Capita spesso di dire di un film, “l’ho già visto” e di lasciare che quel ricordo si srotoli insieme ad altre pellicole nella nostra personale cabina di proiezione. Ma i film, come i romanzi che ci hanno appassionato, vanno rivisti perché sono disseminati di dettagli e segreti che quasi certamente non avevamo colto. Si può forse leggere Il Processo di Kafka una sola volta? Lo stesso accade se si rifà da capo il percorso di Harry Caul, il protagonista, scoprendo con gioia e stupore che cos’era il Cinema degli anni Settanta.
Rimasterizzato a 50 anni dalla sua uscita, complice la morte di Gene Hackman, forse emblematica coincidenza, quindi destino, ecco di nuovo nelle sale il capolavoro di Francis Coppola, una creazione originale dalla scrittura in poi. Già, la scrittura. Un periplo disseminato di indizi così abilmente lasciati in mano allo spettatore perché ne disponga a suo piacimento, ignaro del loro reale significato. Un meraviglioso equivoco che somiglia in modo impressionante alla vita, quella di Harry di sicuro, ma probabilmente anche alla nostra.
Se sei una specie di spia a pagamento, un anonimo segugio proiettato in affari che non ti riguardano e abiti da solo; se i tuoi sensi di colpa giacciono seppelliti dietro il volto impassibile che mostri al mondo; se l’unica donna che ti aspetta nell’appartamento di cui hai una copia delle chiavi non ha nemmeno il diritto di sapere che fai nella vita; se i tuoi concorrenti nella ricerca della tecnologia migliore per incastrare gli ignari sono disposti a tutto per fotterti e aspettano solo il momento in cui ti distrai, hai una sola chance, un unico amico pronto ad aspettarti e a raccogliere le schegge del tuo dolore: il sassofono.
Imprevedibile che un tipo come Harry Caul suoni il sax andando dietro ai suoi dischi di jazz preferiti, eppure è l’unica volta che lo vediamo in una versione intima, vulnerabile e dedicata a un altrove che solo lui conosce.
Ed è anche sorprendente, ma in fondo inevitabile, che proprio l’ultimo incarico lo spinga a tentare un riscatto col proprio passato di spia, inconsapevole delle conseguenze che il suo lavoro ha avuto sulla vita degli altri. Che cos’è che lo tormenta fino a rischiare un azzardo del genere? Cosa si nasconde nel profondo di un simile personaggio devoto a una Madonna di plastica, uno che va a confessarsi cercando sollievo al losco lavoro di cui è maestro, quale insensato bisogno di dignità?
La grandezza dei pochi che riescono a cogliere la delirante, illogica maschera che modelliamo per resistere alla violenza del mondo, consiste proprio in questa capacità di rivelarne il cuore, l’intraducibile essenza che fa di un essere umano l’enigma di questa Terra. Coppola appartiene alla ristretta élite, ed è per questo che ho avvicinato il suo film a Kafka, all’immenso paesaggio desolato che lo scrittore praghese ha descritto. Mi ha colpito che Robert Duvall, presente in una fugace sequenza, seppure cruciale per il senso del film, non compaia neanche nei titoli di coda.
Mi sono chiesto il perché, dato che lui e Coppola avevano lavorato insieme nei primi due capitoli del Padrino.
È solo una di quelle premure che gli agenti usano ai loro clienti attori per non far sapere in giro che accettano ruoli così impercettibili, considerando la statura e la fama di Duvall? Non credo, forse è una deformazione professionale, un indizio meschino che non riguarda questo film.
Eppure, anche un dettaglio del genere ha una sua importanza e mi porta a formulare due ipotesi. Una è semplice, lineare: ho partecipato al film, direbbe Duvall, per l’amicizia con Francis, in nome dello spirito dell’epoca, quello che accomunava certi giganti: George Harrison che collabora ad una canzone dell’ultimo disco dei Cream, Badge, senza farlo sapere in giro; o Peter Falk che lavora per la paga sindacale, magari nemmeno quella, per il suo mentore, John Cassavetes, giusto per mettere insieme un paio di capolavori.
L’altra ipotesi riguarda proprio il senso profondo del film, dove personaggi come quello di Duvall sono i pezzi grossi che non si vedono, non figurano da nessuna parte, non lasciano tracce del loro passaggio, appartengono all’ineffabile manipolo dei veri potenti, le mani sudate dei finanzieri che gestiscono il teatro a cui assistiamo come spettatori inebetiti. Gente più discreta ed elegante delle guasconate di Musk, e che nondimeno indossa il potere come una seconda pelle. Per questo, Duvall non sta scritto nei crediti del film. Mi piace credere che sia così, senza nulla togliere all’amicizia tra Duvall e Coppola, che pure è bella, perché l’amicizia sul lavoro è una perla rara, che va protetta.
Sullo sfondo, dietro le finestre chiuse del suo appartamento, col sassofono in braccio, resta Gene Hackman, monumentale, stanco di aver cercato invano la prova che conta, quella che potrebbe fare di lui qualcosa di diverso da chi ha sempre creduto di essere.
Non potevamo avere una dimostrazione più lampante della caratura di questo attore, uno capace di costringerti sempre a cercare nelle pieghe della sua faccia la vena del pensiero e dell’emozione che gli scorre dentro. Uno che ti dice con grande franchezza: non me ne frega niente di mostrarti che cosa provo, a meno che tu non abbia seriamente voglia di fare il viaggio con me.