Agostino è arrabbiato. E non riesce ancora a farsene una ragione. In questo momento sta lavorando, è concentrato, la rassegnazione lo fa sembrare calmo, ma dentro di sé rimbomba ancora la voce corrosiva di un vecchio rancore.

Non è colpa sua, o almeno non è stata solo colpa sua, dato che rende tutto più difficile da accettare, per questo continua ad essere arrabbiato in silenzio. Non lo dà a vedere, o forse sì.

Oggi deve trivellare un piccolo muro di cinta, gliel’ha chiesto il signor Giorgio che ha appena fatto pace con Martina e gli farà aprire di nuovo quel piccolo varco nel tramezzo del suo giardino, così lei potrà di nuovo sconfinare, arrivare fino alla piccola fontana, dare acqua alla pompa e trascinarla per far piovere, fino all’altro lato, lucciconi di pozzo sulle sue camelie.

Non appassiranno più per il litigio inutile di due vicini di casa, né per una questione di confine. È peccato sfiorire e mancare di bellezza, e solo per l’assenza di gocce d’acqua e concordia. L’armonia è una cosa semplice.

Ma affinché l’idillio tra Giorgio e Martina possa essere ricreato, Agostino deve rompere, deve distruggere pietra e muro, deve ricavare la giusta apertura per un passaggio e, per lasciare un lavoro pulito, dopo deve raccogliere le macerie.

Così come non ha fatto con le sue. Non ha mai voluto.

Agostino è un muratore, costruisce e ripara ma soprattutto demolisce. È necessario per definire e liberare un altro spazio, una cosa nuova sì, ma deve lasciare a terra, tutto intorno e fino alle aiuole, lo spadroneggiare delle rovine, pezzetti di un muro che doveva essere resistente e inespugnabile, come saper amare.

Lui invece non raccoglie neanche una scheggia. Perché dovrebbe? Nessuno lo ha fatto con le sue di macerie. Agostino è stato trivellato da un rifiuto improvviso, da un cambiamento per lui incomprensibile, quel NO racchiuso nell’imbroglio della sua Madame, per la quale aveva provato a costruire un meraviglioso castello di fate.

Ci aveva messo dentro un sacco di cose da custodire. Per lei aveva cercato di imparare persino l’essere puntuale e rispetto ad ogni cosa, che fosse il tempo, l’ordine, la responsabilità di sé stesso, aveva cercato di essere all’altezza, sempre e secondo la felicità di lei, di indossare sempre un vestito buono, camicia e golfino di maglia rasata, anche quando si trattava di dover trivellare un muro.

In tutto questo cercare di essere migliore, cosa le abbia fatto di male, lui non lo sa. O forse non è riuscito a comprenderlo, o forse non ha fatto nulla, né nel bene né nel male, ed è stato proprio questo il problema.

Solo lui conosce tutti i suoi sforzi, tutte le stanze che ha tentato di riempire di magia e che adesso sono stanze vuote e non sono più sue. Ha dovuto restituire il castello, non può abitarci più.

Perché mai dovrebbe essere lui a raccogliere quelle rovine? Lui che ha faticato per costruire. Così guarda da lontano, arrabbiato, osserva Madame, di nascosto, scruta nello specchio di lei, ed è arrabbiato perché lei invece non ha mai guardato bene nei riflessi del suo.

Sente che quel castello è ancora suo, pensa alle cose che ci ha messo dentro, lascia stare le macerie a terra finché qualcuno, prima o poi, non gli chiederà di raccoglierle, portarsele via per sempre.

L’opportunità di una ricostruzione. È rimasto qualcosa da ricostruire.

Ed è lì, tra le macerie dei giorni, che Agostino continua a muoversi, a lavorare, ad attraversare la polvere, per diradare la nebbia calata su ciò che prima era stato inteso.

Bisogna lasciare macerie, per essere invitati a raccogliere e ricostruire. È la speranza, l’unica, di tornare ad abitare nel suo castello di fate.

Ed è ciò che sembra succedere quando Giorgio si avvicina per chiedergli, prima che vada via, di ripulire per favore la sua aiuola, ci sono troppe scorie, sembrano storie scomode, non si possono leggere, sono come parole disordinate, pagine sparpagliate, dicono che c’è ancora confusione, sono tracce di una guerra che nel cuore di Giorgio non c’è più.

È allora che Agostino compie la sua rivolta di pensiero, anche lui non vuole più rimanere intrappolato nel rancore, nella delusione o nell’ingombro delle pietre. Ormai, dice fra sé e sé, a cosa servono tutte quelle parole urlate e fatte in mille pezzi? A cosa servono se sono figlie di pensieri arrabbiati, di paure ancora non avverate.

Agostino si alza dal bordo dell’aiuola di Giorgio, si sente al centro di un grande giardino, niente macerie intorno, solo alberi d’ulivo, e per ognuno sente il maturare di una parola nuova.

Poi abbassa lo sguardo amareggiato, i cocci sono tutti ammucchiati ai suoi piedi. Deve portarli via. Si abbassa e li raccoglie, uno per volta, ma non per rimuoverli. Li rimette insieme come fossero un’invocazione, uno sopra l’altro sembrano la scala di una grande preghiera: ormai, torna a dirsi, a cosa servono le parole? Servono le preghiere, il desiderio di desiderare tutto il bene, e coccio dopo coccio Agostino costruisce la sua supplica di mattoni, che pare salire dalla terra di un giardino fino a un cielo pieno di azzurro, senza nuvole e senza macerie.

Oggi Agostino è meno arrabbiato. Prega.

Quello che serve è solo una piccola storia.
Una parola semplice. Un nuovo significato.
Un piccolo esempio. La sua grande nascosta verità.
L’incipit, qualche passo, la forza di compierlo bene e poi l’arrivo.
A ricostruire ogni giorno un castello di fate, senza rancore.