Mohsen Makhmalbaf (Teheran, 29 maggio 1957) regista, sceneggiatore, produttore cinematografico e montatore iraniano, fondatore della casa di produzione Factory Makhmalbaf, è passato da Firenze lo scorso ottobre per presentare il suo ultimo film, Talking with rivers, al festival Middle East Now 14. Mi ha rilasciato un’intervista che ci illumina su quarant’anni di Afghanistan.

Analizzando alcuni dei film girati da lei per la premiata Factory Makhmalbaf, in particolare Kandahar nel 2001, direi che si nota un cambio di stile da film di denuncia a questo ultimo film, Talking with rivers, che affronta la Storia in modo poetico. Pensa che questo sia un miglior messaggio di pace?

Negli Ultimi 40 anni io e la mia famiglia abbiamo fatto 10 film incentrati sull’Afghanistan, alcuni dei quali soltanto girati dentro il paese. Affrontavamo diversi aspetti: economico, politico, culturale, sui bambini, sulle donne, sulla guerra, sulla guerra civile. Ho notato però che le persone erano confuse sull’Afghanistan. E si chiedevano perché questa tragedia non ha mai fine. Questo è dovuto al modo di raccontare del giornalismo. Si occupa di descrivere eventi del momento presente, e le persone non sanno cosa è successo prima. Ma quello che accade ora è il risultato di ciò che è successo prima. Il mio ultimo film racconta quello che è successo. Nel 1979 la Russia ha invaso l’Afghanistan per 10 anni. Volevano portare il socialismo. Il risultato è stato due milioni di morti, 10% afgani. Il 35% della popolazione è diventata di rifugiati. Hanno distrutto il paese. E nessuno oggi ne parla “L’Afghanistan è stato distrutto dai Talebani”. No! Sono i sovietici che hanno iniziato la tragedia. Se non l’avessero fatto, oggi l’Afghanistan sarebbe un paese come il Bangladesh, ad esempio, povero, ma con una vita normale. I comunisti sono venuti con lo slogan del socialismo. Poi sono tornati. Poi vennero gli Stati Uniti per combattere e fermare il comunismo. Poi sono tornati. Quando i sovietici attaccarono, se l’Ovest, per vendicarsi di quello che era successo in Vietnam, non avesse dato armi al popolo afgano per combattere il comunismo, sarebbe rimasto un popolo di pastori e contadini.

Tornando al film, con quali fiumi parla il protagonista di Talking with rivers?

Uno è in UK e l’altro in Francia, due Paesi che mi hanno ospitato nell’esilio. Non importa comunque sapere dove sono. Li ho usati come uno strumento di conversazione. In Talking with rivers ho inserito una sintesi dei 10 film di argomento afgano girati da me e dalla mia famiglia grazie alla Factory, per riassumere la recente storia e permettere alla audience di capire meglio. Il popolo afgano ha dunque cambiato la sua identità. Da contadini che erano sono diventati soldati. Succederà anche agli ucraini che, quando Putin se ne andrà, nessuno si ricorderà di loro. Ecco perché dico che i movies indipendenti sono meglio dei giornalisti indipendenti. Prendiamo BBC, CNN. I giornalisti non sono liberi. Hanno una certa agenda imposta. Parla di questo per due settimane. Poi smetti. C’è una nuova notizia. Parla di quella. Giornalisti indipendenti non fanno giornalismo indipendente.

Effettivamente il suo excursus storico fatto attraverso le immagini di film è davvero efficace.

Questa trasformazione in soldati ha portato ad uccidersi fra loro, a Kabul, cinquantamila cittadini. Poi sono arrivati i talebani, perché parte del Pakistan prima era Afghanistan. I talebani sono stati inviati dal Pakistan per bloccare lo sviluppo afgano, per paura che potessero pretendere di avere indietro il territorio che prima era loro. Nel 2001 gli americani, arrabbiati in conseguenza dell’attacco alle torri gemelle, occuparono ben due stati, Iraq e Afghanistan, con lo slogan “vi porteremo la democrazia”. Ci sono rimasti 20 anni. Fra Stati Uniti e Ovest sono stati uccisi 176 000 afgani. E se, come sostengono, portano la democrazia, perché se ne vanno?

