Marco a volte torna a casa come fosse la Guernica di Picasso.
È guerra, è rivolta. Con sé stesso. E non lo sa.
Entra che è in bianco e nero. Un frame d’altri tempi. Sbiadisce mentre lotta.

Elia è un cronista di guerra, lo hanno inviato proprio in quella battaglia. La deve comprendere, raccontare. Vorrebbe tornare al più presto nella sua città, e solo dopo aver detto al resto del mondo che quel conflitto, finalmente, è diventato pace.

È in quella terra lontana da mesi ormai. Raccoglie informazioni, intercetta le fonti sicure, mette insieme tanti imprevedibili pezzi, definisce gli eventi, si muove tra macerie e speranza e poi informa, spiega, fa vedere come tutto, in terra, si agita o può ancora agitarsi.

Lo sovrasta lo sfondo di un cielo di notte, e non sono comete quelle scie di luce che ne graffiano il buio. Esplodono.

Eppure lui resta lì, concentrato e vigile, sotto quella cupola, crede nel silenzio e nella luce dell’alba.

Marco ha dentro al petto un bombardamento, gli tuona fino in testa.
L’assalto viene da fuori di sé, ma gli rimane dentro. Lo mastica, lo ingoia.
La guerra, stamattina, si è giocata tra il suo caffè amaro e lo zucchero del pan di stelle.

Elia, in collegamento diretto, fa notare come il caffè amaro di Marco abbia il sapore di un’alterazione, una cascata indecifrabile dello stare fuori posto, quello giusto, e, aggiunge, che lo zucchero di pan di stelle è una polvere presuntuosa che vorrebbe rendere tutto nuovo e dolce, per riportare ogni cosa al proprio posto. Sempre quello giusto.

Marco è diventato un soldato. Si scontra con lo zucchero, respinge la sensibilità, si arma di una lancia con punta d’astuzia, agisce di strategie, esercita continue prove di forza. Dice di combattere.

Essere forti è prevalere, crede lui. Allungare la propria ombra e fare buio sopra a quel terreno che gli è ostile. Lui vuole che sia raso tutto al suolo. Basta! È ora di demolire, e ricostruirci sopra un “è così che si fa”.

Elia invece è disarmato. Possiede solo qualche parola, un taccuino di significati che piegano la parola “forza”, che fanno rimbombare una nuova eco nella parola guerra.

Forza, commenta Elia, è disperazione accolta, è attraversare il campo e la battaglia senza armi e rimanendo nella parola pace, è una croce dalla quale non si scende, è non tradire sé stessi, è resistere a sé stessi, è inchinarsi, è lasciarsi accarezzare dall’alto di un pensiero buono mentre sei assediato da quelli cattivi, è una preghiera insistente, è assaggiare un poco di consolazione nell’abbondanza di un dolore.

Forza è scegliere di non comandare, credere in un altro o alto insegnamento, tradurre ogni volta la parola pace.
Forza è spirito.

Elia fa spostare l’inquadratura, chiede una messa a fuoco del disastro compiuto nella notte intorno a lui, lo stesso che circonda e indigna ogni angolo del mondo, proprio mentre accade, e come se a compierlo, dice, non fossimo stati anche noi, qui, con la nostra idea di diritti, di libertà, di giustizia, di desiderio, di guerra e di pace.

E alla fine, continua Elia, cosa facciamo in nome di quella libertà, e giustizia, e desiderio, e vero amore? Scegliamo di combattere, scivoliamo in una guerra quotidiana.

Osservate: i palazzi sono crollati, sono polvere, il soldato è in agguato, le strette di mano sono un braccio di ferro, le strade sono interrotte da auto fatte saltare in aria dai violenti, il parlare non è più gentile e il sorriso concesso è spesso beffardo, gli alberi del viale sono divelti, fanno natura morta, l’amore è criminale, le vetrine sono esplose, si parla gridando e alzando la voce o i toni di una testiera, i negozi devastati, il ladro è dentro casa, la concorrenza è sempre sleale, l’offesa è pesante, il figlio è ingrato, la madre è assassina, il padre è padrone, il lavoro è sporcato, la persona è frivola, la fumata è nera, la mente è delittuosa, il dire è opportunista o sguaiato, la bellezza è costruita, la vecchiaia disdegnata, il pane manca e dove c’è non si vuole spezzare.

Guardate: siamo in collegamento da Babele, dove si dice gioia e significa tristezza, si dice agio e si umilia il povero, si dice amore e si offende la lealtà, si dice sensibilità e si diventa indifferenti ad ogni male, si pronuncia sogno e si esprime l’incubo, si dice civiltà e si pensa da barbaro.

Marco sta uscendo di casa, ha chiuso la porta dietro di sé, ha lasciato Elia dentro allo schermo dell’Ultim’ora mentre illustra la traiettoria di un missile di cattive parole che ha fatto centro su un mucchio di sensibilità e di buoni propositi. Resta solo sangue.

Marco è pronto, o forse no, a combattere anche oggi. Volta le spalle alla casa, entra in macchina ed è subito nel traffico di un’umanità confusa, si crede soldato e invece è vittima. Come ti sei vestito oggi Marco? Hai indossato una divisa o i soliti jeans, quelli resistenti che si prestano a tutto.

Prima di uscire, di pensare, di parlare, di agire, c’è da vestirsi. Scegliere bene cosa indossare, magari una parola soltanto, e il cappello di una virtù.

È una continua Guernica, la forza. Stare in questa guerra mentre provi a dipingere armonia, vestirsi bene e non andare via dal proprio tentativo di essere non disumano.

Marco è uscito di casa. Elia è dentro casa e dentro lo schermo acceso. Nel suo sottofondo dice che l’unico modo per non stare in guerra è consegnarsi alla forza di una carezza, magari di cielo.