima moglie, mentre le figlie non lo vedono più nemmeno a cena e sono già a dormire.
Una frequenta la ribollente università e l’altra è ancora al liceo. Sono giovani, vorrebbero emanciparsi anche senza fare scenate, o andare in escandescenza, insomma sono due brave figliole che iniziano a sentire stretti gli abiti che portano addosso e soffrono sempre di più i richiami all’ordine della madre, anch’essa giudice implacabile contro la minima infrazione alla regola.
Purtroppo, lo dico sul serio, nasce in noi un sorriso commiserevole, un senso d’imbarazzo nel valutare l’entità di quelle manchevolezze e il bigotto tran tran della loro vita domestica. Siamo figli del neocapitalismo o no? Insomma, può, al giorno d’oggi, una guagliona quasi maggiorenne dover rivendicare il diritto di tingersi le unghie di blu per poi sentirsi rispondere da sua madre: “deciderà vostro padre”? Vedere per credere. Ma c’è di più. Ci sono le immagini di repertorio delle rivolte nelle strade, il materiale pulsante della repressione in atto oltre le pareti domestiche. Immagini prese in prestito dai cellulari di chi ha potuto filmarle. Materiale che scotta.
E poi c’è il dietro le quinte brutale del film. Basti pensare che al regista Mohammad Rasoulof, già a suo tempo condannato dal governo iraniano per i suoi lavori precedenti, è stato revocato il passaporto. È dovuto fuggire clandestinamente dal Paese, insieme ad alcuni tecnici e alle attrici che hanno recitato a capo scoperto, per presenziare all’anteprima del suo film a Cannes il 24 maggio dello scorso anno.
Lì almeno ha ricevuto il premio speciale della giuria. Le famiglie e i membri della troupe rimasti in Iran sono stati sottoposti a minacce e pressioni, mentre Soheila Golestani, l’attrice che interpreta la moglie del giudice, è stata arrestata. Ennesima prova che i giudici sono alacremente al lavoro.
Il nostro, intanto, perde il sonno e anche la pistola che gli è stata affidata nel caso debba difendersi dagli attacchi dei rivoluzionari. Quella pistola è lo scettro, il simbolo del suo potere, della posizione che ha raggiunto, tangibile nel manico ed effimero al tempo stesso, se non te lo ritrovi in tasca quando occorre.
È una perdita grave, una manchevolezza, questa sì, che rischia di compromettere la sua credibilità e la sua carriera. Quella pistola, che lui giurerebbe di aver lasciato nel cassetto del comodino, va ritrovata. La cerca ovunque, ripercorre i dettagli degli spostamenti, ma senza esito. Dunque, qualcuno deve averla presa, ma chi l’ha presa?
Macbeth giunge snervato al fatale confronto con le tre streghe; che non vivono in una landa desolata, ma dentro le stanze del suo appartamento. Non gli resta che interrogarle, i metodi li conosce, sono il suo mestiere. La svolta geniale del film comincia qui.
È stata la strega che gli chiede l’appartamento più grande, con una stanza per ognuna delle figlie e magari anche la lavastoviglie per non rovinarsi le mani col detersivo? Oppure quella che lo implora d’intercedere per una sua amica dell’università coinvolta in una manifestazione, presa a mazzate dalla polizia e poi sparita nel nulla? E se fosse invece l’acqua cheta, quella più giovane che reclama lo smalto blu e magari la libertà di godersi un po’ la vita?
L’arrivo strisciante, inevitabile, dell’altrove moderno, l’alieno che s’infila negli stipiti delle porte e delle finestre, che scivola nei microchip dei cellulari, quel portatore di sacrilegi criticabili quanto si vuole, ma anche di scelte libere che scavalcano le mura della teocrazia, questo è il nemico da estirpare. Può bastare un giudice su di giri per le paturnie ad arginare un simile fenomeno, oppure il Macbeth spodestato dovrà sprofondare tra le vestigia di una civiltà perduta?
Basta così, i film bisogna andarli a vedere per ripagare il rischio che costano, e direi che questo è un caso esemplare in proposito. Occorre incrementare le dosi di spettatori che garantiscano al cinema la sua sopravvivenza, anche a discapito delle piattaforme, quel Moloch che ogni sera ti convince a piazzarti sul di vano di casa.
Il cinema va protetto come una specie in estinzione, preservando il suo inestimabile contributo a quello che resta della nostra cultura.