Quando il sedicenne Karl Rossmann, mandato in America dai suoi poveri genitori perché una donna di servizio lo aveva sedotto e aveva avuto un bambino da lui, entrò nel porto di New York sulla nave che ormai procedeva lenta, la statua della Libertà già osservata da un pezzo gli apparve come nella luce di un sole divenuto di colpo più intenso.

(Franz Kafka, America)

Quella sera entrammo in auto e ci dirigemmo sulla Route 66. Era già buio. Guidammo per un’ora circa e non riuscimmo a vedere nulla d’interessante ma, pensammo che ci avrebbe fatto bene prendere un po’ d’aria. La strada era silenziosa e deserta. Intravedemmo qualche curioso edificio che ci promettemmo di tornare a visitare di giorno, anche se non lo facemmo mai. Tornati a casa litigammo un po’, di nuovo, ma questa volta senza astio e senza forza. Se ci amavamo o dipendevamo l’uno dall’altra, questo non lo sapevo ma, ero rimasta e mi ritrovai a lavorare sulla Classen Boulevard.

Sento bussare alla porta. È Chad. Lo guardo il tempo sufficiente per pensare che non voglio finire di nuovo nel suo appartamento, seduta a gambe piegate sulla moquette blu, sul lato lungo del letto, mentre fruga nel comodino, in cerca di qualcosa da fumare. Mi piace parlare con Chad. Si vede che vive solo. A volte lo invidio. Fa quello che vuole, quando vuole. Come me, prima di Nick. La cucina è semivuota e l’ambiente poco arredato. Sembra predisposto per non disturbare una mente libera. Quell’appartamento è troppo per me, adesso che mi sento stretta. Chad resta sull’uscio. Mi guarda con quegli occhi strani, imperscrutabili, come sempre. Non so se mi pianterà un coltello in petto o mi chiederà più semplicemente di parlare dell’ultimo libro letto. Esito nell’invitarlo ad entrare nel mio spazio e lui trova il tempo per dire “Accompagnami a comprare una cravatta”. I suoi occhi sono troppo scuri, il colore troppo netto, i capelli troppo neri e folti. Non posso rifiutare. Chad non è molto alto, la sua immagine è compatta e pesante. C’è qualcosa di poco rassicurante in lui, quasi di preoccupante. Entriamo in auto.

Oklahoma City è vasta e le strade, lunghe e spaziose. Non dobbiamo parlare per forza. Mi lascio andare, guardando rilassata fuori. Spazio, banca, spazio, fast-food, spazio, clinica. Non la avevo notata prima. Il telefono squilla. “La chiamo da Acme Dog & Cat Hospital, abbiamo ricevuto il suo curriculum, il chirurgo vorrebbe parlare della posizione lavorativa”. Non so cosa intenda. Torno di nuovo alla strada. Fisso di nuovo la clinica. Mi stanno chiamando da lì. C’è un equivoco, cerco di spiegare ma, insiste. “Il chirurgo ha notato che è italiana. Deve vederla. Adora l’Italia”. Chad mi accompagna ogni mattina, sette e trenta nell’atrio. L’ho conosciuto in piscina, mentre leggevo Vonnegut. Qualche volta condividiamo la pausa, seduti sul muretto, sul retro, con rispettivi pranzi sulle gambe. Quando la neve è troppo alta per uscire, vado nel seminterrato e chiacchiero con Ralph, l’addetto alla toelettatura, consumando un pasto freddo. A volte mi passa a prendere Pam e per tutto il tragitto sono investita dalla sua esuberanza e dal suono con cui tira dalla cannuccia la soda dal grande bicchiere per poi riposizionarla nel vano sotto l’autoradio. Pam è di Chicago e si sente che non è di qui. In clinica, il mio livello d’inglese è insufficiente. Troppe vaccinazioni, sigle. Al telefono mi limito ad un “hold on please” e chiamo Matt. Di giorno lavoro, di sera metto in ordine, preparo lo zaino, sto con Nick, proviamo a parlare e prima di crollare del tutto, organizzo la cena, controllo la posta, riempio il cesto del bucato di scrubs macchiati e me ne vado al quarto piano, in lavanderia. È sempre umido lì, eppure indugio. Carico la lavatrice e mi sposto verso le cassette della posta bordeaux, lasciando per un po’ le gambe a penzoloni, seduta sull’isola al centro della stanza. Sbircio con scarso interesse e poi lentamente mi allontano verso l’ascensore, per poi ripetere lo stesso percorso, di nuovo, per l’asciugatrice. A volte dimentico i panni, e quando dal calore del letto alla mente ritornano, posticipo al mattino.

