Mentre la prima neve comincia a scendere sulle strade di Stoccolma, Björn approda in un nuovo ambiente di lavoro. È un impiegato meticoloso e rigido, ma anche un subdolo arrivista, determinato a compiere la classica scalata e fare carriera in seno a una non ben delineata Amministrazione. Per i colleghi ha pochissimo rispetto e ne detesta ogni attività che esuli anche in parte dalle loro mansioni impiegatizie. A ragion di ciò, non prende parte a nessuna delle pause caffè che gli altri si concedono con una certa facilità ed evita persino di scambiare con loro qualche rapida battuta. In uno dei corridoi, tra l'ascensore e la toilette, ha intanto scoperto una stanza che sembra non essere utilizzata da nessuno ed è lì che trascorre i momenti in cui si allontana dalla propria scrivania. La stanza, che all'apparenza è un semplice e ordinato ufficio con tutte le suppellettili del caso, gli trasmette un senso di quiete e di durevole benessere, come una carica di energia supplementare. Le visite si susseguono quindi con regolarità, finché un giorno qualcuno inizia a lamentarsi di qualcosa che crea inquietudine fra il personale: Björn, dicono, si piazza davanti a una parete, quella dove secondo lui dovrebbe trovarsi la porta della stanza, e vi rimane immobile, improvvisamente vitreo e come in catalessi. Lui si difende sostenendo che non c'è nulla di male a defilarsi per qualche minuto all'interno di una stanza che nessuno usa, mentre i suoi colleghi, compreso il capo della divisione, negano strenuamente l'esistenza di questo piccolo ambiente.

Håkan mi ha guardato negli occhi, incrociando ancora una volta le braccia.
– È così che rimani, immobile.
– E dove?
– Laggiù, contro il muro.
– Per favore, Håkan, fammi vedere. Vorrei che mi mostrassi esattamente dove.
Mi ha scrutato con aria sospettosa. Alla fine si è alzato, svoltando l'angolo del corridoio. Io l'ho seguito, finché ci siamo fermati proprio davanti alla porta della stanza.
– Qui, ha detto Håkan.
– E cosa farei io qui?
– Nulla. Rimani così, completamente immobile.
– Davvero?
– Sì, ed è abbastanza spiacevole. Merda, sei talmente immobile! Come fai a stare fermo a quel modo, senza muovere nemmeno un muscolo? È come se fossi completamente altrove.

La stanza dello svedese Jonas Karlsson1 sarebbe un ottimo romanzo, impegnato – ma non engagé – a far riflettere su conformismo, esclusione, intolleranza, paura della diversità e del giudizio altrui, alienazione, gerarchie e sistemi burocratici. E data la natura imperscrutabile dell'Amministrazione in cui Björn è deciso a farsi strada, si potrebbe cedere anche alla facile definizione di «kafkiano», sebbene in una versione aggiornata che riposiziona questo aggettivo all'interno della vita da ufficio del XXI secolo.

Abbastanza facilmente lo si potrebbe ricollegare anche alle teorie dell'antropologo David Graeber, secondo cui, obbligati dall'odierno sistema economico e sociale, molti di noi impiegano il proprio tempo in attività vuote e di nessun beneficio che non sia quello della mera remunerazione2. Seguendo il protagonista, impegnato a convincere gli altri dell'effettiva esistenza della stanza, scopriamo infatti le dinamiche tra lui e i suoi colleghi e le politiche interne dell’ufficio con tutte le vacue lotte di potere che ne derivano. Se Björn è un individuo paranoico, intriso di manie egocentriche che lo svincolano dalla circostante realtà del quotidiano, i nuovi colleghi non sono forse migliori e la sua irruzione non fa che scardinare l'ordine costituito di un microcosmo – l'ufficio – nel cui lato oscuro dominano l'instabilità, la solitudine e l'invidia.