Le sequenze inserite rimandano, fra gli altri, ai film Kandahar, The Cyclist, Piccoli Ladri, Budha collapsed out of shame, September 11, Five in the afternoon. Proprio perché è chiaro che i messaggi di molti film vostri sono più impattanti di quelli dei media, dovreste curare tanto la distribuzione, che in genere è molto carente, quando i film sono di alto livello. Certi film sono in grado di creare cultura.

Oggi il problema è Internet. La gente guarda i film dal piccolo schermo del cellulare. Nel 2002 un mio film, in Italia, era distribuito in 107 cinema contemporaneamente. Oggi un film dello stesso tipo lo sarebbe in 2 sale! Comunque su YouTube ho messo film che possono essere visti gratis. Alcuni con sottotitoli. Però vogliamo confrontare la visione solitaria con quella in sala? Certo, cinema non è solo guardare un film, è discutere, scambiare idee e sentimenti.

C’è anche un feeling che si crea in sala fra gli spettatori che guardano lo stesso spettacolo. Il fenomeno lo dico così: 1+1=11.

Oh, molto bello! Dà l’idea. (Parlando al pubblico del festival un’ora dopo, il Maestro cita questa mia espressione, mostrando la sua estrema apertura mentale, n.d.r.).

Fra le sequenze inserite colpiscono molto quelle di Budha collapsed out of shame. La bambina…

La mia figlia minore, Bakthay. Nel film aveva 6 anni.

…bravissima e bellissima. È così lontana dalla violenza che, di fronte al comportamento aggressivo dei maschietti che la tormentano, in versione talebana, costrittivi di lei come femmina, con forza dice «Non voglio giocare alla lapidazione, voglio andare a scuola».

Il film è l’opera prima di Hana, quella che ha fatto The list, l’altro film che ho presentato, anteprima in Italia, qui al Festival Middle East Now, insieme con il mio. Hana aveva solo 19 anni. È una che filma sempre, senza che tu te ne accorga. Non so come faccia. I ragazzini nel film, ma anche nella realtà, dopo 45 anni di guerra, come giochi fanno la guerra. Un gioco fino a un certo punto.

Lei è nato a Teheran, vero? Come mai è così incentrato sull’Afghanistan?

Sono nato in un quartiere povero di Teheran. No no, sull’Afghanistan ho fatto solo 10 film. Ma dei nostri 42 film in totale, più di 20 sono sull’Iran.

Nostri film? Di lei e di Hana?

Sono registe, oltre a me, Samira, la figlia maggiore, e Hana. Mia moglie Marzieh pure è regista. Maysam, il figlio, si occupa del lato organizzativo della Factory Makhmalbaf.

Avrei tantissime altre domande, ma penso che lei sia stanco del viaggio.

No, non ho dormito ieri notte per la notizia della morte di Dariush Mehrjui, il regista accoltellato con la moglie. Il regime ha paura di chi si esprime liberamente. Anche io ho corso seri rischi in passato. Addirittura, a Parigi, dove ero in esilio, la polizia mi disse che l’Iran aveva mandato killers per uccidermi. Mi misero 7 guardie del corpo. Non ce la facevo a vivere sotto scorta. Ecco perché, da 18 anni, sto in Inghilterra che, essendo fuori area Schengen, è ritenuta più sicura.

Nel film The List, che abbiamo potuto vedere oggi dopo il suo, Hana mostra con quanto coraggio e abnegazione si è dedicato a far sì che attori, registi, poeti e le loro famiglie, in grande pericolo di essere giustiziati dai talebani, potessero imbarcarsi su qualche aereo per fuggire dal Paese. Siamo nell’Agosto 2021, nei tragici giorni del ritorno al potere dei talebani in Afghanistan. Può essere fiero di sua figlia Hana.

Oltre a lei, altri della famiglia, aiutavano a fare le liste dei nomi, a 20 per volta, in modo che, nella enorme folla ammassata all’aeroporto di Kabul, potessero essere chiamati ad imbarcarsi loro, e non altri. Non riesco a capire come lei ha fatto fa a filmare in contemporanea. Ma è quello che ha fatto anche stavolta. Ha filmato anche gli esterni, l’aeroporto. Vediamo pure i giovani che, per partire, si erano seduti all’esterno dell’aereo e che, dice la voce fuori campo nel film, cadevano come foglie dall’aereo in volo.

Ultimissima domanda. Nei suoi film, anche i più tragici, si coglie la speranza. Mi conferma?

Assolutamente sì. La speranza è fondamentale conservarla qualunque cosa succeda.