La schiena fa male e non sono sicura di ciò che faccio. Mi fermo a pensare alla pratica forense, al biglietto di ritorno, a una proposta di lavoro. Il piccolo appartamento, al ventunesimo piano del Regency Tower, assume ogni giorno, poco alla volta, l’aspetto di una casa. Abbiamo smesso di dormire sul pavimento e mangiare come a un pic-nic e abbiamo comprato mobili essenziali da Ikea a Frisco ma, continuo a guardare le scatole chiedendomi quando inizieremo a montare. Nessuno ha fretta. Ogni giorno alle 12.00, in città suona la sirena di controllo dei tornado e alcune volte, guardando il cielo, mi sembra un’ipotesi realistica. All’orizzonte si intravede lo State Capitol Building e nel bel mezzo solo case e palazzi bassi. Dall’alto vedo nativi americani e qualche cowboy direttamente estratto da un classico western. L’ultima lite si è conclusa con il volo del telefono di Nick da questo balcone alla piscina e con noi sulla strada.

Quel tardo pomeriggio, dopo il game degli Ohio State, fuori nevicava e i fiocchi erano grandi e cadevano come insetti con una folta pelliccia, luminosi e leggeri. Erano giorni che continuava a nevicare e di mattina, dopo i cereali, andavo dritta alla vetrata del salone e guardavo in direzione della piscina quasi invisibile, quella nella quale avevo nuotato a giugno con Lexus, il loro golden retriever. Ero a casa, in famiglia, anche se questa famiglia non era la mia. Avevo un fratello e un cugino che mi ripetevano che mi volevano bene, un ragazzo che da due anni viveva con me e mi abbracciava la notte. Dove stavo andando aveva un indirizzo, eppure mi sentivo persa. Il biglietto per Roma prevedeva il ritorno dopo dieci giorni. Uno zio ci aveva regalato una notte a Times Square. Di primo mattino, di buona lena, avremmo messo tutto in auto e saremmo andati a New York.

Me la sarei ricordata sempre fredda e ventosa. Non sentivo le gambe e le ginocchia erano due sfere di gelato. Camminammo parecchio, ci fermammo a volte a bere un cappuccino e una cioccolata calda. Aspettammo fuori al Letterman Show in stand by nella speranza di poter entrare ma, eravamo numeri trentasette e trentotto e lasciarono passare solo i primi ventiquattro. Tornammo in albergo e ci scaldammo a vicenda tra la doccia e le lenzuola. Ordinammo del cibo cinese che era troppo e lasciammo lì, a marcire nella stanza. Fumammo una sigaretta che era vietato fumare. Accendemmo il condizionatore e lo posizionammo con la lancetta sugli ottanta gradi Fahrenheit. Guardammo la fine di un film. Dormimmo ma, i miei occhi erano gonfi e Nick era di nuovo stanco dopo soli trenta minuti. Durante la notte avevo sudato e ricordavo di essermi alzata per andare in bagno a sciacquarmi il collo. Eravamo arrivati all’aeroporto con sei ore di anticipo per dargli la possibilità di viaggiare per Niles, con più luce possibile. Le strade, e ne avevamo viste di strade, tra l’Oklahoma e l’Ohio, non erano sempre ospitali. Prima di salutarci, gli avevo restituito l’anello che mi aveva dato la Pasqua passata, chiedendomi di sposarlo, con la promessa che avrebbe potuto ridarmelo al rientro ma, non tornai.

Ero in Italia da più di due settimane. Prendemmo un albergo nei pressi della stazione di Milano. Davide era abbattuto per la rottura con l’ex, io per aver lasciato gli States. L’albergo dall’esterno suggeriva un ambiente piacevole. Seguimmo mesti il nostro accompagnatore lungo il percorso che conduceva alla stanza. Lo scenario moderno veniva assorbito da un improvviso odore di stantio e le pareti giallognole supplicavano una ristrutturazione. Ci lasciò le chiavi e si allontanò verso l’ingannevole tragitto tra il vecchio e il nuovo. La stanza era buia, piccola e dalla finestra rettangolare e stretta si intravedeva l’angusto affaccio su un cortile interno. Senza parlare ci buttammo sui due singoli e a pancia all’aria non potemmo evitare di specchiarci nel soffitto a doghe dorate, che rifletteva le nostre immagini afflitte. Non ridemmo. Voltammo la faccia e dopo poco eravamo per strada diretti ognuno verso il proprio da fare. Ci incontrammo per un pranzo consumato al dopolavoro ferroviario e la sera ero sconfitta dal raffreddore. Mi addormentai abbracciata al rotolo di carta igienica, con gli occhi gonfi, il naso otturato, e un insopportabile rantolo che rendeva il suo riposo impossibile. Al risveglio parlammo appena. Mi sentivo a pezzi, gli chiesi di comprarmi i fazzoletti e gli rinfacciai il rifiuto per tutto il soggiorno. Una volta a casa, ricevetti una scatola che ne conteneva abbastanza, per tutti i raffreddori a venire.