Basta farsi un giro negli allevamenti di galline, ce n’è uno qui da noi in Lombardia che ne “ospita”, ma è più corretto dire che ne “tortura”, fino a trecentomila in gabbie in cui non riescono nemmeno a stare dritte sulle zampe, e tralascio altri pestiferi dettagli sulle loro condizioni igieniche, per capire la sostanziale inutilità dei film apocalittici. Già solo riflettere sul fatto che poi di quelle galline noi consumiamo i corpi e le uova ci pone al centro di una trama perversa e definitiva sul nostro prevedibile annientamento. In questo senso nessun film può reggere il confronto con la realtà che ci circonda e che noi più o meno inconsapevolmente attraversiamo. Cosa dovrebbe esorcizzare, quale imprevista paura che non abbiamo già sotto gli occhi?

Se poi si vuole davvero rivendicare chiarezza sul nostro destino, soffermiamoci per esempio sul cataclisma in atto in Medio Oriente, sull’eccidio sistematico nella striscia di Gaza, di cui ci vengono snocciolati i numeri di vittime inermi da voci asettiche e da immagini mediatiche inguardabili (per pudore e per senso di colpa). Ora confrontiamo tutto ciò con la premurosa cura e la difesa del sacro rispetto della vita umana non appena si parla del “fine vita” e delle misure virtuose e devote in corso di legiferazione intese a proteggerla, per avere il quadro esatto di come la variegata barbarie al potere sia al lavoro per trascinarci con disinvoltura in un pozzo di follia distruttiva. La lista degli abomini, in larga parte assai più deliranti di ogni copione catastrofico, sarebbe ancora lunga, ma noi fermiamoci al numero 28.

Il Numero Ventotto è il simbolo dell’Inizio, della fine, del riscatto? A ognuno l’interpretazione che gli è più congeniale. Rappresenta inoltre la forza di perseguire iniziative personali in cui l’individuo deve affrontare e superare ostacoli disseminati lungo il suo cammino con determinazione e coraggio. I 28 Giorni Dopo, concepiti inizialmente da Danny Boyle e dal suo fido sceneggiatore Alex Garland col primo film, si sono dilatati fino a 28 Anni Dopo e poco è veramente cambiato. Nel senso che i mostri esagitati e bramosi di sangue contagiati dal virus della rabbia hanno le stesse movenze di 28 anni prima. L’unica loro conquista è territoriale perché si sono allargati abbastanza da costringere la residua minoranza dei non infetti su un isolotto fortunatamente inaccessibile quando sale la marea.

La sparuta comunità dei superstiti ha eretto un sistema difensivo in costante alternanza di vedette per monitorare la striscia di terra che la collega ancora alla terra d’origine. Un cordone ombelicale che continua ad alimentare lo spirito di sfida dei suoi abitanti. Una potenziale via d’accesso alla necessità di rifornimento e un cavo elettrico sempre percorso dal terrore dell’invasione. Le armi di cui dispongono sono quelle di un villaggio medioevale, archi e frecce, tanto per intenderci, e il clima è quello di un’epoca del passato. Dettagli che rimandano a una retrocessione in piena regola negli usi e nei costumi della vita quotidiana.

Intanto ripenso al capolavoro di Cormac McCarthy, La Strada, un gioiello da leggere periodicamente per la luce che getta sul nostro presente, spogliato di tutti i mascheramenti che abbiamo scambiato per realtà. Sì, ne è stato tratto anche un film, un dignitoso tentativo di illustrare quello che la scrittura riesce a fare senza paventare equivalenti. Un romanzo che è la pietra miliare di tutti i successivi tentativi di raccontare quello che una volta veniva definito futuro prossimo e che, come ho già chiarito all’inizio, è una versione del mondo che abbiamo davanti, senza se e senza ma.

L’idea trafugata da La Strada in 28 Anni Dopo è quella dell’iniziazione, rituale che ricorre nei resoconti degli antropologi che hanno esplorato le comunità di indigeni una volta sparsi sul nostro pianeta e oggi per la maggior parte sepolti sotto l’effervescente progresso della Coca-Cola. Quel rito che in una regione dell’Africa vedeva l’appena adolescente Masai, equipaggiato di una lancia e di una borraccia, attraversare la savana in cerca di un leone da uccidere e da riportare a casa: solo una piccola prova di coraggio per avere diritto di accesso alla comunità degli adulti. Forza, ragazzi, mettete un attimo da parte il vostro cellulare e fatevi sotto, se avete fegato. E già, direte voi, forse per cercare una scusa, ma non del tutto a torto: ma i leoni dove accidenti li troviamo?

Se nel romanzo di McCarthy c’è un padre dotato di un’inossidabile integrità che procede silenziosamente in mezzo alla catastrofe post-nucleare per portare a compimento l’iniziazione di suo figlio, nel film di Boyle il tracotante paparino è marcato da un peccato d’infedeltà e di trascuratezza che il ragazzo non riesce a perdonargli.

Pertanto, quella che doveva essere una prova di coraggio maschile nell’esplorare il territorio proibito, con l’annessa uccisione del nemico come certificazione, diventa invece una prova di fedeltà di altro genere. E il viaggio che trasformerà il ragazzo in un uomo non è nel solco paterno, ma in quello di sua madre. Per tornare alla premessa poi, il difficile attraversamento del campo nemico del ragazzo e di sua madre per raggiungere un medico in grado di curarla, non è così diverso da quello di una paziente italiana messa in lista d’attesa a casa sua e quindi costretta a farsi curare altrove. E che Dio gliela mandi buona.

Devo chiedermi se per articolare questa imprevista deviazione di percorso era davvero necessario disseminare il campo di frenetici zombi sanguinari e di carni purulente, quasi che il loro comparire e scomparire infilzati dalle frecce non sia un patetico defilé di vittime designate. Alla luce di quanto siamo costretti a testimoniare quotidianamente, possiamo sinceramente spaventarci per dei figuranti impiastrati di fango con gli occhi di fuori costretti a correre come tarantolati incontro a una freccia che li trapasserà?

Osservando le interviste ponderose del regista e dello sceneggiatore, con il coro inevitabile degli interpreti che hanno sempre l’aneddoto in tasca, pronti a conquistare il loro centimetro di attenzione nella conferenza stampa di prammatica, mi afferra un senso di perfetta indifferenza. Oggi non è più tempo di diligenti operazioni promozionali. Non esistono più storie necessarie al di furori delle storie necessarie.