Il tesoro che aveva scovato dopo quindici giorni abitava sostanzialmente nel suo naso. O meglio, nella memoria delle sue narici. Ormai collegava odori a stazioni, odori a orari, treni, scale, angoli. Aspri, vivi, odori di presenza umana. Aveva invece un po’ perso i contatti con il mondo che stava sopra; le immagini annebbiate di strade e monumenti venivano filtrate dai nomi delle stazioni e la vita cerebrale di cui vivevano era falsata, imprecisa.

All’inizio della terza settimana decise di lasciar perdere il taccuino. Non aveva più bisogno di segnare niente perché l’esperienza totale che stava vivendo l’aveva completamente assorbito. Distrusse i suoi appunti evidentemente inutili forse anche perché temeva che qualcun altro potesse trovarli e godere dei frutti del suo lavoro, delle sue conquiste. Avendo ormai schemi e percorsi automatici tatuati nella mente e non dovendo più perdere tempo a scrivere, si dedicò maggiormente alle persone. Alcune destarono così tanto il suo interesse che ebbe voglia di seguirle, e in qualche caso lo fece, ma solo fino all’uscita, il confine di quel mondo sotterraneo che gli sembrava inopportuno varcare. Così, appena gli individui che seguiva abbandonavano la metro, tornava indietro di corsa e saliva in fretta sul primo treno, con il cuore che gli batteva forte, come se avesse commesso chissà quale crimine e l’avesse in quel modo fatta franca. Si metteva a sedere in fondo alla carrozza e guardava la folla entrare e uscire, finché non si calmava, poi scendeva e proseguiva la propria ricerca. In tutto questo, la ragazza non c’era.

Negli ultimi giorni di quella terza settimana fu colto da uno stato di agitazione. Seguire le persone e immaginarsi le loro vite lo eccitava, ma doveva evitare di farlo perché in quel modo perdeva davvero troppo tempo prezioso. Concentrò le sue ricerche nei quartieri centrali della città, scandagliava poche stazioni, quelle più frequentate. Sceglieva una linea e poi un treno del quale saliva sul primo vagone. Ad ogni stazione scendeva e risaliva ancora sullo stesso convoglio, arretrando di una carrozza perché gli era nata un’idea insopportabile: poteva aver viaggiato sullo stesso treno insieme alla ragazza, chissà per quante volte, senza averla mai incontrata. Un’ipotesi decisamente frustrante. La luce artificiale delle gallerie esasperava quegli ultimi giorni e sembrava aver nidificato tra i lineamenti del ragazzo e poi i suoi occhi parevano immensi laghi a raccolta di tutti i volti che avevano visto, registrato e analizzato.

Quando fu costretto a tornare al lavoro, i colleghi lessero in quel viso i segni del periodo trascorso. Le ferie non gli avevano giovato, lo trovavano molto dimagrito e non aveva certo un colorito sano. Alle loro domande su come avesse impiegato quelle tre settimane di ferie, lui forniva risposte evasive, sostanzialmente mentiva. Nel farlo provava quasi un senso di superiorità, cinico, perché loro non avrebbero mai capito il significato di quelle azioni. Lo dimostrava il fatto che durante le sue ferie ne aveva intravisti un paio in metropolitana, uno addirittura nel suo stesso vagone, e non era stato riconosciuto. Com’era strana quella gente che non si osserva o che lo fa solo per evitarsi, per non scontrarsi. Si trasportava dietro il bagaglio della superficie: la superficialità, appunto. Lui si sentiva diverso, illuminato, si era immerso finalmente nella folla, nella vita, fino alla radici, e quello che aveva appreso lo aveva cambiato. Evidentemente, però, il suo aspetto deperito contraddiceva il benessere legato a quella conquista. Decise allora di farsi crescere la barba per distogliere l’attenzione degli altri e perché la considerava una sorta di maschera, da indossare sul palcoscenico della vita lavorativa.

Trascorse la settimana del suo rientro vivendo altalenanti stati d’umore. Se da un lato aveva imparato a cogliere gli aspetti più interessanti della vita frenetica della metropoli e di quelli si nutriva, dall’altro gli mancava la ragazza. Non aveva smesso di cercarla, anche se il lavoro gli portava via gran parte del tempo. Lentamente stava scivolando in una nuova fase. Ne ebbe la percezione un giorno nel quale gli parve di vederla salire una scala mobile nel verso opposto al suo. Dopo averla rincorsa si avvide dello sbaglio. Non era lei, eppure le somigliava. Ma di questo, in seguito, non fu molto sicuro. Nei giorni successivi la cosa gli capitò frequentemente; quella è la sua borsa, quello il suo cappotto, sbagliava sempre persona. Finché non fu costretto ad ammettere di non ricordarsi bene quei lineamenti che aveva così esasperatamente cercato. Giunse a riconoscerla in ogni donna che incrociava in metro, ma solo lì, perché fuori, in superficie, lei non poteva esserci. La mente del ragazzo aveva immagazzinato volti su volti e ora lui faticava a ricomporre quello di lei.

