Sono stato indeciso se scrivere questo articolo su un argomento “trito” come quello del lago di Garda e dei suoi illustri visitatori. Ma dopo averci trascorso cinque giorni quest’estate per il matrimonio di mio figlio Pietro (più precisamente a Calvagese, nell’entroterra di Desenzano), ammaliato dalla sua bellezza e dalle sue suggestioni mi sono convinto a farlo.

Avevo sentito molto parlare del Garda sin da bambino, da mio padre, originario di Mantova. Nell’immaginario dei mantovani il lago era luogo di delizie e dissolutezze, un paradiso terrestre a portata di mano, fuori dalle nebbie invernali e dall’asfissiante calura estiva della pianura padana. E i mantovani ricchi (non certo il caso di mio padre) vi costruivano le proprie ville. Da parte mia, ne avevo visitato la costa veneta, e ne avevo lambito più volte le rive meridionali nelle mie peregrinazioni sui luoghi dell’amato Risorgimento: Solferino, San Martino, Custoza, Valeggio, Pozzolengo, Monzambano...

In preparazione del mio ultimo viaggio sul Garda mi sono meglio documentato sulla sua intricata storia. Terra di passaggio fin dall'antichità, (all’epoca si chiamava Benaco) il Garda fu la strada privilegiata per gli eserciti, dai romani, ai barbari, agli imperiali germanici. Territorio conteso fra Verona e Brescia, Venezia e Milano, fra guelfi e ghibellini, fra Scaligeri, Visconti e Gonzaga, a prezzo di continue guerre, battaglie (anche navali!), assedi e rivolte, con protagonisti di tutto rilievo, quali Ezzelino da Romano, Cangrande della Scala o Gian Galeazzo Visconti.

Ma non è di questa storia estremamente complicata che mi voglio occupare, bensì di quegli artisti ammaliati dal fascino antico di queste contrade lacustri, scelte e per la loro bellezza e la loro amenità. Ne ho presi tre – i più famosi – ad esempio: Gaio Valerio Catullo, Johann Wolfgang von Goethe e Gabriele D’Annunzio.

Di Gaio Valerio Catullo la vita fu brevissima ed è a noi nota soprattutto attraverso le sue poesie. Nacque a Verona verso l'84 a.C. da famiglia cospicua. Possedeva una villa sul lago di Garda, a Sirmione. Passò tuttavia il suo tempo solitamente a Roma, nella società raffinata della capitale. Là conobbe la donna che doveva determinare la sua esistenza e divenire l'ispiratrice della sua poesia più alta, col nome di Lesbia, donna più anziana del poeta d'una decina d'anni e famosa non meno per le sue dissolutezze che per la sua beltà. Com’è noto, la relazione del poeta con Lesbia si svolse in un’altalena di entusiasmi esaltanti e di delusioni atroci (il famoso Odi et amo).

Come poeta, Catullo fu il principale esponente del gruppo dei neoteroi: brillanti poeti, per lo più cisalpini, che, trascurando l'epica tradizionale, si volsero piuttosto alla poesia greca più recente, alla lirica alessandrina fatta di sentimento e chiusa in un’elegante brevità.

Furono i patrizi romani di Brescia e Verona a scoprire che il Garda era un luogo meraviglioso per il clima, la bellezza del paesaggio e adatto per trascorrere una vita agiata e lussuosa nell'otium delle loro splendide ville.

La villa di Catullo, realizzata sulla punta estrema della penisola di Sirmione è circondata dal lago su tre lati. La sua unicità consiste nella complessità architettonica in armonia con il paesaggio, oltre alla vastità degli spazi. Estesa circa due ettari presentava un impianto rettangolare con due avancorpi sui lati corti e un vasto giardino con portici al centro. A sud si trovava l'ingresso principale con ambienti di rappresentanza, a nord un’ampia terrazza-belvedere protesa sul lago. Gli spazi aperti prevalevano su quelli chiusi creando una stretta interazione tra architettura e paesaggio. Le rovine della villa si ergono ancora oggi altissime nei tre piani che la componevano, realizzati per superare i dislivelli del terreno. La terrazza lascia spaziare la vista su tutto il lago, dando l'impressione di essere sospesi sull'acqua, lontani dalla terraferma.

Catullo dedicò celebri versi a Sirmione e alla sua dimora sul lago. Due sono riprodotti su di un muretto all’entrata delle rovine della villa:

Salve! O mia bella Sirmione.
Perla e regina delle ville che lago o mare abbia mai baciato
colla carezza delle sue onde! Oh con qual gioia
oggi ti rivedo.

Oh me beato che a te ritorno come torna il pellegrino alla sua
casa desiderata e pieno l’animo ancora delle emozioni provate
godo di riposare le stanche membra.

Prima di venire al secondo protagonista di questo articolo, poiché il salto da Catullo a Goethe è un po’ troppo lungo, cito en passant anche Dante

Nel suo incessante pellegrinaggio tra le contrade d'Italia, Dante trovava nella corte scaligera uno dei luoghi ai quali rimase più affezionato. La corte degli Scaligeri è magnifica per liberalità, molto differente dall'odio che gli riserva Firenze. Durante il suo esilio veronese, il sommo poeta conosce il Garda e lo nomina nel canto XX dell'Inferno:

Suso [su] in Italia bella giace un laco,
a piè de l'Alpe che serra Lamagna
sovra Tiralli [Tirolo], c'ha nome Benaco.

