Oggi è sabato e mi sembra già domenica. Sono nel terrazzo di casa perché il restauratore del piano di sopra si tiene in allenamento. C’è il sole ma è ancora freddo e non so se andare a “Natura sì” per colmare la mia dipendenza e mettere in atto il mio lento suicidio, acquistando il gelato di Kefir che, nonostante le ottime qualità del Kefir, contiene zucchero e panna, alimenti per me proibiti, dato che ho anche il diabete due, o rimanere qui e scrivere.
La mia vita è intessuta da sensi di colpa; mortali e veniali. Sono, quindi, sempre alla ricerca della riparazione; credo dipenda dall’educazione ricevuta. Se mangio troppo, o esagero con i dolci, soprattutto a cena o negli aperitivi, salgo sulla cyclette e vi rimango anche un’ora. Il più delle volte, però, più che pedalare rispondo o invio messaggi. È una specie di dannazione. Seduta scomodissima con i piedi appoggiati ai pedali sto immobile, poi realizzo che sono scema e inizio a pedalare, ma con poca convinzione perché pedalare senza muoversi non è una grande soddisfazione. Ora è proprio freddo. Non vado a “Natura sì”, rientro, mi vesto e prima di uscire preparo pomodori e mozzarella per Manlio.
Ci sarebbe una conferenza organizzata da un amico ma le conferenze non le sopporto più. “Eccetto l’anima, cioè la natura, nulla mi tocca: né l’opinione pubblica, né la tecnica, né - né -.Per questo non vado da nessuna parte: mi ann-o-io-!” (Marina Cvetaeva, Deserti Luoghi, lettere 1925-1941). Pochi giorni fa, però, sono andata ad un incontro organizzato dall’associazione femminile FIDAPA dove era invitata a parlare della sua esperienza in Ravenna Festival, Cristina Mazzavillani Muti: un regalo. La bellezza ha mille volti, lei li contiene tutti. Non posso fare esempi perché è unica. Racconta di sé e contemporaneamente si espande per l’universo.
Sono rientrata in casa perché la famiglia del piano di sopra se ne è andata e quindi è ritornato il silenzio, che mi è indispensabile per sopravvivere. Davanti a me c’è il mio albero che è uno splendore. Foglie al vento, rigoglioso e con tutta la pioggia ricevuta in questi giorni, è anche raggiante e pieno di vita. Ormai è l’ora dell’aperitivo, mi cambio, mi guardo allo specchio; non mi piaccio; tolgo la mantellina di lana e mi metto una giacca stupenda, ma leggera; va bene perché sotto alla giacca ho una maglia che protegge dal freddo sino -20 gradi. Deve essere arrivata direttamente dall’Alaska e ho anche una giacca a vento attillata. Chissà perché ho sempre freddo? Forse perché sono vecchia. Vedo ragazzine con pancia e gambe scoperte; adesso se sono grasse se ne strafregano, anzi mia nipote Allegra dice che le sue amiche robuste si espongono con orgoglio e disinvoltura.
Oggi è domenica, ieri sera non ho scritto perché ho fatto tardi con la mia amica Sara. Seguire i nostri racconti è divertente perché tutte e due nel bel mezzo del discorso diciamo: “Mi sono persa, cosa stavo dicendo?”. Però è ben radicato nella nostra mente un tempo senza data perché, in noi, sopravvive nell’atemporale, invulnerabile, dimensione del mito. Erano gli anni Ottanta del secolo scorso? Non lo so, perché il ricordo si fa presente. È qui con noi. E quando Sara ed io ci vediamo spesso lo riviviamo. Allora, in quei certi anni ci furono, in un bar, sguardi infuocati e sorrisi senza motivo. Si formò così un piccolo gruppo di ragazze e ragazzi belli e dannati. Giovani e belli sicuramente, più che dannati, direi, senza esagerare, distratti e in crisi esistenziali e matrimoniali.
Nulla di esagerato perché frequentavamo i nostri giorni sopportando i fallimenti tra realtà e sogno, tra necessità e desiderio. Lo stare insieme, perciò, divenne molto presto un’arma di difesa di grande intensità. I luoghi scelti venivano vissuti come cattedrali dove desideravamo che il tempo si fermasse lì: fuori l’apocalisse, dentro il regno delle intenzioni, dei progetti, dei desideri che conducono verso la libertà. Insieme realizzavamo un ordine della vita basata non sulla ragione, ma sul sentire. C’era un amico soprannominato Sogno che ogni tanto ci ripeteva: “Ricordatevi che mai più staremo tanto bene”. Ed è stato un veggente. Senza fare nulla osservavamo, dall’interno, scorrere la vita in un altro mondo. Mai più divertiti e divertite tanto e senza l’aiuto di droghe o alcolici. Niente. Era semplicemente l’altro mondo: dai sogni, dall’aria che tirava, dalla rarefazione, e dall’essenzialità -né troppo né poco- tutto, ogni cosa e ogni azione erano illuminate dalla nostra luce. Era il piacere condiviso dello stare insieme. Avevamo trovato la via giusta per sentirci libere, liberi.
Abbandonati i luoghi del supplizio, appena era possibile, ritornavamo dove era possibile stare. Insieme. Per arrivarci eravamo disposti a tutto. In quel momento, nella relazione, eravamo geniali. I sentimenti viaggiavano in armonia; aprivamo le nostre braccia a quelle due o tre passioni che, come spighe mature, nutrivano i nostri incontri. In una situazione avversa incontrammo persone amabili, disposte alla consolazione attraverso la leggerezza; un invito ad abbandonarsi al grande spettacolo che è la vita. E anche ieri sera Sara e io abbiamo ricordato amiche e amici mai più rivisti. Spariti, ma senza fughe, così, perché il nostro tempo insieme era finito. Che meraviglia! Anche noi, come nel Decameron, per sfuggire alla “peste nera” delle nostre vite ci rifugiammo in un luogo protetto. I giorni non furono solo dieci come nel Decameron, ma come nel testo medioevale ci raccontammo novelle e la nostra difesa fatta di giorni felici creò, come spesso accade, scandalo.
E anche oggi, domenica 25 maggio, scrivo in terrazzo perché il signore del secondo piano trapana e smartella più di ieri. Come ieri qui in terrazzo tira un venticello fresco, ma altre persone stanno lavorando rumorosamente in garage. Anche qui non c’è pace.
Adesso mi vesto e vado a votare, ma non ho le idee chiare.