Non c'è dubbio che al lettore di La stanza si offra uno sguardo critico sul mondo del lavoro e sulle sue articolazioni, con tutta la futilità delle gerarchie e dei compiti assegnati. Tuttavia, il libro di Jonas Karlsson non è soltanto questo e non è soltanto un ottimo romanzo: è anche qualcosa in più. Se ci fossimo trovati per le mani una storia narrata in una terza canonica persona, avremmo avuto un buon racconto, inappuntabile e robusto, percorso senz'altro anche da una certa Spannung. Optando invece per la prima persona, l'autore non ha compiuto soltanto una scelta un po' audace, ma alla sua opera ha concesso un multistrato di possibilità interpretative che altrimenti non sarebbe apparso. È nel seguire passo passo questo burocrate altezzoso – insofferente verso la bavarderie dei suoi colleghi e ostinato nel volerli scavalcare – che attraversiamo nel frattempo tutti gli ostacoli del dubbio e i suoi vicoli contorti.

La fantasia di Björn ha dato vita a un ambiente asettico, su misura per i suoi bisogni compulsivi? Oppure la stanza esiste veramente ma gli impiegati, beffardi e di concerto, ne affermano l'assenza? Il protagonista è un odierno Don Chisciotte che ancora una volta non può fare a meno di scagliarsi contro i suoi personalissimi mulini? C'è forse un velo di Maya da scostare per giungere alla verità o, al contrario, un utile nascondimento?

Nel leggere le pagine di questo romanzo è impossibile tenere a freno le domande, e se altrove un simile processo porterebbe inevitabilmente alla confusione, qui non fa altro che infittire la trama – e arricchirla – di tanti possibili significati. Inutile cercare poi una risposta univoca a ognuno dei quesiti, né cercare un solo filo conduttore o tanto meno provare a risolvere l'enigma della stanza come si farebbe di norma tra le pagine di un giallo.

Indipendentemente da ogni possibile sentenza, il nucleo centrale del libro risiede nel suo potere allegorico, nella metafora della «stanza» come luogo interiore, profondo, intimo, inaccessibile agli altri e per questo anche incomprensibile, da loro giudicato il più delle volte non come necessità spirituale o salvifico rifugio di un carattere introverso ma come sintomo nevrotico da guarire a tutti i costi. Non a caso i colleghi e il capoufficio di Björn avvertono con timore e in certi casi persino con repulsione questo suo mondo interiore, e poiché non riescono a comprenderlo non possono fare altro che negarlo. Da ultimo, non ottenendo risultati, arrivano persino a delimitare la zona con del nastro adesivo affinché tenerlo lontano dal muro proibito. Nessuno cerca di instaurare un pur superficiale processo ermeneutico, a nessuno interessa capire il ruolo che la stanza, concreta o astratta che sia, possiede nell'universo esistenziale del protagonista. Ogni dipendente è concentrato soltanto su se medesimo – come Björn stesso, d'altronde – e sulle reazioni avverse che questo scarto dalle consuetudini riesce a provocare. Il protagonista del romanzo è un arrivista tanto quanto loro, ma lo è in modo diverso, lontano dalle convenzioni che regolano gli equilibri precari dell'ufficio e idiosincratico verso quelle regole cui tutti gli altri devono giocoforza sottostare.

Ma che la stanza esista o meno nella realtà, si tratta pur sempre della sua stanza, e così, eludendo presto la sorveglianza dei colleghi, Björn trova comunque il modo di riappropriarsi di questo spazio entro cui – come in un protettivo ventre materno – soltanto lui è in grado di trovar conforto:

Lì dentro era buio e dolce. Incredibilmente pulito, senza linee né giunture. Niente angolazioni o spigoli, dove la sporcizia potrebbe essere occultata. Nessuna luce. Nessun suono. Il profumo, lì dentro, mi faceva pensare al mare e ai lillà, e a Sankt Paulsgatan, all'incrocio di Bellmansgatan, alle cinque del mattino, verso la fine di maggio.
Li ho sentiti pronunciare il mio nome, da lontano, e allora ho pensato: Voi qui non mi troverete mai.

Note

1 Jonas Karlsson, La stanza, ISBN Edizioni, 2014.
2 David Graeber, Bullshit Jobs, New York, 2018. Dello stesso autore Cfr. anche l'articolo Il secolo del lavoro stupido apparso su Internazionale, 1023, 25/31 ottobre 2013.