Massimo, io morirò, come si dice, e tu reciterai i miei versi per l’Europa e per il mondo ne sono sicuro.
E Massimo Verdastro ha recitato i versi di Nino Gennaro. Scrittore, drammaturgo, poeta, attore, saggista, “politico di strada”, fondatore del gruppo Teatro Madre, Gennaro era nato nel 1948, a Corleone.
Massimo, sulla porta della mia stanza c’è scritto: morire non è un motivo per perdere la vita.
Gennaro è morto di AIDS nel 1995, a Palermo.
Massimo, io dico grazie che tu esisti […]. Io muoio felice perché tu mi ami. Io accetto la malattia l’agonia e la morte perché tu mi ami.
Da trent’anni, Nino Gennaro è “senza presenza fisica” (parole sue), ma Massimo Verdastro procede accanto alla sua presenza morale. L’attore e regista romano, diploma nel 1980 alla scuola Teatès di Michele Perriera; l’unicum Gli ultimi giorni dell’umanità con Ronconi nel 1990; un Premio UBU per L’Ambleto di Testori; un lungo sodalizio con Federico Tiezzi e Sandro Lombardi; una compagnia fondata con la cantante Francesca Della Monica, ha diffuso l’opera di Gennaro e ora porta in scena il racconto Ho un progetto: includervi. A ottobre lo ha fatto al Lavoratorio, centro culturale di Firenze dedicato alle arti performative, presentando le lettere che Nino gli mandò e che ha raccolto in Caro amico ti scrivevo.
È anche grazie alla vicinanza umana e artistica con Gennaro che Verdastro è un attore del quale il pubblico si può fidare: pur avendo mezzi artistici sorprendenti non li impiega mai per facili risultati e la sua essenza giunge intatta alle platee. Un azzardo averne la certezza, dopo averlo ascoltato parlare di Gennaro, e permettersi di dirglielo, ma lui risponde che gli fa piacere.
“L’ho amato molto, lo amo tuttora, ho voluto praticarlo sulla scena perché mi sembrava importante farlo conoscere, fare arrivare agli altri la sua esperienza, il suo sentire, questo suo vedere e concepire il mondo. Per lui era importantissimo creare sempre un ponte tra sé e l’altro: lo ha fatto per tutta la sua vita. Anche in morte ha avuto il desiderio di creare ponti ed è stato capace di trasmetterlo a noi viventi che possiamo, a nostra volta, comunicarlo ancora. Nino mi ha sempre commosso, toccato veramente nel profondo. Con una semplicità estrema, la sua parola non ha orpelli e arriva proprio dove deve arrivare”.
“O si è felici o si è complici”. Sai spiegare questa sua frase?
Può essere soggetta a varie interpretazioni e tanti hanno frainteso, come se lui avesse detto: “O si è felici o si è complici della morte”. Ma no! La morte esiste, Nino non la negava, citava Francesco D’Assisi: “Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale da la quale nullu homo vivente pò scappare”.
Nino parlava invece di un sistema di morte, il tardo mafioso impero, che impedisce di realizzare te stesso, i desideri, le ambizioni. Impedisce le libertà individuali. Impedisce la vita perché delega la felicità illusoria al consumo. Lo sappiamo benissimo ed è sempre più vero. I consumi, sosteneva, grondano morte e non dobbiamo essere complici.
“Frocio tu non sei un uomo […] è così che si uccide ogni giorno”, ciclostilato in proprio nel 1981, che impatto ebbe?
E continua: “Arruso, finocchio, spizzicato, aricchione è così che si uccide un uomo”. Le parole montano e producono violenza. Questo testo Nino lo scrisse all'indomani dell’uccisione di un ragazzo, Marco Lucchesi. Io so che Marco si travestiva, andava a prostituirsi, e lo trovarono all’alba, agonizzante, massacrato di botte in corso Vittorio Emanuele a Palermo. C’è una foto incredibile, scattata da Riccardo Liberati, di lui vegliato dalla madre e dalla sorella. Nino scrive il documento, va a corso Vittorio Emanuele, si mette per terra distribuendo volantini. Ecco, era straordinario. E quello scritto è un manifesto di libertà, di lucidità. Un uomo si uccide ogni giorno con le parole che gli si dicono contro e che aizzano i cervelli.
