Dopo una piena settimana di fiume da Pacalpa, sul rio Ucayali, eccomi finalmente a Iquitos, capitale della regione Loreto, principale città amazzonica del Perù e la più grande al mondo non raggiungibile via strada. Fondata nel 1864, oggi ha una popolazione di oltre 90 mila abitanti.
Trovo alloggio all’hotel International per 50 Soles a notte, la cameretta è discreta e ha la finestra sulla strada, inoltre, posso lasciare tranquillamente i bagagli nel caso volessi fare qualche escursione. Faccio un primo giro per ambientarmi e a parte le palafitte sul fiume l’intero abitato è sorprendentemente moderno, in certi punti non mi aspettavo di trovare una città “fin troppo” curata per essere nel centro dell’Amazzonia. Anche la presenza di automobili in una zona così isolata e lontana da tutto fa uno strano effetto. Molti i negozi, in maggioranza gestiti da meticci spagnoli: per la componente di origine europea hanno più vivo che i nativi il senso degli affari. Vedo che la città conserva numerosi edifici storici in stile neoclassico ed art-nouveau, con facciate in ceramica, decorazioni floreali e balconi in ferro battuto, risalenti all'epoca del caucciù. Periodo d’oro, tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, quando Iquitos visse il suo massimo splendore economico e architettonico, diventando una delle città più ricche e cosmopolite dell’Amazzonia.
La Casa de Fierro, progettata da Gustave Eiffel, è un esempio emblematico: una struttura in ferro importata dall'Europa e assemblata a Iquitos alla fine del XIX secolo. Impossibile non attraversare il Paseo de los Héroes Amazónicos, un boulevard pedonale adornato da busti di eroi locali, lampioni ornamentali e giardini fioriti, che rende omaggio a coloro che hanno difeso l'Amazzonia. Mi piace il quartiere di Belén per il suo mercato galleggiante, dove le case e le bancarelle si adattano al livello del fiume. Il venditore di prodotti esotici, quali carne di caimano, suri (larve commestibili) e chonta (cuori di palma), mi raccomanda di tornare per il festival di San Juan, che si celebra a giugno, quando la città si anima con danze tradizionali, musica e preparazione del juane, il piatto simbolo della festa. Mi spiega che il piatto juane è composto da riso cotto e insaporito con spezie e curcuma, che gli dà quel colore giallo intenso, poi pollo, uovo sodo, olive o arachidi.
Città piacevole, interessante base per i dintorni, ma non è quello che immaginavo di trovare: “troppo civilizzata”. Non considero Iquitos un punto di arrivo ma solo un punto intermedio. Non interamente soddisfatto del luogo, torno in camera per esaminare la carta geografica e studiare con calma le possibilità di viaggio che mi si presentano ora. Di tornare indietro non ne ho nessuna voglia e le altre vie sono da cercare lungo i fiumi, essendo impossibile muoversi diversamente, aereo a parte. Se proseguo verso est il fiume mi porta a Leticia, paese costruito nella curiosa posizione geografica che raduna tre confini: Brasile, Bolivia e Perù. Continuando, il rio delle Amazzoni mi condurrebbe prima a Manaus e dopo a Belem, grosso porto amazzonico sull’oceano Atlantico. Questo itinerario mi stimola ma non voglio entrare in Brasile ora. È mia intenzione arrivarci da sud, dopo aver visitato Machu Pichu e la Tierra del Fuego. Escludendo il rio delle Amazzoni, restano il rio Napo che va verso nord ed il rio Marañón: entrambi entrano in Equador. Il visto equadoregno chiesto due mesi fa è ancora valido, potrei così riprendere il viaggio da Guayaquil che ho interrotto lo scorso giugno, quando tornai in Italia in nave passando per il canale di Panama.
