Ci sono artisti che lasciano un segno e poi c’è Pupi Avati: un regista che ha impresso nella storia del cinema italiano un’impronta unica, intessuta di emozioni, ricordi e malinconie.

Il suo cinema non è fatto solo di immagini, ma di sussurri dell’anima, di nostalgie che si insinuano nel cuore, di quei piccoli istanti di vita che, a ben guardare, sono tutto.

Il mio incontro, a distanza, con il Maestro risale al 1998, quando gli scrissi per chiedere un consiglio su una sceneggiatura che avevo appena ultimato: Il Predestinato, che raccontava la leggenda di Rosania Fulgosio, una donna murata viva dal marito geloso nel castello di Gropparello, in provincia di Piacenza.

La scelta di rivolgermi a Pupi Avati non fu casuale. Tra i tanti, era lui a ispirarmi fiducia: un uomo che, dietro la fama, sembrava custodire una gentilezza autentica, una serietà e una disponibilità rara verso chi si avvicinava con sincerità. La mia lettera era una richiesta di aiuto, certo, ma anche una dichiarazione di stima verso il suo talento e la sua visione.

E lui mi rispose. Sorprendendomi.

La risposta di Pupi Avati, uomo di cinema dalla sensibilità unica, rappresentò per me non solo un onore, ma anche una preziosa conferma: al di là delle naturali differenze di gusto e inclinazione artistica, Il Predestinato risultava comunque un progetto solido e promettente.

In quelle poche, sincere righe, lessi il rispetto per il mio lavoro, il riconoscimento di un impegno autentico e, forse, anche l'invito silenzioso a perseverare.

Non era solo un giudizio tecnico: era un incoraggiamento umano, discreto e potente, che seppe toccare corde profonde della mia determinazione. Da quel momento, sentii che qualunque difficoltà avessi incontrato lungo il cammino, custodivo dentro di me una piccola fiaccola accesa da una mano autorevole, capace di illuminare i passi futuri con una nuova fiducia. Il progetto, per varie ragioni che qui non è importante approfondire, non trovò mai piena realizzazione. Tuttavia, curiosamente, anni dopo, il proprietario del castello dedicò a quella stessa leggenda un libro, dimenticandosi però di menzionarmi. Ma si sa: non tutti condividono la stessa idea di eleganza.

Eppure, a distanza di anni, quelle parole ricevute da Avati si sono rivelate molto più di un semplice incoraggiamento: sono diventate un segno. Un incontro invisibile, che oggi si chiude, come un cerchio perfetto, proprio in questo dialogo. Perché, nelle storie più belle, il tempo non è una linea retta, ma un cammino che, prima o poi, riporta sempre a casa.

Nato a Bologna nel 1938, cresciuto cullando il sogno della musica e poi rapito dal cinema, Pupi Avati ha attraversato le stagioni della vita con la delicatezza di chi sa che gli attimi fuggono, che l’amore, la perdita, il rimpianto sono il vero tessuto dell’esistenza.

Il suo sguardo non è quello di chi racconta storie: è quello di chi le rivive, le soffre, le custodisce come frammenti di un passato che ancora pulsa. Nei suoi film, i silenzi parlano più delle parole; i dettagli — una lettera mai spedita, una fotografia scolorita, uno sguardo da dietro una finestra — contengono mondi interi.

Ha saputo raccontare la paura, l’amore, la bellezza struggente della semplicità, con una poetica che non è mai semplice nostalgia, ma un disperato, meraviglioso tentativo di trattenere il tempo.

Ma Pupi Avati non è solo un grande regista. È un uomo che crede nei sentimenti profondi, che ha saputo scrivere lettere d’amore capaci di tremare nelle mani di chi le legge.

È qualcuno che conosce il prezzo del successo senza affetti, che ha compreso che la memoria può essere tanto un’ancora quanto una tempesta, che sa che la morte non è la fine, ma solo un altro passaggio.

Pupi Avati è un custode di ricordi, un artigiano di emozioni, un Maestro che, film dopo film, ci ha insegnato a guardare la vita con occhi nuovi. In questa intervista non parleremo soltanto di cinema: parleremo della vita, del senso nascosto dei giorni, delle paure che si faticano a confessare, dei rimpianti che ancora fanno male e delle piccole cose che, alla fine, danno pace. Perché dietro il grande regista c’è un uomo che ha ancora molto da dire e forse, qualcosa da scoprire su sé stesso.