Perché non si educano i ragazzi fin da quando sono piccoli. Ed è un tema attualissimo. Il testo di Nino ha una chiusa molto bella: “La malabestia dell'ignoranza, della disinformazione, degli uomini divisi dall'alto per scannarsi dal basso”.
Sì, Nino Gennaro è stato una figura veramente dirompente che ha messo in atto una rivoluzione culturale, se tu pensi poi al contesto in cui ha vissuto: a Corleone, già nei primi anni Settanta, portava avanti questo nuovo progetto di vita.
Aveva assimilato anche Pasolini.
Dovette lasciare Corleone e tagliare con la famiglia.
La sua vita lì era diventata impossibile, pur amando molto i genitori. Nino aveva un rapporto dialettico col padre, bidello di scuola elementare e uomo di una sensibilità incredibile. L’ho conosciuto, Angelo. Era uno di quegli uomini siciliani sempre sistemati. Invece la madre, che Nino adorava, non gli è stato mai possibile averla dalla sua parte.
Le lettere?
Nino scriveva tantissimo, non solo a me. Sarebbe stato un peccato non diffonderle perché dalle lettere emergono il suo pensiero, la sua sensibilità, la sua interiorità. Ci risveglia tutti, non è soltanto una corrispondenza privata tra noi.
E allora, in occasione del premio intitolato a lui che ho ricevuto quest’anno al Sicilia Queer Filmfest, le ho portate alla luce con il titolo Caro amico ti scrivevo. Lina Prosa, drammaturga e scrittrice straordinaria, che conosceva molto bene Nino, ha scritto la bellissima prefazione. Ho scelto di stampare il libro a Gubbio (dove ha fondato il Teatro dell’Inclusione-Convivio didattico multidisciplinare delle arti sceniche n.d.r.), con tutti giovani bravissimi senza i quali non sarebbe venuto così. Hanno lavorato sotto la mia guida, però pure io ho accolto le loro proposte.
Ci sono delle immagini stupende, anche di Letizia Battaglia che era molto amica di Nino. La chiamava Letiziaccia, che le stava benissimo. Era un'altra, Letizia, che cercava veramente il contatto diretto con le verità. Entrava subito in relazione con i soggetti e faceva quelle fotografie pazzesche. Si definiva una pazza. Ci vuole sempre un po' di follia per andare oltre. Sennò non è possibile.
Il Sicilia Queer Filmfest?
Ha appena festeggiato quindici anni di attività. È un festival importante, internazionale, a tematiche LGBTQ, una manifestazione unica in Italia. Per una settimana ci sono proiezioni, dalla mattina alla sera, nello spazio ai Cantieri culturali della Zisa intitolato al regista Vittorio De Seta che girò magnifici documentari tra gli anni Cinquanta e Sessanta e film importanti. Il direttore artistico è un giovane, Andrea Inzerillo, cinefilo, insegnante di filosofia.
Di Nino Gennaro hanno saputo tramite il lavoro che io ho fatto nel tempo, mettendolo in scena, e hanno voluto intitolargli un premio che danno a personalità della cultura, del cinema: è stato premiato anche David Leavitt.
"Era il momento di darlo a Massimo - hanno detto - per avere divulgato la parola di questo autore, per averla fatta conoscere al pubblico e alla critica nazionale”
Nino Gennaro aveva accettato la morte.
Le lettere raccontano di come lui abbia affrontato la malattia e concepito la fine. Sì, c’è una sorta di accettazione: esiste la malattia, esiste la morte, non possiamo farci niente. Certo, all’inizio fu un trauma. Nell’88 ha scoperto di essere sieropositivo, poi la malattia si è conclamata e ogni anno si faceva più acuta. Entrava e usciva dall'ospedale in continuazione, ha vissuto sette anni dalla diagnosi.