Al momento ho solamente una mappa poco dettagliata del rio Marañón, con la deviazione del rio Pastaza, mentre del rio Napa non ho nulla. Esco a cercare delle mappe di entrambi i fiumi per confrontare le differenze dei due percorsi che pare conducano circa allo stesso punto. Giro per ore e, strano ma vero, nessun negozio possiede le mappe che cerco. Questo è un problema da risolvere in qualche modo. Mentre passeggio mi affaccio nei locali di ristoro che incontro alla ricerca di un posto dove mettere qualcosa sotto i denti senza spendere tanto. In uno di questi, alcuni indios allegrotti mi invitano al loro tavolo a bere aguardiente, una specie di grappa di canna da zucchero dal gusto rustico, e tra un bicchiere e l’altro mi dimentico pure di mangiare. Anche gli allegri compari della tavolata mi consigliano, come a Pucalpa, di andare a raccogliere le informazioni che cerco alla capitaneria di porto di Iquitos. Il mattino vado subito al porto e qui mi consigliano di chiedere al comandante del battello commerciale, coperto e cabinato, che fa servizio lungo il rio Marañón e il rio Pastaza fino al lago Rimachi.
Giunto al molo, imparo che il battello non partirà per i prossimi dieci giorni a causa della rottura del motore e pare che l’unico mezzo per proseguire il viaggio verso l’interno sia un barcone che va a Santa Rita de Castilla sul Marañón. Il viaggio dura 40 ore e il proprietario chiede 50 Soles ogni 24 ore di viaggio, incluso il cibo. Parte domattina alle 6. Mi prenoto. Al mercato faccio un po' di provviste e resisto alla tentazione di comperare anche un fucile leggero a canna singola chiamato scopetta, molto usato nella zona per la caccia e per il quale non occorre alcun permesso. Tuttavia, una volta uscito dalla giungla dovrei rivenderlo e così opto per l’acquisto di un macete per 60 Soles che mi sarà utile, previa affilatura, per tagliare legna e farmi largo tra le erbacce. Il negoziante assicura che è un arnese indispensabile. L’indumento protettivo a me caro, che ho portato da casa, è il cappello da apicoltore, con la retina antizanzare che scende tutt’attorno dalla larga falda circolare. Si piega bene, occupa poco posto e lo trovo utilissimo. Tutti mi avvertono che una volta lasciato Iquitos non troverò più cambiavalute ed è quasi impossibile trovare un telefono pubblico.
Alle 5 e mezza salgo sul barcone, pagamento anticipato. Il proprietario del barcone, Ramon, indossa un berretto militare sbiadito ed avrà circa 50-60 anni, con la pelle scura segnata dal sole tropicale, dal vento del fiume, ed il volto inciso da rughe profonde, specie agli angoli degli occhi. Uomo di poche parole, mi spiega solo che dobbiamo raggiugere la confluenza del Marañón e dopo lo risaliamo per circa 50 chilometri, fino alla missione di Santa Rita de Castilla. Su questo barcone, di una ventina di metri e ricolmo di merci, siamo in cinque. Ha una cabina pilota a poppa ed è difficile per me trovare dove sistemare l’amaca. Come da accordo, mi allungano da mangiare: un pastone violaceo di pesce tritato e cocco dall’odore e sapore per nulla gradevole, per certo non mi lamento della porzione scarsa. Rimedio con una delle mie scatolette di tonno. Risalendo il rio delle Amazzoni, il paesaggio è subito spettacolare: villaggi palafitta, canoe che trasportano frutti e pesci, bambini che giocano nell’acqua. Mi sistemo per la notte tra i sacchetti in plastica di riso.
L’ingresso al Marañón, già visto arrivando da Pacalpa, è ampio, vasto, circondato da una distesa verde e silenziosa di foresta allagata. Si incrociano villaggi piccoli e isolati, dove il tempo sembra essersi fermato: mercatini galleggianti, minuscole chiese di legno dipinte di bianco, case in legno su palafitte abitate dal gruppo etnico dei Maina, noti per essere stata la prima tribù dell'alta Amazzonia ad essere evangelizzati dalla Chiesa Cattolica. Dopo il tramonto, alle 18, sul fiume scende un buio pesto e arriviamo a destinazione la sera del giorno dopo alle 21. Saluto Ramon e ciurma e scendo in cerca di un alloggio, ma scopro presto che nel minuscolo abitato di Santa Rita non esistono hotel. Per chiedere ospitalità agli Indios o ai missionari è tardi, preferisco rompere le scatole al posto di polizia, dove mi concedono di dormire in una cella vuota sopra ad una grande tavola in legno.