La sua carriera è stata un viaggio tra nostalgia e meraviglia. Se potesse scegliere un solo fotogramma per contarsi, quale sarebbe?

Temo che il fotogramma che vorrei mostrarle non esista davvero. È un’immagine corale, un’istantanea impossibile da scattare, che però vorrei avere accanto a me, sulla mia scrivania. È la foto di gruppo di tutte le persone che mi hanno accompagnato, sostenuto, ispirato nel corso delle stagioni della mia vita: amici, colleghi, collaboratori, attori, tecnici. Persone diverse per ciascuna fase del mio percorso.

Perché la mia vita è stata fatta di stagioni ben distinte. C’è stato prima il grande sogno della musica, che si è infranto. Poi l’amore, il corteggiamento, quella ragazza che è diventata mia moglie – la vicenda forse più coinvolgente della mia esistenza. E infine è arrivato il cinema. In ognuno di questi momenti, ci sono stati testimoni preziosi: persone che hanno camminato con me, che hanno creduto in me, anche quando i risultati non erano esaltanti.

Vorrei poterli abbracciare tutti in un’unica immagine. In parte, lo faccio: a casa mia, a Roma – ora sono in campagna – ho una parete che chiamo la Via degli Angeli. È il mio personale fotogramma, composto da piccole foto, da ritratti di un centinaio di queste persone a cui devo tanto. È una sorta di Spoon River della mia vita. Un luogo della memoria, ma anche di gratitudine.

Il cinema è ancora uno specchio della società o si è trasformato in una fuga dalla realtà?

Oggi la televisione, con la sua immediatezza, riflette il 70-80% dello specchio sociale, ruolo che un tempo era del cinema. La TV cattura il reale in tempo reale, mentre il cinema arriva in ritardo, almeno un anno dopo i fatti. Questo non è necessariamente un male: il tempo permette riflessioni che l’istantaneità televisiva nega. Quindi il cinema della realtà, come lo chiama lei, è un cinema molto marginale. Oggi si vede che i successi dei film, i pochi semi successi italiani dei film, sono tutti basati su una sorta di evasione dalla realtà, di ricerca di qualcosa che sia totalmente rassicurante. Quando vai a proporre racconti di una certa inquietudine, come per esempio il mio ultimo film, il pubblico tende a rifiutarti, una volta la gente cercava la paura nei film, adesso cerca soltanto l'evasione, la rassicurazione, l'allontanarsi dalla realtà.

Vero, i tempi sono cambiati. Forse e purtroppo, oggi, le persone hanno più problemi di una volta.

Esattamente. Avendo più problemi e più paure la gente ha meno voglia di aggiungere angosce. Il cinema che facciamo, per esempio gotico dell'orrore, della paura, del thriller, fatica molto a trovare il suo pubblico.

Se oggi fosse un giovane regista esordiente, si sentirebbe più libero o più ingabbiato rispetto agli inizi della sua carriera?

Rischierei di sentirmi omologato, ed è una delle cose peggiori. In 57 anni di carriera, io e mio fratello abbiamo sempre evitato il mainstream, le regole preconfezionate, i cast obbligati. Abbiamo sempre giocato non a regola, abbiamo sempre tenuto un nostro comportamento e questo ci ha permesso di dare continuità al nostro lavoro. Prima c'era Monicelli e Carlo Vanzina, ma ahimè se ne sono andati entrambi. Adesso sono rimasto io quello che può vantare più titoli. L'essere fuori dal coro ha giustamente un prezzo e noi lo stiamo pagando, tuttavia stiamo continuando a lavorare. Io non posso dire che ci sia stato nessuno che mi abbia osteggiato, che mi abbia impedito, anche perché poi abbiamo quasi sempre praticato quel basso costo che io continuo ostinatamente a proporre come l'unica soluzione che il cinema italiano ha adesso davanti a sé.

Ha raccontato spesso il passato con un velo di malinconia. È più crudele il tempo che passa o il tempo che non arriva mai?