Si ritrovava così a raccogliere particolari nei suoi ricordi imprecisi e ad adattarli alla realtà in movimento, ritagliava il sorriso di una situazione e lo appiccicava a una sconosciuta, per farlo combaciare. La stessa cosa faceva per uno sguardo, un gesto delle mani, una camminata particolare, un tono di voce che rotolava nei tunnel del sottosuolo. In questo modo, clamorosamente, lei adesso era ovunque senza esserci, continuava a vivere nella vita degli altri e il paradosso consisteva nel fatto che proprio lui la faceva nascere ogni volta, di nuovo, per poi accoglierla con la stessa trepidazione e la stessa delusione nell’avvedersi di aver sbagliato persona. Tutto ciò lo confondeva, ma non riusciva a smettere, a cessare la ricerca e ad ogni ombra nuova cui attribuiva l’identità di lei, da lontano, era capace solo di grattarsi la barba ormai folta nella speranza di non sbagliare ancora.

Dopo circa due mesi, la sua azienda fallì e lui si ritrovò all’improvviso per strada, senza lavoro. Gli venne d’istinto, automaticamente, rifugiarsi nel sottosuolo, caldo, familiare, conosciuto. Com’era diverso dal luogo lavoro. Il suo capo non prendeva mai la metropolitana, non scendeva mai a contatto con la vita e nell’analisi di questo il ragazzo si rese conto che doveva aspettarselo. Ci vide un sinonimo di disonestà, ed in effetti l’unico che aveva ancora un posto di lavoro, seppur in un altro quartiere e grazie a chissà quali giochetti di potere e raccomandazioni, era proprio il suo superiore. Per fortuna la perdita del lavoro non si sarebbe fatta sentire a breve termine. Il ragazzo, con sollievo, stimò di avere abbastanza risparmi da parte per potersi dedicare ancora un po’ alla sua ricerca sotterranea.

In quel periodo commetteva errori di valutazione sempre meno spesso. Una, due volte al giorno poteva sbagliare persona e scambiarla per la ragazza che cercava, ma non di più. In compenso aveva ripreso a seguire la gente, con più entusiasmo, e più sfacciatamente. Camminava quasi accanto alla persona pedinata che, dato il flusso costante di individui, non poteva accorgersene. Questo lo incoraggiava. Ostinatamente gli puntava gli occhi addosso, cercando di incontrare quelli della persona cui si dedicava, penetrando, nel tentativo di scavare con forza sotto gli strati più spessi dell’epidermide, mirando alle ossa più dure. E nel contempo ne immaginava il nome, la data di nascita, il lavoro, i pensieri, le preoccupazioni. Non si precludeva nessun tipo di persona, non aveva preferenze di genere, di aspetto, di età. Tutti erano allo stesso modo interessanti, rappresentanti di quella folla alla quale lui aveva chiesto asilo, che gli aveva dato cittadinanza e di cui ora, quasi, si sentiva il re.

Un giorno si trovava incantato ad ammirare una donna frugare con disperazione nella borsa. Aspettavano un treno e lei chissà cosa cercava. Avrebbe forse voluto aiutarla, parlarle. Ma si rese conto che in tutto quel tempo di affannosa ricerca, non l’aveva quasi mai fatto. Tutti quei contatti, quegli sguardi che aveva cercato, quei gesti che aveva silenziosamente ghermito, erano solo suoi. Non aveva dato niente in cambio; non c’era stato scambio di idee né di parole. Consumava veramente le relazioni con uno sguardo. La donna continuava a trafficare nella sua borsa e lui rimaneva inerme, inebetito, non riusciva a parlarle, a rendersi più presente di quanto non fosse con la vita vibrante delle sue pupille concentrate. All’improvviso una voce femminile alle spalle gli chiese l’ora. Lui si voltò, grattandosi la barba, quasi disturbato da quella richiesta che lo distraeva, che lo distoglieva dalle azioni della donna. Voltandosi, già si rammaricò. Era sicuro che nel frattempo la donna avrebbe trovato quello che cercava e che lui non avrebbe mai saputo cosa fosse. Diresse allora l’attenzione verso la ragazza che lo aveva distratto, senza impegnarsi a celare nella propria espressione il peso di quella colpa che lei avrebbe dovuto intuire. Per di più, il treno stava arrivando proprio in quel momento e la donna che aveva osservato ci sarebbe di sicuro salita, e lui l’avrebbe persa per sempre. Decise così di non rispondere e di prendere anche lui quel treno. Non avrebbe scalfito i propri silenzi, non avrebbe minacciato il regno del suo sguardo invadendolo con frasi e parole.

L’immaginazione che abitava negli occhi si sarebbe infranta nelle sponde di un discorso, anche una sola sillaba sarebbe bastata a spezzare quell’incanto. Si volse allora di nuovo verso la donna con la borsa e salì al volo sul suo stesso vagone. Solo mentre le porte del treno si stavano richiudendo, incontrò lo sguardo della ragazza che gli aveva chiesto l’ora e che era rimasta immobile, ad osservarlo. Aveva qualcosa di familiare, di conosciuto, e si poteva intuire dagli occhi di lei che stava pensando la stessa cosa. Per un istante, le porte del treno furono come uno specchio, un limpido lago il cui fragile spessore dell’acqua divide ineluttabile la vita della superficie da quella sottomarina. La metro ripartì, inesorabilmente veloce, diventando fiume che scorre impetuoso e il ragazzo cominciò a tormentarsi la barba, inquieto. Era lei? La domanda, destinata a rimanere senza risposta, gli pulsava già negli occhi agitati mentre la bocca oscura di una nuova galleria ingurgitava il suo treno con quotidiana indifferenza.

La prima parte: http://wsimag.com/it/cultura/7621-il-dedalo-del-sottosuolo-prima-parte