Dopo la notte in prigione, vado a fare un’abbondante colazione al molo, in un piccolo bar-ristorante annesso all’unico negozio alimentari del villaggio. Vorrei spedire una lettera a Modena, scritta sul barcone di Ramon, e mi indicano di portarla nell’ufficio dei petroleros della Petty Company che ha un contatto giornaliero con l’idrovolante per Iquitos. In diversi dicono che non sono molto affidabili, ma io la consegno ugualmente. Il nucleo di Santa Rita ruota attorno alla chiesetta di legno col tetto di foglie di palma dei missionari agostiniani, costruita nel 1956, punto di riferimento per molte comunità indigene Ticuna e Cocama-Cocamilla della zona.
Da qui, seguendo i consigli dei locali, con un po' di fortuna potrei arrivare direttamente al lago Rimachi. Con zaino in spalla, mi porto direttamente al posto d’attracco per chiedere un passaggio alle barche che si fermano perché le loro soste sono brevi. Fischio e gesticolo per attirare pure quelle che passano senza fermarsi. Devo stare ritto e vigile per ore e ore a fissare il fiume, non posso fidarmi della gente del posto che promette di chiamarmi appena spunta una barca, ma avendo un’idea vaga del tempo e di ciò che voglio è possibile che si distraggano e si scordino di chiamarmi. Brava gente, ma conviene fare tutto di persona per evitare di stare a Santa Rosa in eterno. Ormai il sole tramonta e per oggi è andata così, torno in cella a dormire e domani mattina riparto alla carica.
Di prim’ora sono di nuovo al piccolo bar del molo, rassegnato ai tempi lunghi. Con alcuni ragazzi, mi metto a palleggiare un rotolo di stoffa cucito a formare una palla, posizionato in un punto da tenere sotto controllo il fiume. Nel primo pomeriggio, nel pieno di una appassionata partita a calcio, attracca per pochi minuti la barca giusta e quasi mi spiace dover correre senza il tempo di salutare con calma i compagni di gioco. Questa piccola barca va a nord, in una località dell’Alto Marañón chiamata San Isidro: dista 100 chilometri e pago 100 Soles. Sulla barca siamo in tre, i due indigeni masticano spezie colorate in silenzio e per me va benissimo così. Ci fermiamo in alcuni villaggi per scaricare e caricare piccoli pacchi. La prima notte ci fermiamo in un punto dove sulla riva c’è una capanna disabitata e i due barcaioli si sistemano al suo interno per qualche ora, lasciando a me lo spazio necessario per sdraiarmi in barca. La seconda notte, invece, stimolati dalle foglie di coca i due decidono di fare tutta una tirata senza sosta. Sia durante il giorno che la notte, sento il corpo scivolare sul fondo della barca e rannicchiato per bene crollo in brevi, ma profondi sonni.
Arrivo a San Isidro che mi sento liquido dalla stanchezza, avverto di entrare fisicamente in zona “strapazzo”. Al molo, un giovane gringo americano mi ha visto arrivare e mi aspetta curioso per conoscerci e fare due chiacchiere. Si chiama Anthony ed è simpatico, purtroppo non si è mai mosso da San Isidro e non è in grado di darmi molte informazioni. Dice però di aver sentito che il lago Rimachi sul rio Pastaza, dove intendo andare, è molto bello. In compenso, lavora da un anno in un campo di petroleros americani non distante dove è possibile dormire gratis: “Al campo c’è una camerata con tanti letti vuoti e quando capita ospitano viaggiatori in transito”. Anthony mi accompagna dagli impiegati della compagnia, i quali senza difficoltà mi concedono di fare una ricca dormita.