Dipende da quale sia l'osservatorio. Il tempo che non arriva mai è evidente che ha a che fare con la prima parte dell'esistenza. Quando tu non vedi l'ora di essere affrancato, soprattutto quelli della mia generazione che erano veramente in qualche modo condizionati dalla famiglia, dai genitori, dalla scuola, da una serie di regole per le quali diventare adulti significava liberarsi da tutti questi impegni, cosa che i ragazzi di oggi vivono in modo molto più relativo.

Ma poi nella seconda parte, dopo lo scollinamento, quando comincia a prevalere il passato sul futuro, cioè proustianamente il ricordo diventa più importante dell'immaginare il futuro, è evidente che lì, nella seconda parte della vita e soprattutto nell'ultima parte della vita nella quale io mi trovo anagraficamente, il futuro è angoscioso, è un muro al di là del quale non sai cosa c'è. Sei in una situazione in cui per avere la sfrontatezza di continuare ancora a immaginare delle storie, bisogna recuperare quel ragazzetto che è rimasto dentro di te e che fortunatamente io ho sempre tenuto in vita e che illusoriamente in certi momenti mi induce a credere di avere ancora davanti a me un futuro sconfinato, ma è una menzogna che io dico a me stesso.

Quindi se potesse parlare a quel bambino, a quel ragazzino che è stato, gli racconterebbe la sua vita o preferirebbe lasciarlo sognare?

No, no, lo lascerei sognare. Non posso lamentarmi della mia vita: rispetto a tanti miei coetanei, sono stato più tenace e sì, anche più fortunato. Ho sempre trovato il modo per raccontare chi sono, e credo che questo sia il vero problema dell’essere umano: riuscire a dirsi agli altri attraverso quello che fa. Non importa se scrivi, dipingi o fai il meccanico: se ti senti rappresentato da ciò che fai, allora sei una persona realizzata. Il vero fallimento è vivere come un ingranaggio sostituibile, senza alcun senso profondo nel proprio fare. Ed è purtroppo la condizione della maggior parte delle persone. Un modo di vivere secondo me totalmente sbagliato.

Assolutamente d’accordo. Ora le cito una frase di quella bellissima lettera che ha scritto a sua moglie, che dice: “… Il mio amore per te non è mai stato qualcosa che ho dovuto rinnovare, perché non si è mai consumato. Mi hai insegnato il senso del tempo perché accanto a te ogni giorno non è mai stato sprecato...”. C'è una frase fra quelle che ha scritto sua moglie che oggi le fa ancora tremare la voce?

Quella lettera che ho scritto a mia moglie è una lettera che ho avvertito necessaria in un momento in cui ho l'età sufficiente per potermi permettere di analizzare la vita in tutte le sue fasi, in tutte le sue stagioni. Una lettera così vent'anni fa non avrei neppure avuto la necessità di scriverla, ma adesso, avendo praticamente vissuto quasi interamente tutta la mia vicenda umana, posso dire che quella lettera, è una lettera di riconoscenza, soprattutto nei riguardi di una persona che mi ha dato 60 anni della sua vita, avendo in cambio non tantissimo, perché io praticamente, svolgendo l'attività che svolgo, è evidente che in molti casi ho anteposto la mia professione, a tutto, quindi magari non sono stato sempre così presente, così infusivo, così attento a quelle che potevano essere le sensibilità delle persone che mi erano vicine, non solo mia moglie, ma anche i miei figli, anche mia madre. Quando fai un mestiere di così alta competitività come quello che faccio io, è evidente che devi essere sempre in trincea.

E sua moglie cosa ha detto quando ha letto questa lettera?

Non l'ha letta.

Però ne ha sentito parlare… Non ha manifestato in qualche modo il suo pensiero?

Non lo so, non ne abbiamo mai parlato. Del resto deve capire che ad una certa età, i rapporti diventano laconici, diventano essenziali, si riducono quasi, non voglio dire in un silenzio, però è tutto in qualche modo considerato come acquisito, dato per scontato.

In quelle belle parole c'è dentro tutto?

