Ardere, ma senza bruciare. È da giorni che mi rimbomba in testa questa frase. Me l'ha detta un mio amico sacerdote (che però è anche psicologo) in relazione alla notizia di un parroco morto suicida in Italia. Don Matteo Balzano aveva solo 35 anni e si è tolto la vita nella sua casa parrocchiale. Non si sa cosa l'abbia spinto a tale scelta. Le persone guardano a categorie di persone come quella dei sacerdoti come a degli infallibili guaritori. Ma anche loro sono umani, anche loro sono fallibili.

Bisogna sì ardere, di passione, di voglia di realizzarsi, di essere utile per il prossimo, ma non bisogna bruciare, anzi bruciarsi. Da anni si parla dell'importanza della salute mentale. Il cosiddetto burn out indica proprio l'incendio della propria mente in seguito ad un forte periodo di stress. Condizione che nasce soprattutto in ambito lavorativo e che poi pregiudica l'intera esistenza privata. La condizione lavorativa, ad oggi, è fattore determinante del livello di considerazione che si ha della propria vita.

La realizzazione lavorativa, spesso, fagocita ogni aspetto del quotidiano. Relazioni, sport, hobby. Non c'è spazio per “distrazioni” durante la corsa all'oro. Già nel 2014 uno studio a firma dei ricercatori Eva Selenko, Anna Mäkikangas e Cristopher Stride su 400 impiegati britannici, suggeriva che l'instabilità lavorativa poteva avere ripercussioni forti sulla vita proprio come una performance lavorativa. Se non hai stabilità lavorativa, quindi, non hai neanche una stabilità nella tua vita privata e questo comporta una vera e propria inefficacia a condurla in maniera ottimale. E non è un caso che quando si parli di stabilità la prima discussione che venga in mente sia quella che riguarda il lavoro. Per avere un lavoro stabile si è disposti a partire, ad allontanarsi e, spesso, a lasciar da parte le relazioni.

L'emigrazione interna ed estera è un'attività sociale che l'Italia conosce bene. C'è sempre stata. Quello che è cambiato adesso è il modo di gestire le relazioni. Prima si partiva per lavorare, per sopravvivere e per sostenere parenti, moglie e figli. Ora, quando si parte, spesso, non si ha già una stabile relazione affettiva, si è sostanzialmente “liberi” di viaggiare per sé stessi e il proprio futuro. Nessuno può giudicare quale sia la scelta migliore. Ogni persona sa da cosa parte e perché lo fa. Ogni individuo sa a cosa rinuncia e quanto può soffrire.

La discussione, però, è di carattere sociologico. L'attuale società spinge le persone, perlopiù giovani, a considerare come preminente la condizione lavorativa rispetto a tutto il resto. E, in un periodo in cui l'offerta lavorativa vacilla, la società costringe le persone a scegliere tra il proprio futuro e la propria stabilità affettiva.

Il mondo richiede di essere impegnati, di successo, brillanti ma non si impegna a sua volta per offrire le condizioni per farlo nella propria terra. Bisogna evitare di essere soli ma allo stesso tempo per sopravvivere si è obbligati a lasciare tutto e tutti. Sono le contraddizioni di una società moderna che si globalizza, si digitalizza ma che forse si disumanizza. E così si allungano le fasi della vita e cambia la visione delle persone.

Costruire il proprio futuro diventa opera di ingegno e fortuna. Una corsa in cui bisogna equilibrare tempo e chilometri con i sentimenti.

Ecco qual è la sfida dei nostri tempi: ritrovare l'identità sociale, proteggere la qualità della vita senza dover rinunciare ai sogni e al lavoro. Perdere uno solo di questi elementi può lasciare senza riferimenti. E non conta l'età, non c'è differenza di sesso o di condizione. La categoria del “disoccupato” può schiacciare chiunque. Giugno, da qualche anno, è il mese per la consapevolezza sulla salute mentale dell'uomo.

Quest'anno, in poche settimane a ridosso di giugno, solo in Italia si sono contati almeno 5 suicidi. Uno proprio sul lavoro avvenuto in provincia di Avellino, uno all'aeroporto di Orio sul Serio dove un ragazzo ha deciso di togliersi la vita drammaticamente gettandosi nel motore acceso di un aereo, uno a Napoli dove un anziano ha ucciso il fratello malato e poi si è suicidato, uno a Milano dove un uomo ha ucciso la madre e poi si è suicidato e, infine, il caso di don Matteo Balzano. E i casi, probabilmente, sono conteggiati al ribasso.

In Italia, solo nel 2024 si sono registrati 4000 suicidi. Nel mondo, secondo l'OMS, in 45 anni il tasso di suicidi è aumentato del 65%. Secondo l'Istituto Superiore di Sanità la scelta del suicidio è “la risultante di molti fattori (genetici, biologici, individuali e ambientali) e la malattia psichiatrica non è l’unico fattore di rischio, pertanto le politiche di prevenzione del suicidio non possono essere confinate al solo ambito sanitario ma devono tener conto anche dei potenziali fattori di rischio a livello di contesto sociale, economico e relazionale del soggetto.

Inoltre, devono essere considerati anche gli effetti destabilizzanti sulle persone con le quali il suicida era in relazione; i survivor, cioè coloro che sono stati colpiti da un lutto in seguito ad un suicidio, presentano più frequentemente senso di colpa, e sentimenti di rifiuto e abbandono rispetto a chi ha perso qualcuno per cause naturali.

Se si prova a cercare la parola “suicidio” sul web, in risposta esce la frase “possiamo aiutarti” con un numero verde in sovrimpressione. Un piccolo passo significativo che però deve essere solo la punta dell'iceberg di un complesso sistema di prevenzione del suicidio. Nel mondo sono ancora pochi i Paesi che hanno attuato un pervasivo sistema di prevenzione in questa direzione.

Ove mai la scienza non lo confermasse, la realtà sociale lo chiarisce: la società di oggi non spinge più per il benessere mentale e relazionale. Non si è sbagliati se si è in ritardo, non si è sbagliati se non si ha ancora un lavoro stabile, non si deve rinunciare ad avere una bella persona al proprio fianco, si può sempre rimediare ad un errore. Ripetiamo costantemente. A noi stessi e agli altri.

Ardere, ma senza bruciare.