Al mattino ringrazio e saluto Anthony e seguo la prassi del molo. Anche a San Isidro, come a Iquitos, è sorprendente scoprire in posti così remoti negozi, bar e magazzini ben forniti, un’occasione per fare provviste prima di addentrarmi sempre più nella giungla verso la sorgente. Risalendo il Marañón, San Isidro si trova sul lato destro del fiume, non distante dall’imboccatura del rio Pastaza. Chiedo a tutte le barche, canoe e barconi ma nessuno è diretto lungo il Pastaza. Nel pomeriggio rivedo Anthony che si rivela di nuovo molto utile: “Sulla stessa sponda del fiume, in angolo, all’ingresso del Pastaza, c’è un villaggio di nome San Ramon, dove tutte le imbarcazioni devono obbligatoriamente fermarsi per essere registrate e da là dovrebbe essere più facile trovare un passaggio per il lago Rimachi”. Ottimo suggerimento. Insieme andiamo in cerca di un mezzo e troviamo il proprietario di un motoscafo che accetta di attraversare il fiume in questo punto particolarmente ampio. Per il tratto di circa 20 chilometri, controcorrente, impieghiamo due ore.
Arrivo al posto doganale di San Ramon che un altro giorno luce è terminato. L’estroverso e brioso Tenente Governador, felice della mia presenza, tiene subito a precisare che lui è di Cusco e il suo nome è Sumac, ovvero “bello” in lingua quechua. Sumac è anche un commerciante in alcool e, in effetti, è decisamente alticcio. È un omone in carne, piacevolmente spiritoso e dotato di grande empatia, e ci tiene a rassicurarmi: “Da questo villaggio in angolo non avrai difficoltà a proseguire, qui devono fermarsi tutti, ci penso io a sistemarti, a trovarti il passaggio”. Dice che da Iquitos o Santa Rita era per me possibile trovare dei passaggi diretti per il Lago Rimachi, ma occorre tempo, il battello era rotto ed io avevo troppa smania di muovermi. Sumac sfoglia un quadernone e mi elenca tutti i barconi attesi per domani precisando: “Hai la possibilità di chiede il passaggio ai petroleros, ai madereros (boscaioli) oppure ai commercianti.
Coi petroleros ci si impiega dieci giorni, il viaggio è facilmente gratuito, anche per quanto riguarda il cibo, mentre i commercianti sono i più lenti perché si fermano ad ogni villaggio e, in genere, impiegano sui 15 giorni e chiedono denaro. I madereros sono i più veloci, sette giorni, danno il passaggio gratis ma non il cibo”. Per me andrebbero benissimo questi ultimi.
Mentre parla, versa di continuo un dito di whiskey nel mio bicchiere che sorseggio e ri-sorseggio con vero piacere. La radio a pile su un banchetto trasmette musica peruviana tradizionale. Siamo in quattro sotto la capanna doganale, ormai tutti stonatissimi a battere le mani a tempo di musica sul mobilio. Iniziamo, per qualche motivo che mi sfugge, a fare braccio di ferro. Sumac ed io appoggiamo i gomiti sopra il tavolo per dare il via allo scontro e in un baleno ci troviamo sotto al tavolo sdraiati sul pavimento a continuare la gara senza cedere. Di avere messo l’ambiente in subbuglio ce ne accorgiamo solo al mattino, quando ancora stralunati proviamo a rimettere le cose al loro posto: un vero macello, il soldato più magro ha mandato in briciole un paio di sedie di paglia a colpi di macete, giusto per ridere. Una serata di festa sudamericana, forse stimolati dalla mia presenza. Eccoci di nuovo in servizio, tutti quanti un po' assonnati seduti in veranda di fronte al molo. La prima barcaccia che arriva è dei commercianti e la lasciamo perdere.