Per mille fonti, credo, e più si bagna
Tra Garda e Val Camonica e Pennino
De l’acqua che nel detto laco stagna.

E veniamo a Goethe. Duecentoquarant’anni anni fa, nel 1786, lo scrittore tedesco, già famoso in patria per I dolori del giovane Werther prendeva la via dell'Italia, meta obbligata per assicurarsi un'educazione insieme colta e raffinata. Cruciale snodo formativo per molti giovani gentiluomini, il viaggio in Italia non era solo l'occasione per elevare l'animo e l'intelletto davanti alle immortali opere d'arte del nostro paese, ma anche per incontrare abitudini e stili di vita sconosciuti a chi varcava per la prima volta le Alpi.

Raggiunto il Garda, a Torbole, in provenienza da Karlsbad, il poeta fu subito ammaliato, sconvolto e sedotto dalla sua bellezza, erompendo nei celebri versi:

Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni?
Brillano tra le foglie cupe le arance d'oro,
Una brezza lieve dal cielo azzurro spira,
Il mirto è immobile, alto è l'alloro!
Lo conosci tu?
Laggiù! Laggiù!

[…]

Conosci tu la casa?
Sulle colonne il tetto posa,
La grande sala splende,
scintillano le stanze,
Alte mi guardano le marmoree effigi

In questi versi (dal Wilhelm Meister) c‘è tutto il Garda (e la seduzione che esercita sui tedeschi), come una meta sognata, un traguardo desiderato, un approdo per i poeti: il clima dorato dai limoni e ammantato di malinconia dal profilo scuro dei cipressi, la vegetazione dai richiami classici, le bellezze artistiche, l’azzurro del lago. Un approdo che tuttora incanta anche l'ultimo dei turisti che formicolano sulle sue sponde (ma i tedeschi di oggi, più che i giovani protagonisti del Grand Tour settecentesco ricordano le invasioni barbariche…).

E per finire, Gabriele D’Annunzio.

Da poco era terminata l'impresa dell'occupazione di Fiume. Il Vate (così amava farsi chiamare) si ritira a Venezia, ma con l’intenzione di trovarsi casa sulle rive del Garda per trascorrervi una vita - passate le glorie delle imprese militari - consacrata definitivamente alla costruzione del mito di se stesso. Sceglieva Gardone, considerata la perla del lago per la mitezza del clima.

Alla moglie, in una lettera del febbraio 1921, scrive:

Ho trovato qui sul Garda una vecchia villa piena di bei libri. [...] Il giardino è dolce, con le sue pergole e le terrazze in declivio. E la luce calda mi fa sospirare verso quella di Roma.

Il poeta l'acquistava e impegnava da quel momento fino alla morte tutti i suoi sforzi per trasformarla nel grande complesso del Vittoriale. Per l'impresa D'Annunzio scelse l'architetto Gian Carlo Maroni, che avrebbe coniugato i languori dell'ultimo Liberty con l’incipiente stile Déco-razionalista dell'epoca. All’insieme di volumi puliti, geometrici favoriti dall’architetto, D’Annunzio aggiunse variazioni inaspettate, come la facciata della Prioria, il cuore del Vittoriale, ispirata al palazzo del Podestà di Arezzo, un intarsio di vecchie lapidi e iscrizioni rinascimentali. Per D'Annunzio il Vittoriale è un work in progress, mai finito perché concepito come una cittadella eroica, come la traduzione monumentale del suo personaggio in edifici, oggetti, libri, giardini.

Raramente ho visto un luogo più tetro e funereo del Vittoriale (al di là delle considerazioni politico-ideologiche che, nel caso di D’Annunzio, sono inevitabili). Se il poeta è sepolto al culmine del giardino, in un sarcofago in stile miceneo circondato da quelli di suoi dodici “apostoli” (sempre modesto il nostro Vate), è l’intero complesso ad apparire come il mausoleo di un vivo sepolto.

Particolarmente cupi gli interni, stanze di un maniacale disordine, figlio supremo del decadentismo, ciascuna tappezzata di legni e di drappi, ricolma di calchi di sculture antiche e rinascimentali, di broccati, di vetrate di piombo e colori, di tappeti e oggetti orientali come se il rigore dell'esterno dovesse essere temperato dall'opulenza stravagante dell'interno. E ciascuna con un suo nome: la Stanza del Mappamondo, lo studio dell'artista zeppo di libri e con un organo a canne, la Stanza della Leda, la Stanza del Monco, la Zambracca. Tutto trabocca di cose e in ogni cosa è impresso il segno dell'arte (o del bric-à-brac?). Perfino nel bagno, a quanto mi ha detto la guida, ci sono novecento oggetti!

Alla fine, la cosa migliore del Vittoriale è la sua posizione, affacciata sul più bel paesaggio del lago: l’isola del Garda, il monte Baldo, la Rocca di Manerba e l’antistante costa veronese che scende dolce a pelo dell’acqua.

Nel concludere questo articolo, spero di aver saputo convogliare la meraviglia del lago di Garda, una vastità di azzurro che sembra un mare e che incanta, sollecita, affascina gli artisti al di là dei tempi e ubriaca di colori - l'azzurro del cielo e dell'acqua, il verde degli ulivi, dei cipressi e delle viti, il giallo dorato dei limoni - come di profumi.

Isobel, la sposa inglese di mio figlio, sull’ultima foto del matrimonio che ha postato su Instagram ha scritto: Lake Garda, you will always be in my heart. Sottoscrivo, wholeheartedly.