Sto scrivendo un libro che si chiama Rinnamorarsi: non dell’amore romantico, ma della vita stessa. Quando senti avvicinarsi la fine, tutto si illumina di nostalgia: i libri comprati e mai letti ed io, bibliofilo, ne ho troppi, i luoghi non visti, le persone mai incontrate, le riconciliazioni mancate. Ci sono un'infinità di cose che già quando arrivi alla mia età incominci a vedere con una sorta di nostalgia, come se fossi destinato a non vederle più, come se fosse l'ultima volta che le vedi, capisce? Quindi è uno sguardo particolare quello là, che ti porti dentro senza sapere cos'è la fine della tua vita, com'è fatta la fine, perché nessuno è tornato a dircelo.

Purtroppo è così, nessuno è mai tornato a dirci cosa c'è dall'altra parte…

Se c'è un'altra parte… E com'è.

Lei in un'intervista disse di aver parlato dell'aldilà con Fellini. Come immagina il suo personale aldilà?

Il mio personale aldilà l'immagino come un immenso giacimento di allucinazioni ipnagogiche, ho scritto anche un romanzo che si chiamava L’Archivio del diavolo ispirato alla teoria di uno studioso americano dell’Ottocento. Si tratta di quelle visioni che arrivano appena prima del sonno: volti, luoghi, suoni, mai visti né vissuti, completamente estranei alla propria esperienza. A differenza del sogno, che richiama sempre qualcosa di tuo, queste immagini sembrano venire da altrove. L’ipotesi è che, dopo la morte, ognuno di noi lasci in questo immenso archivio tutti i propri pensieri e che quelle visioni siano frammenti ricevuti da lì, telepaticamente. Una teoria affascinante, che spiegherebbe come il nostro pensiero riesca a creare l’impensabile.

L'uomo moderno secondo lei è più libero o più solo?

L'uomo contemporaneo è più solo perché gli abbiamo rubato la speranza. Un tempo, nella cultura popolare, esisteva il – per sempre – lo pronunciavi quando ti innamoravi, anche se poi la vita a volte smentiva quelle promesse. Oggi quel – per sempre – sopravvive solo in relazione alla morte.

Il proselitismo laico moderno ci ha convinti che tutto finisce con la nostra esistenza. I più fortunati, quelli che hanno successo e benessere, diventano quasi evangelizzatori di questo nichilismo, rassicurando gli altri che non c'è un aldilà. Ma questa è una filosofia che solo chi ha una vita comoda può permettersi.

E quelli nati nell'ingiustizia? Quelli che hanno conosciuto solo sofferenza e fame, e sono morti nello stesso modo? A loro cosa diciamo? Che tutto finisce nel nulla? La privazione della speranza è la più grande crudeltà della modernità. Ad una madre che per esempio ha perso un figlio, togliere l'illusione che magari lo potrà rivedere dopo la morte, anche se non è vero. Perché togliere la speranza. Che vantaggio le diamo a togliere quell'illusione?

La vita deve rimanere piena di illusioni e di sogni.

Esattamente. E bisognerebbe recuperare quel senso sacrale che avevano le cose e soprattutto la riconoscenza nei riguardi di chi ci ha preceduti. Lei adesso nelle migliaia di interviste che vengono fatte, perché ormai la televisione è quasi fatta solo di dibattiti e di interviste, quando intervistano un personaggio di una certa notorietà politica, di spettacolo, di cultura, lei ha mai sentito parlare dei genitori? I genitori sono delle figure, le figure genitoriali sono state totalmente abolite, il passato non esiste, tutto quello che hanno fatto è merito loro. È una cosa di un'ingiustizia assoluta.

Esattamente, i più dimenticano che i genitori sono le nostre radici.

Va ricordato che gran parte di quello che abbiamo, cioè il 99,9% di quello di cui noi ci troviamo, sia a livello tecnologico, sanitario, in qualsiasi ambito, è il frutto di studi, di fatica, di lavoro di chi ci ha preceduti. Noi godiamo di una serie di privilegi che ci derivano dai nostri genitori, dai nostri nonni e dai nostri bisnonni. Non citare mai il passato, rimuovere completamente il passato, appropriarsi di questo presente usandolo in un modo così indecente, è sbagliato.