Dopo un paio d’ore spuntano i madereros e il Governador Sumac, che si è ricomposto, mi fa segno che ci pensa lui. Preferisco però essere io a chiedere e valutare direttamente il passaggio e non appena i boscaioli scendono a terra lo anticipo. Nessuna spiegazione è richiesta, posso salire, qui è prassi normale. Mentre loro completano la registrazione, io saluto i militari di San Ramon e mi sistemo sulla chiatta pronto a continuare il viaggio. Ignacio, boscaiolo allegro, mi dice: “Se si rompe la sega elettrica io sradico gli alberi con le mani”. Naturalmente scherza, è solo un modo per farmi notare che ha un fisico da culturista del quale è fiero e precisa: “Non di quelli gonfi e lucidi per le cremine”. Tuttavia, è anche tarchiato e ricoperto di peli da sembrare uno scimmione. Sono persone autentiche a cui piace scherzare e prendere tutto in ridere, non sono di queste parti, vengono dai paesi della costa, fanno questo lavoro duro per racimolare qualche soldo da mandare alle famiglie. Stanno andando oltre il lago Rimachi, dove altri boscaioli stanno deforestando, per raccogliere e legare a poppa centinaia di tronchi da trascinare per giorni fino alle grandi falegnamerie industriali.
Il tempo della navigazione scivola lento tra il cinguettio degli uccelli che a volte diventa fortissimo. Vedo anche un gruppo di piccoli caimani e poi più niente. Mi dicono che il fiume è pieno di piraña o piranya in quechua e altre lingue native, un pesce d’acqua dolce amazzonico, famoso per i suoi denti aguzzi e la reputazione di predatore aggressivo. Scodelle di tè e di caffè me ne passano a volontà e di cibo ne ho in abbondanza. Dopo un paio di giorni mi invitano ad andare liberamente in cucina per pane, burro, zucchero e uova. Osservo incredulo i delfini saltare a prua mentre entriamo nel lago Rimachi, delfini dell’Amazzonia che qui chiamano bufeo colorado perché di colore rosato. A differenza dei delfini di mare, questi hanno il muso allungato ed una fronte tondeggiante.
A riva c’è solo una casa, è la base del Ministerio de Pesqueria ed è l’unica costruzione della zona. Qui dare alloggio ai viandanti è prassi normale. Dopo 29 giorni da Lima sono arrivato nel punto più bello e suggestivo del viaggio, il lago è diventato parco nazionale solo due settimane fa, prima era una base militare. Ansioso di ambientarmi, mi affretto a familiarizzare con i tre funzionari statali che sono brava gente. Tra questi c’è l’infermiere, Alvaro, che lamenta di non avere nessuno da curare ed è contento di farmi da Cicerone in questo piccolo paradiso terrestre: “Nel lago ci sono quaranta isolette e nel mezzo della laguna c’è una città sommersa con lavori in ceramica.
Secondo i racconti dei Cocama e di altre comunità indigene del basso Marañón e Pastaza, sotto le acque profonde del lago Rimachi si trovano rovine di una città antica, con templi dedicati a spiriti delle acque e delle foreste, oltre a tesori sommersi appartenuti ad un popolo scomparso. Si racconta che la città fu inghiottita da una grande inondazione inviata dagli spiriti del fiume per punire la superbia dei suoi abitanti. Durante certe notti di luna piena, i pescatori vedono luci tremolanti sotto l’acqua e sentono suoni di tamburi antichi. Qualcuno dice di aver visto i contorni di edifici sommersi quando il lago è molto basso nella stagione secca”.
Viene da chiedersi, come mai nessuno è mai andato ad immergersi per appurare se veramente esiste o se è solo leggenda? Alvaro non risponde, preferisce lasciare le cose come stanno, libere nella fantasia. Gli chiedo allora degli animali che popolano il lago e dintorni: “Nel lago, come nei fiumi, vi sono coccodrilli, caimani, serpenti anaconda e tanti piraña, ma si può fare il bagno, basta non essere feriti. Coccodrilli e serpenti si vedono raramente, le scimmie, invece, e le grosse tartarughe marine e di terra sono facili da vedere, come anche i delfini che saltano tra le acque della laguna. Tucani e uccelli coloratissimi sono ovunque”. Aggiunge che nel lago è proibito pescare, ma non nei fiumi. Per il clima: “Nella zona del lago le piogge sono frequenti ma brevi”. La malaria rimane l’unico vero pericolo ed io devo fare attenzione: scordo spesso di prendere le pillole.