Da qualsivoglia prospettiva lo si guardi adesso, e quale che a posteriori ne sia la messa a fuoco, il Barocco letterario ben si adatta, e da subito, a descrivere le anamorfosi del corpo umano, le sue mille possibili tortuosità, le giravolte, gli intrichi, le sporgenze. Il suo anarchico tripudio lessicale, che non si limita alle prodezze dello spirito e che deborda oltre ogni norma di prudente contenzione, non può che accendere una carnalità fastosa e dirompente, spesso persino esaltatissima.

Tuttavia, non soltanto «l’aurea selva» di una chioma o il «dolce sentier» che passa in mezzo ai seni è τόπος privilegiato del Barocco: per il suo caratteristico furore espositivo – che già di per sé risulta «voluttuoso e macerato; cerimoniale e intriso di morte» (Manganelli) – è il corpo in quanto tale, preso nella sua tangibile fisicità, a dare propulsione a questi afflati. Parallelamente alle voluttà sinuose e morbide dei corpi, non fanno dunque eccezione i corpi invalidi, sfiancati, derelitti, e persino quelli dei martiri vengono esibiti nella loro sofferente nudità, nell’atto di subire torture e umiliazioni. Una disposizione che origina probabilmente dalla familiarità secentesca con la morte, intesa mai come decesso naturale o transito verso un nuovo mondo di rinascita ma sempre come irrimediabile disfacimento e corruzione, tanto da non risparmiare questo incipiente processo di rovina neppure alle delizie carnali dei giardini di Adone: «Senza morir morendo ogn'ora», scrive Tommaso Gaudiosi, «riconosco la morte in ciò che scerno: / tante volte si muor pria che si mora».

Quando oggigiorno si parla del Barocco è impossibile prescindere dall'ormai celebre lezione di Omar Calabrese, secondo cui più che una scuola o una corrente collocabile fra il Seicento e i primi anni del secolo successivo si tratterebbe più che altro di un'attitudine che valica certi confini temporali: «Non solo e non tanto un periodo determinato e specifico della cultura, ma un atteggiamento generale e una qualità formale dei messaggi che lo esprimono. In questo senso, ci può essere del Barocco in qualsiasi epoca della civiltà. Barocco è insomma quasi una categoria dello spirito»1.

Se, seguendo il percorso sinora tracciato, diamo uno sguardo oltre il Barocco propriamente detto, ovverosia a quelle sue irriducibili elongazioni che attraversano i secoli per giungere alle soglie del presente, si potrebbe scoprire addirittura una certa inclinazione – o chissà, forse solo un’indulgenza – verso ciò che è malato e sofferente, che si corrompe, che trasfigura nel dolore. Più dell’equilibrio armonico dei corpi sani, gli scrittori neobarocchi hanno scelto di plaudire ematomi e tumescenze, putredini e rigonfiamenti, come se nel rigoglio della fermentazione risiedesse l’equivalente corporale del potere germinativo dell’eloquenza.

Gli esempi di questa propensione novecentesca per la corruttibilità dei corpi e la materia marcescente potrebbero essere numerosissimi, tanto da ricadere in quella che Eco ha brillantemente definito «Vertigine della lista». Onde evitare quindi un semplice accumulo di segnalazioni bibliografiche, scegliamo di riportare alcuni passi emblematici – tratti, per dovere di sintesi, soltanto dalla letteratura italiana – che possano in qualche modo fungere da breve ma efficace campionario.

I piedi del commendatore De Magistris posavano nudi, i calcagni avvicinati, sparsi dell’inquietante violetto della putrefazione, macchiati qui e là da una chiazza livida, dalla rosellina di un’ecchimosi. Un’ombra azzurrina saliva dalla regione plantare, empiva l’arco, riempiva il calcagno, si avventurava sotto l’astragalo. Questo era grosso come noce, e attorno vi si attorceva turgida una vena, al modo di una serpe. Fitta una rete di altre vene spaziava per il dorso, tumide queste pure e turchine, sotto le quali tentavano affiorare le corde vibranti dei metatarsi.

(Alberto Savinio, Il canto della solitudine ovvero il naufragio del commendatore)

Attraverso un continuo ricorso ai cromatismi e al mondo sensibile della vista, l'immagine dei piedi descritti da Savinio – come già lo erano le descrizioni corporee dei poeti barocchi dei secoli precedenti – diventa prontamente visualizzabile dal lettore, e, complici le immediate analogie col regno animale e quello vegetale, è vivida come le metamorfosi impresse nelle sue tele più immaginifiche e spericolate.