Il vero problema sono gli scarti, come liberarsi dalla spazzatura, dalle tonnellate di cose che eliminiamo senza pensarci. È lì che si percepisce che qualcosa non va. Mentre, dall'altra parte del mondo, c'è chi vive una lotta quotidiana per sopravvivere con nulla, spogliato da quel che noi sprechiamo senza sosta. Quindi siamo veramente, secondo me, indegni di vivere questo presente. Non ce lo meritiamo.

Come non essere d’accordo con lei. La spaventa di più il futuro o i rimpianti?

Evidentemente il futuro. Il futuro perché non ne conosco l'entità, la quantità, la tempistica. Alla mia età il futuro è ringraziare tutti i giorni che ti svegli e dici ma sono vivo? Ecco, è già una cosa che ti mette in una sensazione di precarietà che è giusta, che è lecita, delle persone anziane.

C'è un profumo della sua infanzia che quando lo sente la riporta immediatamente a casa?

Forse il profumo che era quello del cassetto di mia madre, del Borotalco, dove teneva i soldi e il Borotalco. Allora quando mi dava i soldi o quando andavo a rubare i soldi, aprivo quel cassetto e usciva questo profumo di Borotalco inebriante. Sì, forse solo quello.

Se potesse incontrare i suoi genitori da giovani, cosa vorrebbe dirgli o chiedergli?

Beh, sarebbe una cosa meravigliosa perché i miei genitori li ho vissuti pochissimo, perché mio padre è morto quando avevo 12 anni e quindi ho vissuto per gran parte della mia vita con mia madre. Mi piacerebbe tantissimo vedere i miei genitori da ragazzi e di come mio padre abbia chiesto a mia madre di sposarlo. Mia madre la ricordo in tutte le età, fino a 86 anni quando morì, quindi un lungo periodo.

Mio padre me lo ricordo fino a 41 anni, era molto giovane quando è morto, quindi ho un ricordo molto vago. So certamente che lui aveva un'opinione su di me sicuramente più preoccupata che rassicurata, cioè mi vedeva molto timido, molto in difficoltà nel rapportarmi con gli altri, mi vedeva non bello, mi vedeva inelegante, tutto quello che non era lui. Lui era un uomo bellissimo, elegante, spiritoso, che piaceva alle donne, lui, un grande cultore d'arte, era un uomo di grande fascino e vedeva in me il suo contrario e quindi era sicuramente preoccupato.

Per concludere questa interessante, piacevole ed ampia chiacchierata, un'ultima domanda, chi è Pupi Avati?

Pupi Avati è sicuramente una persona che ha fatto di tutto per farsi amare e apprezzare dagli altri. Ma ciò che mi riconosco, forse più di ogni altra cosa, è una qualità che definirei evangelica: non fare distinzioni tra gli ultimi e i primi. Sono sempre stato colpito da chi soffre, da chi è in difficoltà, e ho sempre cercato di tendere una mano. Non c'è nulla di falso in questo, è una lezione che mi è stata trasmessa da mia madre, una donna straordinaria in tal senso. Così, anche nei miei film, nei miei cast, cerco di dare spazio a chi è rimasto un po' indietro, a chi arranca, piuttosto che rincorrere il richiamo delle star.

Parlare con Pupi Avati non è stato solo un viaggio nel cinema e nella vita, ma un ritorno a quella verità che solo i grandi narratori sanno svelare: il tempo non cancella, il tempo sedimenta.
Nel 1998, le sue parole furono una risposta, un segno, forse un presagio. Oggi, a distanza di anni, si torna a quel punto, come in una sceneggiatura perfetta, dove nulla è davvero lasciato al caso.
Forse era già scritto che questo dialogo dovesse avvenire, che le nostre strade si sarebbero incrociate di nuovo. Perché, come nei suoi film, la vita non è mai solo ciò che sembra, ma un intreccio misterioso di coincidenze e destini.
Abbiamo parlato di ricordi, di amori che sfidano il tempo, di paure che non si dicono, di quel filo sottile che lega il presente all’eternità. E ora, mentre questo incontro giunge alla fine, resta una domanda sospesa, dolce e malinconica come una scena che sfuma nel buio: e se tutto quello che abbiamo vissuto fosse solo l’inizio di qualcos’altro?
Forse la risposta è nascosta in quel lontano 1998. O forse, come nelle storie più belle, la risposta è nel silenzio che segue.