L’ho ritrovato nel 1991 e non sapevo che fosse malato, da un po' non ero più stato a Palermo.
Aveva davvero una certa serenità, eppure ha sofferto tanto, anche fisicamente. Però è stato sempre circondato da donne che lo hanno amato e accudito fino all'ultimo. Questo è bellissimo. Maria Di Carlo (studentessa liceale di Corleone che aveva denunciato il padre, facoltoso medico, per maltrattamenti n.r.d), sua sorella Giusi. E anche il fratello minore, infermiere, con il quale non aveva un gran rapporto, perché veramente apparteneva a un altro mondo, nel momento della malattia è stato commovente con la sua dedizione nei confronti di Nino.
Nino Gennaro e Massimo Verdastro a Corleone, Palermo, nel 1993 © Giusi Gennaro.
Si chiama?
Pippo Gennaro. Ora è in pensione, penso. L'ho visto, era un uomo alto: prendeva in braccio Nino, lo cambiava come un neonato.
La malattia a volte ti permette di guardarti dentro in profondità, di capire tante cose. È così. È tragicamente così. Può essere così.
Non riesco a trovare le parole. Parlare di malattia, quando non si è vissuta, non è facile, almeno per me. Nino è stato coraggioso, come in tutta la sua vita, perché quello che lui ha fatto a Corleone, poco più che ventenne, è stato di un coraggio incredibile. Ho un'ammirazione sia per lui che per Maria Di Carlo: hanno contribuito a cambiare le cose.
La Divina di Palermo?
È stato il primo spettacolo di Nino che ho fatto. Nel 1991, quando ci siamo ritrovati, scrisse venti brani… doveva essere “Massimo Verdastro in concert”. Dopo l'abbiamo chiamato Una Divina di Palermo dal monologo che dà il titolo alla raccolta. Lui stesso andava in giro recitando, in quegli anni. Scriveva a mano su fogli di carta da imballaggio e li appendeva all’università. Agli esami diceva ai professori: "Ne so più di voi, ma che cosa mi state chiedendo?"
Che piglio! Ma era una persona dolcissima. Molto spiritoso. Però all'inizio mi metteva un po' di soggezione perché affermava il suo essere, il suo stare al mondo, con grande determinazione.
E quindi poteva anche risultare antipatico.
“La fatica di rientrare nella media e la felicità di non riuscirci”.
Ti invitava a guardare dentro te stesso, a esprimerti liberamente, infatti io lo considero una guida, è stato un maestro di vita per me. Ho capito tante cose con lui, non tutte le ho messe in pratica perché è difficilissimo farlo. Però forse oggi ho una consapevolezza maggiore di quello che lui voleva dire. Nel mio lavoro di attore, per esempio, gli orpelli bisogna scrollarseli di dosso.
Qualche anticipazione per il 2026?
Lina Prosa mi ha chiesto di portare in scena, da regista, la sua Pentesilea. Il sottotitolo è Preparazione per la battaglia finale. Un testo molto interessante, bello, con due personaggi, Pentesilea e Achille, che necessitano di attori non convenzionali, con una sensibilità particolare per affrontare un tipo di parola che è complessa, poetica, libera da artifici.
Lina è considerata una delle maggiori autrici contemporanee.
È stata rappresentata alla Comédie-Française e tutte le sue opere sono tradotte in francese da Jean-Paul Mangano. Porta avanti nel cuore di Palermo Amazzone, un progetto molto importante, fondato con la sua compagna Anna Barbera nel 1996. È incentrato sulla malattia, il tumore al seno, e hanno sempre messo a confronto, la ricerca scientifica (organizzano convegni con scienziati e medici da tutto il mondo) con la ricerca teatrale. Il teatro come cura.
Non è che tu fai la terapia recitando, no. È il teatro che serve a capire la malattia, il teatro che ti impedisce di avere paura della malattia, della morte, dei fantasmi che poi noi stessi portiamo in scena e con i quali ci confrontiamo.