Apparentemente diverso l'approccio di Tommaso Landolfi, il quale fissa il proprio sguardo – e con esso quello del lettore – su una specifica parte anatomica che, in ambito artistico-letterario, è generalmente divisa fra la spinta dell'eros e la purezza della maternità:

Una mammella: ma era una mammella di donna il qualcosa che, nudo ed abbietto, abbiettamente nudo, nudamente abbietto, mi stava davanti nella luce dorata? Al contrario, turpi grinze segnavano, verso la punta, quella pallida carne bensì rigonfia ma come per morbo; e smorta, malata, appariva l’areola che in petto davvero femminile ha vivezza di gengiva, qui perfino contornata da lunghi peli neri; e per ultimo orrore, per ultima ignominia, nel lungo capezzolo (supremo vanto) era una sorta di buio e flaccido fesso, simile a bocca di vecchio sdentato.

(Tommaso Landolfi, Petto di donna)

A ben guardare, anche stavolta i ricorsi più frequenti sono tanto alla sfera percettiva dello sguardo – vilipeso, come nel caso precedente, dai segni del disfacimento che sulla carne imprimono il loro marchio ineluttabile – che a quella della similitudine, qui insistita nel porre in rapporto il seno con qualcosa che a prima vista appare incongruo: la bocca. D'altronde, in questi esempi che abbiamo definito neobarocchi emerge una tendenza all'impasto verbale che figurava già nelle creazioni letterarie dei poeti barocchi, e che, allora come adesso, si caratterizza per rapporti fittizi e allusioni che talvolta si sottraggono persino al campo della razionalità.

Ma purché la gangrena si allontani da me, ogni orrore mi è bello. Talvolta la elimino con un cavo ritorto: giratolo attorno alla coscia ne affido i capi a un martinetto, e stringo, stringo, stringo: la gamba diventa viola e si gonfia, poi si crepa come un popone lasciato a semenza, mentre le pustole spurgano sanie come fontanelle: finalmente, tranciati di un colpo i tessuti, il cavo si stringe intorno all’osso, lo intacca stridendo, ne sfarina la sostanza porosa, lo fende: l’opera di un lapicida.

(Michele Mari, La stiva e l’abisso)

Con l'artificio narrativo della prima persona, Mari offre in questo nostro ultimo esempio, una prospettiva diversa che obbliga il lettore a figurarsi ciò che il protagonista – immobilizzato a letto da una gamba incancrenita – va a sua volta immaginando per liberarsi dal male che, sotto i suoi stessi occhi, lo affligge e lo consuma. Al pari dei modelli precedenti, anche qui l'uso dell'analogia risulta fondamentale per creare un disegno quanto più fastidioso e ributtante, in grado sia di turbare che di rendere l'idea della fermentazione e quindi del divenire della materia corruttibile2.

A differenza del passato, però, il corpo malato descritto dagli scrittori neobarocchi non è espresso nella sua interezza, come accadeva nel Seicento volendone significare la vulnerabilità alle oppressioni che il tempo vi infligge giornalmente. Il Novecento, che inaugura una sorta di canone giocato sul corpo come laboratorio di metamorfosi, da Marcel Dushamp in poi si avvale per lo più di frammenti del corpo umano, quasi una restituzione del reale in termini di frantumazione3. Se il Barocco aveva veicolato il concetto del corpo come imago dei soltanto transitoria, ma collocato in ogni caso in una dimensione estetica che ne avvalorava la totalità, l'età Neobarocca, sfruttando l'ampliato corollario di patologie sistematizzato dell'odierna scienza medica, sembra concentrarsi invece sulle singole porzioni dell'anatomia umana, così da portare alle estreme conseguenze quella particolare sensibilità che trae linfa dai segni della fine e che pertiene inevitabilmente alla relatività dei valori estetici.

Note

1 Cfr. Omar Calabrese, L'età Neobarocca, Laterza, 1987.
2 Come affermava già Karl Rosenkranz nella sua Estetica del Brutto: «Per poter comprendere il brutto è necessario intenderlo non come qualcosa che esiste davvero, ma come qualcosa che diviene».
3 Questo avveniva anche in precedenza, vale a dire già nel Settecento, ma è Duchamp che, di fatto, inaugura una nuova e radicale frammentarietà che trova ragion d'essere nella temperie culturale novecentesca.