La Galleria Secci è lieta di annunciare Exercises in ruins, prima personale italiana dell’artista libanese Omar Mismar (1986) nella sede di Via Olmetto a Milano. La mostra rappresenta il secondo appuntamento del progetto Biennale Novo, ciclo espositivo curato da Marco Scotini e inaugurato da Doruntina Kastrati nell’aprile scorso.
Dopo il riconoscimento internazionale ottenuto con gli straordinari mosaici esposti alla 60ª Biennale d’Arte di Venezia, Foreigners everywhere, Omar Mismar presenta ora una nuova serie di lavori che si sviluppano attraverso differenti media e un’ampia serie di temi, solo apparentemente distanti, ma tutti riconducibili a un unico denominatore: il carattere politico del rapporto tra desiderio e assenza, dove il desiderio va letto come impossibilità della presenza.
Emerso artisticamente dal dibattito sulla relazione tra politica e media che ha animato le insorgenze sociali della cosiddetta rivoluzione araba, Omar Mismar concentra la propria ricerca sulla produzione delle immagini in rapporto al conflitto e alle sue rappresentazioni. Ciò che Mismar è andato elaborando negli ultimi anni è una “estetica del disastro” (secondo la sua stessa definizione) in cui mette in discussione la veridicità dell’immagine documentale, proponendo un’alternativa all’iperrealismo dei nuovi dispositivi visivi. Le rovine del disastro in Mismar non sono tanto quelle di un’esplosione visibile quanto il risultato di un’assenza, di un fallimento, di una rottura meno percepibili.
L’impiego della tecnica musiva nell’opera di Omar Mismar, che riproduce manufatti di archeologia ma anche coperte dei rifugiati e foto di cronaca incontrate sul web, prende forma nel 2015, quando l’artista entra in contatto con i Monuments men della Siria, un gruppo di conservatori del Museo Ma’arrat al- Numan, impegnati volontariamente nel salvare mosaici antichi minacciati dai bombardamenti del regime di Bashar al-Assad. Tra loro c’è Abou Farid, ispettore archeologico e conservatore, che condivide con Mismar parte del suo archivio fotografico. Da qui nascono ora l’ispirazione per mosaici che mettono in forma foto questa resistenza culturale, ora il video Abou Farid’s War (2021), in cui Mismar dialoga attraverso videocall con Farid su conservazione, distruzione e circolazione delle immagini in guerra.
Ma le arcaiche tessere dei mosaici sono anche assimilabili a singoli punti di colore come le migliaia di pixel dell’immagine digitale. Mismar non ci fa mai dimenticare che dietro ogni sua opera le fonti e i referenti sono quelli dell’uso quotidiano del web. Solo che, attraverso il divario temporale delle traduzioni musive, l’artista mette in scena non solo lo scarto tra il carattere arcaico dell’autoritarismo contemporaneo rispetto all’ipermodernità dei new media, ma anche una distanza relazionale che è quella stessa connaturata alle tecnologie contemporanee.
Quando, nelle ultime due sale dello spazio espositivo, incontriamo mosaici come quelli della serie Torsos (2025) che ritrae frammenti di busti nudi maschili tratti da app di incontri come fossero ritrovamenti archeologici, comprendiamo che si tratta di una stessa esperienza dell’assenza e del desiderio. Proprio come quando ci troviamo di fronte al neon rosso della serie The path of love (2013) che riduce a traccia luminosa la distanza percorsa dall’artista per arrivare a un appuntamento notturno a San Francisco con uno sconosciuto trovato attraverso Grindr, l’app di geolocalizzazione gay.
App che si bloccano, utenti che scompaiono offline, distanze che impediscono il contatto reale. Questi tentativi di avvicinamento sono spesso interrotti da incidenti digitali per cui si crea una trama di tracce parziali, interruzioni e desideri irraggiungibili. Il disastro è l’impossibilità della relazione, il venir meno della comunicazione ma anche l’irriducibile desiderio che essa avvenga.
Si comprende così la prima grande sala dell’esposizione Exercises in ruins, dove tre imponenti mosaici fanno riferimento al dramma in corso a Gaza. I pannelli musivi raccontano la storia dell’oliveto di Salman al-Nabahin e di suo figlio Ahmad nel campo profughi di Bureij. Durante la difficile coltivazione degli olivi, Salman scopre sotto terra un mosaico bizantino.
Olive in the sun presenta una parte di quel mosaico originale, con un’ombra proiettata sopra a ricordare la strategia israeliana di piantare pini per cancellare la memoria storica del luogo e conservare l’immagine dell’oliveto, ormai distrutto come mostrano le immagini satellitari. In Ahmad with the sponge, il figlio Ahmad tenta di riportare alla luce i colori vividi del mosaico. Infine, in Salman in a squat, il proprietario dell’oliveto è accovacciato sopra il mosaico e ci appare sereno, come una presenza sospesa, mentre restiamo ignari del destino di lui e di suo figlio sotto i bombardamenti. Tutte queste immagini sono così forme visibili in assenza.